Venerdì, 31 agosto 2007
Domenica scorsa La Repubblica ricordava la famosa Summer of Love del 1967, in cui cento o duecentomila giovani invasero San Francisco. Ex beat, hippies, fuori di testa di tutte le specie o semplicemente gente in cerca di una scopata con qualche figlia dei fiori misero su una esagerata rappresentazione di un tramonto. Era la fine di un'epoca. Dopo ci sarebbe stato, nel bene e nel male, il 1968 e tutto il resto, ma questa è un'altra storia di un altro tramonto. Dieci anni prima, nel giugno 1957 cioè mezzo secolo fa, un certo Lawrence Ferlinghetti, piccolo editore di lontane origini bresciane, veniva arrestato e condotto in carcere a San Francisco, con l'accusa di aver pubblicato uno sconcio libretto di poesie intitolato "Urlo" di un tale Allen Ginsberg. Che Ginsberg sia stato il padre della cosidetta beat generation e delle sue derivazioni pop è a tutti gli effetti un luogo comune. Ginsberg era innanzitutto un uomo di vasta cultura (basta leggere le note ai suoi libri per rendersene conto) e un innovatore della prosodia americana che ha lasciato più eredità di quanto in genere si ammetta. I libri che ho di Ginsberg risalgono a molti anni fa (un "Juke box all'idrogeno" da mille lire, ad esempio..) e sono pieni di annotazioni e di liste di cose da fare come poeta, cose che poi non ho mai fatto, segno che per quanto giovane l'imprinting del Novecento italiano era nel mio caso già troppo forte per poterci innestare sopra cose come la scrittura spontanea o robe del genere.
Di vita e opere di Ginsberg è possibile reperire in rete un interessante abstract di Rossano Astremo qui, nonchè una sua traduzione di "America" qui, entrambi su Musicaos.
Per parte mia vorrei solo pubblicare qui la parte finale della poesia "Sulla tomba di Apollinaire", che mi ha sempre affascinato per la sua dinamica, una specie di zoom avanti - per dirla in termini cinematografici - che dà un esempio di una visione, in questo caso niente affatto psichedelica, della realtà come set di significati. La traduzione, va da sè, è di Fernanda Pivano.
(...)
una campana suona nel campanile giù per la strada
uccelli cinguettano nei castagni
la Famille Bremont dorme l' accanto nella sua tomba
Cristo è appeso con un gran petto e sexy
la sigaretta mi fuma in grembo e riempie la pagina
di fumo e fiamme
una formica mi corre sulla manica di velluto l'al-
bero al quale mi appoggio cresce lentamente
cespugli e rami s'innalzano attraverso le tombe una
ragnatela di seta luccica sul granito
sono sepolto qui e siedo accanto alla mia tomba
sotto un albero.
Martedì, 26 giugno 2007
Una poesia "estiva" del vecchio Robert Frost. Qualcosa di più della mera lirica agreste a cui Frost è sempre stato associato, descrittiva e bucolica: qui c'è una vera e propria meditazione, quasi zen (basta leggere l'inizio e la fine), sulla realtà delle cose e su quello che questa realtà sottintende o "sussurra", sull'arte e sulla poesia, su come la poesia nasca dalla realtà fattuale, dalla "verità" che è quella soggettiva del poeta e tuttavia universale, su come venga "falciata" e ordinata in solchi, una meditazione fatta con il linguaggio semplice del poeta, "as it is usually spoken", che ricorda a tratti l'altro grande americano W. Stevens. Qui nella bella traduzione di Giovanni Giudici, tratta da "Conoscenza della notte e altre poesie", Mondadori 1988
MIETITURA
Non si sentiva oltre al bosco altro suono che uno,
la mia lunga falce che frusciava al suolo.
Che cosa sussurrava? Non lo sapevo io stesso;
era forse qualcosa sul calore del sole,
qualcosa, forse, sull'assenza di suono -
Per questo sussurrava e non parlava.
Non era sogno del dono d'ore vuote,
o facile oro profuso da fata o da elfo:
qualunque cosa in più della verità sarebbe apparsa
debole al fermo amore che ordinò il prato in solchi,
non senza delicate lanceole di fiori
(orchidee pallide), e un fulgido verde serpente fugò.
Il fatto è il sogno più dolce che la fatica conosca.
La mia lunga falce frusciava, lasciava il fieno ammucchiarsi.
Domenica, 30 luglio 2006
Qualche giorno di ferie, finalmente...Si va nell'isola di smeraldo, l'Irlanda di Heaney e Yeats ma anche dei cieli cantati da Massimo Bubola, della birra e del whiskey. Vorrei pertanto (im)postare, tirandola fuori dal cassetto, una "cartolina" che risale agli anni '50, una poesia che Wallace Stevens scrisse dopo aver appunto ricevuto una cartolina che raffigurava le famose scogliere di Moher. Da quella semplice ispirazione di mare e rocce (e chi conosce Stevens sa che valore simbolico ha la roccia per lui), il poeta costruisce una delle sue tipiche poesie, una ricerca delle origini ultime della realtà, una realtà primigenia, o paterna, che viene "prima del pensiero, della parola" e che tenta di riscattarsi perfino dal linguaggio, dai "sonnambulismi della poesia e del mare". Aggiungerei le parole di M. Bacigalupo, il traduttore (oltre a R.Poggioli) di S. in Italia: "S. è alla ricerca dell'origine, il punto estremo, che poi si rivela roccia. La domanda iniziale dà al testo l'aspetto di un esercizio di riflessione, come un 'koan' nella pratica buddhista zen".
Le scogliere irlandesi di Moher
Chi è mio padre in questo mondo, in questa casa,
Alle fondamenta dello spirito?
Il padre di mio padre, il padre di suo padre, il...
Ombre come venti
Risalgono a un genitore prima del pensiero, della parola,
In capo al passato.
Risalgono alle scogliere di Moher che sorgono dalla nebbia,
Sopra il reale,
Sorgendo dal luogo e tempo presente, sopra
L'erba verde, bagnata.
Questo non è paesaggio, pieno dei sonnambulismi
Della poesia
E del mare. Questo è mio padre, o forse
E' come era lui,
Una somiglianza, uno della razza dei padri: terra
E mare e aria. (tratto da W.Stevens - Il mondo come meditazione - a cura di Massimo Bacigalupo - Guanda 1998)
Martedì, 18 aprile 2006
Continua la mia personale perlustrazione nella poesia femminile anglosassone, quella meno nota in Italia, che magari può essere definita intimista o confessionale, ma che rivela ogni volta una peculiare capacità nel setacciare la vita, con le sue gioie e le sue angoscie, e nel renderla in forma poetica.
Kim Addonizio è nata a Washington nel 1954 e si è laureata all’Università Statale di S.Francisco, città in cui vive e insegna. Ha pubblicato, ricevendo diversi premi e riconoscimenti, alcuni libri di poesia tra cui Tell Me (BOA Editions, 2000), finalista al National Book Award, da cui sono tratti i testi qui presenti.
Mercoledì, 22 febbraio 2006
In questi giorni ricorre il decennale della morte di Amelia Rosselli e molti hanno pensato di celebrare l'evento, in molti modi diversi. Della Rosselli si è detto molto, a cominciare dalla sua poesia sospesa in un terreno di confine, in una continua osmosi tra due lingue e, forse, due identità. Di difficile collocazione, tanto che è stata inserita con qualche disagio nella antologia "Poeti italiani del Novecento" di P.V.Mengaldo, che, quando uscì, intendeva essere esaustiva del panorama poetico italiano giunto alla fine degli anni Settanta. In maniera un pò ellittica (in questo blog non potrebbe forse essere altrimenti) colgo qui due piccioni, riproponendo un testo di una poetessa che amo nella traduzione di un'altra poetessa ugualmente amata, che ci ha messo del suo. Entrambe sublimi, entrambe travolte dall'impossibilità di trovare infine una catarsi poetica alla tragedia dell'esistere...
MORNING SONG di Sylvia Plath
Love set you going like a fat gold watch.
The midwife slapped your footsoles, and your bald cry
took its place among the elements.
Our voices echo, magnifying your arrival. New statue.
In a drafty museum, your nakedness
shadows our safety. We stand round blankly as walls.
I'm no more your mother
than the cloud that distills a mirror to reflect its own slow
effacement at the wind's hand.
All night your moth-breath
flickers among the flat pink roses. I wake to listen:
a far sea moves in my ear.
One cry, and I stumble from bed, cow-heavy and floral
in my Victorian nightgown.
Your mouth opens clean as a cat's. The window square
whitens and swallows its dull stars. And now you try
your handful of notes;
the clear vowels rise like balloons.
CANTO DEL MATTINO
Come un grasso orologio d'oro l'amore ti mise in moto.
La levatrice schiaffeggiò le piante dei tuoi piedi, e il tuo grido pelato
prese il posto tra gli elementi.
Le nostre voci echeggiano, magnificando il tuo arrivo. Nuova statua.
In un museo percorso da correnti d'aria, la tua nudità
adombra la nostra sicurezza. Ti attorniamo vacui come mura.
Non sono più madre tua io
della nuvola che distilla uno specchio per riflettervi la sua propria lenta
cancellatura per mano del vento.
Tutta la notte il tuo fiato-di-falena
ondeggia tra le rosee lisce rose. Veglio per ascoltare:
un mare lontano muove nel mio orecchio.
Uno strillo, e dal letto incespico, pesante come una vacca e floreale
nella mia vestaglia vittoriana.
La tua bocca s'apre nitida come quella d'un gatto. Il riquadro della finestra
s'imbianca e ringoia le sue tetre stelle. E ora tu provi
un tuo trillo di note;
le chiare vocali sorgono come palloni d'aria.
Venerdì, 3 febbraio 2006
Siamo a Febbraio, e allora ecco un'altra poesia di Jane Kenyon (v. anche il post precedente). Una breve lirica, forse non di alto valore poetico, ma che rende abbastanza l'atmosfera e le tematiche tipiche della poesia di Kenyon antecedente il periodo segnato dalla malattia. Purtroppo la traduzione perde un pò la musicalità del verso e il gioco delle allitterazioni e delle assonanze.
Febbraio: Ricordando i fiori
Ora il vento tormenta il campo,
ripiegando la bianca superficie
su sè stessa, ancora e ancora su sè stessa,
come un animale che si lecca una ferita.
Nient'altro che bianco - l'aria, la luce;
solo un bruno baccello d'asclepiade
fluttuante nel rigagnolo, piccolo
scuro battello nella corrente immensa.
Un'unica verde cosa germogliante
mi conforterebbe...
Allora pensa all'alta speronella
che ondeggia, o all'ape quando giunge
alla lingua del giglio porporino.
February: Thinking of Flowers
Now wind torments the field,
turning the white surface back
on itself, back and back on itself,
like an animal licking a wound.
Nothing but white--the air, the light;
only one brown milkweed pod
bobbing in the gully, smallest
brown boat on the immense tide.
A single green sprouting thing
would restore me. . . .
Then think of the tall delphinium,
swaying, or the bee when it comes
to the tongue of the burgundy lily.
Jane Kenyon
Copyright © 1986 by the Estate of Jane Kenyon. Reprinted from The Boat of Quiet Hours by Jane Kenyon, published by Graywolf Press. Used with the permission of Graywolf Press, Saint Paul, Minnesota. All rights reserved.
Trad. G.Cerrai - 2006
Domenica, 27 novembre 2005
Jane Kenyon (1947-1995) e' nata ad Ann Arbor nel Michigan e ha frequentato l’universita' del Michigan dove ha conseguito il Master of Arts nel 1972. Nello stesso anno ha sposato il poeta Donald Hall, suo insegnante all’universita', e insieme sono andati a vivere a Wilmont nel New Hampshire, terra d’origine del marito. Sebbene la Kenyon abbia felicemente descritto la sua vita nel New Hapshire rurale, come nel suo primo libro Let Evening Come pubblicato nel 1990, ha sofferto per gran parte del suo matrimono di una grave depressione e le sue ultime poesie, come quelle qui pubblicate, descrivono la sua lotta contro di essa e contro la leucemia che la portera' alla morte nel 1995.
Di Jane Kenyon colpisce l’aderenza alle cose e al senso che ne deriva, la profonda umanita' anche di fronte alle avversita' che la vita presenta. John H. Timmerman, autore di una sua biografia critica, afferma: “La spiritualita' di Jane non era mai un mezzo per sfuggire all’esistenza. Al contrario, le consentiva di abbracciare la realta' con tutta la sua risoluta bellezza e la sua invadente sofferenza”. Cosa lei pensasse del poetare e' chiaramente espresso nella risposta che la Kenyon dette ad una domanda dello stesso Timmerman: “Il lavoro del poeta e' di dire la verita' e nient’altro che la verita', in un modo cosi' meraviglioso che la gente non possa vivere senza di essa; di mettere in parole quelle emozioni che noi tutti abbiamo che sono cosi' profonde, cosi' importanti e tuttavia cosi' difficili da chiamare per nome. Il lavoro del poeta e' scoprire un nome per tutto: essere un impavido ricercatore del nome delle cose; essere un difensore della bellezza del linguaggio, delle sottigliezze del linguaggio. Penso che sia una materia davvero seria, l’arte; non e' solo ornamento. L’altro mestiere del poeta e' consolare di fronte all’inevitabile disgregazione del decadimento e della morte, tutte le dolorose cose che dobbiamo affrontare come esseri umani. Noi abbiamo la consolazione della bellezza, di un’anima che si espande verso un’altra e dice “Anch’io sono stata la' ”.
Jane Kenyon - Fare i conti con la malinconia (trad. G.Cerrai)
L'edizione originale di "Constance" e' reperibile qui
Mercoledì, 28 settembre 2005
Se mi è venuta la voglia di tentare di tradurre qualcosa di Donald Justice, la colpa è tutta di John Irving e del suo romanzo "Hotel New Hampshire" (Bompiani, trad. P.F.Paolini), un libro a mio avviso delizioso in cui Justice viene citato spesso, quasi un Virgilio che accompagna momenti cruciali della vicenda narrata. In un primo momento avevo avuto il sospetto che Justice potesse essere un personaggio inventato da Irving, visto che non lo avevo mai sentito nominare. Ma era solo la mia ignoranza e il fatto che, per quanto ne so, non è mai stato pubblicato in Italia. La sua biografia dimostra che esiste eccome. E anche le sue poesie.
In quanto a questo lavoro, che deve essere inteso unicamente come un omaggio all'Autore, ribadisco che è stato un piacevole tentativo, non essendo io un traduttore professionista. Spero solo di aver reso nel miglior modo possibile quello che Justice voleva dire, e di non aver preso troppi svarioni linguistici. (Questo contributo era già stato pubblicato su “Fogli nel cassetto”, v. post precedente)
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