Ho scritto altrove che la poesia è rottura del silenzio. Ma anche e contemporaneamente rinuncia ad un egoismo, piccolo o grande, tutto particolare: quello che rinchiude in noi stessi una memoria, un'esperienza o un grido che, viceversa, merita di essere comunicato. In questo libriccino, smilzo e leggero e insieme sostanzioso (Gli incendi, Ed. L'Arcolaio, 2008) Filippo Davòli ci rende partecipi della sua storia, ormai conclusa, con i suoi "figli", cioè i minori extracomunitari che ha accolto e accudito, non per mestiere ma per vocazione. "Ad ognuno dei figli - come ci ricorda Lucia Tancredi nella sua affettuosa introduzione - ha insegnato la sua lingua, la bella lingua italiana i cui suoni aperti sembrano risonanti come conchiglie. A chi ha affilato la parlata nel deserto scortecciandola di consonanti, o ai giovani contadini d'Asia che parlano piano e roco come i colombi". E questo dono viene qui restituito, questa lingua dà voce ai ragazzi e si condensa in questi testi che in gran parte Davoli incastona tra virgolette perchè appartengono a loro, limitandosi egli a trascriverli.
Ovviamente non è proprio così, perchè Davoli costruisce un libro poeticamente raffinato, assumendosi semmai un ruolo che potremmo definire di mediatore poetico (o di setaccio: "Gli incendi sono - più che mie poesie - le loro parole che, depositatesi in me, non ne hanno voluto sapere di uscire via"), estraendo e molando la poesia intrinseca nelle parole semplici dei ragazzi, ciò che Davoli in altra sede definisce "una parola innocente, nuda, totale". In questo procedere, tuttavia, non c'è nessun "raffreddamento" di una materia così calda e commovente, anzi. Se la parola dei ragazzi è nuda Filippo la riveste - poeticamente certo - ma di affetto e partecipazione e con un sentimento che non è affatto fuori luogo definire paterno, o forse agape, nel senso pieno del termine. Ne esce un impasto lirico, del lirismo della parola semplice e leggera, ma di una leggerezza buona e in un certo senso "sacra" in quanto profondamente umana, del lirismo come linguaggio e musica, come la migliore canzone italiana che credo Filippo ami tanto. Tra questi testi "altri", Davoli inserisce a chiosa brani di più ampio respiro in cui sedimenta e sublima il dato emozionale, in qualche modo lo fissa in canoni stilistici collaudati e sicuri, lo giustifica e lo salda al dato etico e ideale di fondo che, ci ricorda l'autore, anche religiosamente "ritorna in altri nomi", è possibile "incrociar[lo] nelle cose". Delle altre cose che potremmo dire di questo libro (i richiami, le eco, le radici), almeno una: di come dimostri felicemente quanto su di un ordito tradizionale e amicale per il lettore, si possa impiantare la trama della vita, raccontare le microstorie di questi ragazzi come incendi di "sterpaglie basse" sul ciglio della strada.