Giovedì, 12 gennaio 2017Henry Ariemma - Aruspice nelle viscereHenry Ariemma - Aruspice nelle viscere - Ladolfi Editore 2016
Pubblico qui alcuni (pochi) testi tratti dal libro di Henry Ariemma. Non ho molto da dire su questa raccolta, e quindi per una volta sarò breve. Un libro oscuro, di ardua e forse inutile penetrazione, nel quale sembra accentrarsi un paradosso, e cioè che l'arte di interpretare i segni criptici della realtà, la difficoltà di trarne qualche senso, si risolve nella creazione di ulteriori intrichi, nebulose. ammassi, ulteriori arcani. Non parlo di labirinti, perché i labirinti hanno una loro logica, una storia simbolica leggendaria e una forza evocativa che qui non trovo (oltre a una loro estetica). Leggo questi testi e ho come l'impressione che le parole abbiano perso la loro funzione eidetica o iconica, proprio quando il tentativo di porre quesiti esistenziali, trovare risposte o spiragli di senso (come dice il prefatore) avrebbe richiesto altrimenti. Ho l'impressione insomma che l'aruspice invece di infrangere il mistero ne sia stato inghiottito, cercando di trovarne il fondo. In altre parole che in questi testi egli annodi invece di sciogliere, compatti invece di sublimare, complichi invece di semplificare, nasconda invece di trovare un responso, per quanto poeticamente mimetizzato. La "difficoltà" in poesia non è un difetto di per sé, non lo è ad esempio quando lancia una sfida, quando innesca nel lettore la volontà di ricostruire nessi partendo da indizi interpretativi, da allusioni, da frammenti, come di uno specchio che specchio non è o non è più nella sua integrità, ma di specchio mantiene la natura e la ragione, restituendo lampi illuminanti. E' certo che il responso dell'aruspice è per sua natura sibillino, anfibolico, ma è anche vero che si presta (deve prestarsi) ad una qualche interpretazione (ibis redibis non morieris in bello, ricordate?), altrimenti, semplicemente, non è. Ma non è facile, perché come dice il prefatore (Giulio Greco) "i “segni” non sono sempre chiari e allora ci si rifugia nell’’«involucro di arachide», in un’esistenza appartata, nel sogno". O forse ci si rifugia nell'involucro del linguaggio, ma un linguaggio nel quale (rovesciando il senso con cui lo scrive Greco) davvero è veramente arduo separare la metafora dalla descrizione della realtà, e dove anzi l'effluvio di parole che ci colpisce in certi testi (v. qui sotto "Quattro immagini") appare esso stesso, nella sua (spesso) totale mancanza di sospensioni, nella sua ostinata ipotassi, un tutto d'un fiato, l'apnea di quell'inghiottimento di cui parlavo prima. (g.c.) Continua a leggere "Henry Ariemma - Aruspice nelle viscere" Mercoledì, 21 dicembre 2016Daniele Poletti - OttativoDaniele Poletti - Ottativo - Edizioni Prufrock spa, 2016
L'ottativo è il tempo del desiderio, della possibilità, un antenato di
quel congiuntivo che ne mantiene ancora qualche tratto somatico. Forse
c''è un nesso tra questa mia breve annotazione e il titolo di questo
libro. O forse sono già stato depistato, complici le note editoriali.
Cos'è che eventualmente muove il desiderio o l'arte del possibile in un
libro come questo? Domande difficili da metter sotto sequestro,
recintare, soprattutto leggendo un'opera in cui la suggestione (meglio
ancora, il "suggerimento"), come energia messa a disposizione del
lettore, è motore principale, alimentato da parole che assomigliano a
schiavi liberati dalle catene.
Il libro ha una sua struttura rigida che contrasta con la fluidità del
materiale (v. più avanti): circa sette sezioni - la maggior parte delle
quali composte da tre testi "doppi" (cosa che poi vedremo) segnati con
numeri romani e a volte qualche titolo aggiuntivo - intervallate da
testi dalla connotazione prosastica, identificati da lettere progressive
(A, B, C,...) e titolati tutti "deprivazione del sonno". Da questo
punto di vista è un'opera organica, o per lo meno c'è una evidente
volontà di dotarla di organicità, di una struttura che riconduca ad un
tutto ogni singolo testo e a cui ogni testo si appoggi. In sostanza un
poema, un genere o una forma che hanno ritrovato il loro habitat
naturale proprio nella poesia di ricerca, fornendole una veste
concettuale.
Poema su che cosa? Domanda mal posta e fuorviante, in un'opera di
questo genere. Nella quale l'evidenza (proprio nel senso di prova
provata) è quella di un percorso, anzi di una penetrazione, anche
aggressiva, un tentativo di attraversamento di un corpo durissimo da
perforare, quello che è già arduo definire come "realtà" (quale? di
chi?). Il desiderio e la possibilità accarezzati sono quelli di un
accostamento, un accostamento di conoscenza a questa realtà/verità in
maniera paritaria, con l'unico strumento possibile, rebus sic stantibus,
cioè il linguaggio, uno strumento che però è in parte spuntato, almeno
da quando parole e cose hanno preso strade diverse, e il significante ha
assunto un ruolo iconico. E con la complicazione non indifferente che
qui non sembra entrare in gioco almeno l'altro grande strumento che
potrebbe supplire a questo iato, l'immaginazione, sostituita semmai da
un impianto allegorico piuttosto rarefatto, poichè distanziato, lontano,
dietro la durezza delle parole. Del resto, allegoria di che? Il mondo
ha qualche ragione di essere allegoria? O di comunicare qualcosa
attraverso di essa? Sotto questo aspetto a Daniele, come ha detto
altrove, non interessa la comprensione del dettato, ciò che lo intriga è semmai la dimostrazione (perseguita, mai raggiunta) che tutto è dicibile, è toccabile con
la parola, per trarne un senso anche inaspettato, o pitico. Ovviamente
una parte di questo senso sfugge, ma solo perché esso è consegnato alla
individualità del lettore (e so che una delle aspirazioni di Daniele è
comporre un'opera "aperta").
Ci sono in questi versi molte cose concrete, oggetti che popolano la
mente o il sogno (?), e molte parole/oggetto. Ma la realtà è un
materiale composito, un calcestruzzo però privo di solidità. In questo
senso non è reale perché non dispone di sé, non ha la
responsabilità di avere una struttura "fissa" che risponda a una qualche
mente razionale, di garantire sé stessa, di essere - in termini di
sociologia - una "costruzione sociale". La realtà - comunque la si
definisca - è (specie in un'opera di poesia) semplicemente un divenire,
sia nella realtà medesima sia nella mente di chi la "costruisce"
(l'autore). Mantiene, sempre, un alto grado di riscrivibilità. In questo senso, forse, c'è qualcosa di optativo, un margine di devianza o di possibilità, un
pertugio che serve a scardinare la superficie, infilandoci un qualche
grimaldello al fine di scoperchiarla, di ficcarci dentro uno sguardo
speculatore e conoscitivo. Sguardo a volte troppo vicino, microscopico, o
forse giustamente vicino, come quelle dilatazioni di frattali
che dimostrano nel piccolo un universo complesso, sguardo a volte di una
acribia perturbante, a volte rivolto ad un interno profondo, molto
corporeo, come di chi sta ad occhi serrati immaginando non il proprio
ombelico ma le proprie viscere.
In questa "ideologia" che mi pare di intravedere, c'è forse il senso di
altre caratteristiche di questo libro. Dove, ad esempio, le
"ripetizioni" dei brani sono in realtà espansioni o interpretazioni di
qualcosa che si omette, si fa finta di omettere, o si dimentica. Infatti
quasi tutti i testi sono "doppi", ma nel senso, appunto, che il secondo
lievita il primo, lo destruttura e lo ricompone, in uno sviluppo che è
anche (e forse inevitabilmente) una mutazione o anche una catastrophé, e
insieme uno scolio, una glossa, si vedano quegli apici che paiono
annotare (chiarire?) certe parti delle seconde "versioni" (e già con
questo termine siamo in un territorio instabile, poiché non c'è nessuna
certezza che versioni poi in effetti siano). C'è da aggiungere che il
primo testo viene definito dall'autore "archetipo", e questo è
interessante, per i molteplici rimandi alla psicologia, alla filologia,
alla critica del testo, e per l'evidenza dell'artificio di cui dicevo
prima, cioè di un secondo testo in cui porzioni del primo sono
"ricostruite" (parole dell'autore). Si potrebbe d'altro canto avere
l'impressione di una situazione simile (ma contraria) a quando si vuole
ricostruire al mattino un sogno avuto nella notte. Qualcosa manca,
qualcosa si aggiunge, altro viene reinventato. Il riferimento al sogno
non è casuale, in questa mia personale interpretazione, se si guarda
alla scrittura di Daniele come se fosse un processo insoddisfatto (e
forse aleatorio) di condensazione e spostamento, di costruzione e
distruzione di elementi costitutivi la realtà personale dell'autore,
anzi una verità "inverata", statuita e riparametrata come tale, per
quanto possa essere - scrive un Poletti/Debord - "una verità parallela
al vero". Una realtà in cui certo entra anche il perturbante, cioè la
dialettica tra il consueto, l'ordinario, il quotidiano, l'oggettuale e
il senso di alterità, di estraneità, di "doppiezza" che essi possono
generare quando si innescano certi corti circuiti ("è sconfortante come
la mela conosca l’albero / e l’albero non conosca la mela"). Dal punto
di vista di questa rielaborazione continua di materiali può essere utile
ricordare anche che alcuni dei testi di questo libro provengono da
un'altra prova (credo del 2013 o 2012, non ricordo se uscita a stampa)
intitolata, guarda caso, "Sui Quaderni in ottavo di K. (Ottativo)", cosa
che però non è detto che giustifichi o intersechi il titolo attuale (e
soprattutto il "prodotto" poetico attuale).
Da un altra prospettiva i termini scientifici che costellano il libro
dovrebbero per loro natura fornire un aggancio alla "verità", a qualcosa
di inconfutabile all'interno del materiale composito di cui si diceva,
ma appaiono anche come elementi "duri", come conchiglie puntute che
trovi camminando sulla sabbia, corpi alloctoni, misteriose presenze non
necessariamente funzionali alla comunicazione, come moai in un
paesaggio spopolato. E' anche un ricorso alla techné, a qualcosa di
surmoderno, un ammiccare ad un sentimento del tempo in cui l'umanesimo
in crisi si misura con un positivismo scientifico che da parte sua non
se la passa bene, anzi è morto e sepolto. E insieme un affermare: ecco,
vedete, le parole hanno ancora una consistenza, come se fossero ancora consequentia rerum.
Un approccio ricorsivo negli scritti poetici di Poletti, almeno in
quelli che ho avuto occasione di leggere. Ma anche i termini botanici,
anatomici, fisici, medici ecc, fanno parte di quelle cose concrete (o
empiricamente verificabili, se si rimane in ambito scientifico) che a
loro volta intridono quel materiale composito di cui si parlava.
Sembrano d'altra parte corrispondere, nella loro concretezza, ad un
grado di puntuta attenzione, forse proprio in quelle "deprivazioni del
sonno" che fanno da pietre confinarie nel testo. Uno stato di veglia,
forse ricercato e indotto ("Benzodiazepine in etere ottundimento,
riduzione della vigilanza, / difficoltà del verbale, diplopia, l’albero è
un albero / l’albero e la sua funzione") che però non sospende in
maniera drammatica solo il sonno, ma per forza di cose incide anche sul sogno, inteso come distruzione, ricostruzione e superfetazione della realtà.
La scrittura di Poletti ha (allora) in sé il suo desiderio e la sua
potenzialità, tenta di agire in sé non come strumento di lettura del
mondo, ma come parte e forma di esso. Forse è in virtù di
questo che, pur mantenendo un andamento certo sperimentale, il libro di
Daniele non scivola mai in quella arroganza, quella presa del potere
della parola in cui la parola vale qualcosa a prescindere da quel che
dice, diventa rara e perciò preziosa e il suo valore cresce in maniera
inversamente proporzionale alla sua usabilità. Al di là delle indubbie
difficoltà il libro non è oscuro (Daniele diverse volte si è dovuto
difendere da questa accusa) per chi voglia carpire il senso di questo
percorso (formativo o plastico, direi), addirittura a tratti illuminato
da lampi assolutamente lirici, emersioni che non erano sfuggite, a suo
tempo, a uno dei più attenti lettori di Poletti, Edoardo Sanguineti). Il
percorso complessivo mi pare chiaramente indicato a chi legge, e
ampiamente aperto alle libere interpretazioni soggettive proprio grazie alla sua non univocità, nella accezione in cui intendeva il termine U. Eco. Anche la chiusa ha il suo senso. Alla fine si perde
la definizione, forse la chiarezza, forse la strada (dico il lettore,
perché certo l'autore nasconde tra i suoi materiali coordinate e punti
geodetici utili a ritrovarla, magari andando a ritroso): perché le
"deprivazioni del sonno" G,H e I subiscono in chiusura del libro uno
smottamento grafico che le rende progressivamente illeggibili, scivolano
in altre parole, in ammassi di una inintelligibile oscurità. Forse è
obnubilazione. Oppure il sonno è giunto, le palpebre si sono alla fine
chiuse. Immaginiamo che inizi un altro libro, forse un libro "nero",
un'opera di una diversa densità. L'amico Daniele, se vuole, può
prenderlo come suggerimento. (g.cerrai)
Continua a leggere "Daniele Poletti - Ottativo" Martedì, 15 novembre 2016Gianluca Spitalieri - Racconti di un'assenzaGianluca Spitalieri - Racconti di un'assenza - Transeuropa, 2016
Che fare, si diceva qualche giorno fa con un amico, quando di un autore
non sappiamo niente, non conosciamo nemmeno la faccia, non abbiamo la
minima idea della sua vita o di come si sia costruito il suo bagaglio,
la sua "ispirazione"? Non ci rimane che il testo. Per capire, ad
esempio, di quale assenza voglia raccontare Spitalieri in questo libro
abbastanza scarno (sono venticinque poesie) ma compatto nei suoi
intendimenti e nel tema. Che è quello dell'amore, con i suoi immancabili
dispiaceri, con la sue mancanze e lacerazioni, partenze e ritorni e
patemi d'animo. L'assenza è dunque quella di chi non c'è, se ne è
andato, manca all'appello, si fa aspettare. Ma è anche quella di tutti
gli atti mancati, di appuntamenti andati a vuoto, e non solo quelli
amorosi, del fallimento del confronto anche comunicativo con l'altro,
chiunque esso sia. Dunque assenze molteplici e diverse, di cui l'amore,
inteso sia come sentimento sia come densità corporea, finisce per
diventare un grosso correlativo oggettivo, di qualcosa d'altro. E
inoltre assenza come vuoto difficilmente risarcibile, poiché - come
scrive Spitalieri - "chi parte non lascia niente".
Dunque il tema c'è, ed è noto, universale, antico come l'uomo. In ciò
rischioso, nel senso che parlare d'amore è possibile solo se lo si fa
in un modo che consenta al lettore di scoprire qualcosa di nuovo
sull'argomento, anche se fosse soltanto una diversa nuance di
dire una cosa nota. Di scoprire, come diceva qualcuno, qualcosa che sa
già. Qui ci sono intanto almeno due prospettive: una di chi parla
d'amore parlando di qualcosa d'altro, foss'anche un melograno o bolle di
sapone, con uno sguardo apparentemente ondivago che però nasconde un
chiodo emotivo; l'altra esattamente contraria, in cui l'amore è
esplicitato, e magari corporeo, ma è specchio di un mondo più vasto non
sempre semplice da comprendere o da controllare (come l'amore stesso, del resto).
Il metodo di Spitalieri di affrontare la sua materia poetica è di
distenderla in pennellate con almeno un paio di caratteristiche: sono
lunghe, versi liberi ad andamento narrativo ma generalmente chiusi, cioè
composti da frasi pressoché complete, che trovano il loro senso
compiuto nell'ambito del verso stesso (ed essendo lunghe hanno lo scopo -
o tentano - di dire più cose); e sono spesso contrapposte, di
materiali, colori, registri, consistenze diverse (e talvolta anche di
contenuti diversi, come un volontario saltare di palo in frasca - vedi
ad esempio, qui sotto, in Attese, lo scarto tra la prima e la
seconda strofa). L'effetto di questa stesura è la composizione di un
testo (parlando in senso lato) che generi da una parte una attesa di
qualcosa che gli accidenti della vita hanno momentaneamente sospeso ma
che certo avrà un suo esito naturale, buono o cattivo che sia (una
storia, un amore, una visione, un'idea ecc.); dall'altra una frustrazione di quella attesa, non tanto come risultato poetico quanto come negazione di un continuum,
come affermazione del fatto che le cose vanno come vanno e sono sempre
più complicate e meno lineari di quanto ci si possa aspettare. E' in
questo senso che dicevo che il tema, amore o altro, poi veicola una
visione del mondo più ampia, vestita di un pessimismo consapevole, di
una aspettativa esistenziale liquida e insieme legata ad un hic et nunc, un
certo qual "lascio fare al caso che poche volte invece / ha reagito
bene alle insistenze del corpo". Il modo relativamente nuovo di parlare
d'amore è quindi dire che l'amore è un accidente (un caso, appunto)
della vita, qualcosa di intruso in quel magma ma con uno statuto
speciale, che càpita, a volte è un incontro fortuito (anche, specie nel
suo coté meramente erotico più che affettivo), ma incide, lascia un
segno di cui ci si può illudere che sia una chiave di lettura
dell'esistenza, a sua volta scarsamente proiettata verso il futuro,
visto comunque come "un domani precario che si consuma / fra zuccheri e
caramelle".
Poi naturalmente c'è altro, o forse ci sarà, qualcosa che si intravede
nei due bei testi che chiudono il libro, qui riportati. Sono in fondo e
lasciano in bocca un sapore diverso, come la promessa di un nuovo tema o
addirittura di un nuovo stile, qualcosa che verrà. Più compatti, più
limpidi, più comunicativi e, se posso dirlo, più importanti del resto
dei testi qui presenti, perché diversamente orientati all'esterno, ad
una riflessione sul mondo da un punto di vista meno egoisticamente (si
fa per dire) soggettivo, più engagé, più maturo (per quanto questo aggettivo nasconda sempre un'insidia), e se vogliamo più lirico (ma
lo dico come pura constatazione). E' un'impressione che ho avuto, non
so dire se sia il preludio di qualcosa di diverso, non so nemmeno se sia
giusto aspettarselo. Ma certo Spitalieri ha i mezzi, se vuole. Staremo a vedere. (g. cerrai) Continua a leggere "Gianluca Spitalieri - Racconti di un'assenza" Sabato, 29 ottobre 2016Sonia Caporossi - ErotomaculaeSonia Caporossi - Erotomaculae - Algra Editore, 2016
L'amore non è più paegnia, giocattoli, figure, non oggi, non
di questi tempi, non in certe condizioni sociali e politiche e culturali
in cui tutto è da ri-conquistare, mai definitivamente acquisito, anche
in termini di identità personale, di libertà di. Non è più un
giocattolo, se mai lo è stato, una primazia del corpo in cui l'anima
abitava, era ospite nobile, ma non - come poi è stato - effigie a
somiglianza di, e quindi Sua messaggera e ambasciatrice. O forse non lo è
ancora, ancora non è tornato ad esserlo. Nel frattempo l'amore è una macula,
una traccia dai diversi contorni che si proietta sulla vita, ne invade
lo sguardo e che si tenta ossessivamente di mettere a fuoco. Nel
frattempo l'amore diventa identità e specchio. Entrambi molto fisici, molto corporei.
Questo ultimo libro di Sonia Caporossi è un canzoniere d'amore,
d'amore erotico o omoerotico per essere precisi, in cui l'autrice si
ritrova e si riconosce (lei è questa poesia, questo amore), ne individua le tracce, le evidenze materiali, le maculae, le psichedelie, e
lo definisce come elemento costitutivo della sua poesia, un elemento di
una grana fitta e di un peso specifico non indifferente. Un amore
descritto non come una serie diaristica di esperienze, ma come un unicum esistenziale
che trova la sua descrizione (e la sua estetica, che spesso il tipografismo nasconde) in un flusso compatto di sensazioni,
sensi, pelle, passaggi dall'epidermide al cuore e viceversa, fuso in un
impasto linguistico abile, colto, molto icastico, spesso sinestetico, e
da un punto di vista del lettore niente affatto epidermico.
La forma, in questo libro diviso in sei sezioni più un epilogo che
ripercorrono una storia (o forse più) amorosa, ha una sua invadente
preponderanza. Per forma non si intende niente di comunemente riferito
alla poesia, se non in precisi, limitati (e pressoché desueti) momenti
della sua storia. Come è possibile vedere nei testi che ho scelto, il
primo impatto che se ne riceve è totalmente tipografico, visivo, un
campo lungo che l'occhio, molto prima della mente, deve abbracciare.
Viene in mente, certo, Marinetti (che Giovanna Frene cita nella sua
prefazione), ma anche Apollinaire (ma senza "figure"), o il Luciano
Folgore di Magnesio, o certe cose di Giulia Niccolai o di
Liliana Ebalginelli. Gli esempi, vecchi e nuovi, non mancano. E' una
scrittura ardua da leggere, sulla quale ci si deve "arrampicare", come
dice Frene, ma mi pare che non voglia (o non pretenda di) avere una
particolare funzione visiva o grafica. Sebbene sembri provocare un urto
tra tradizione e innovazione, come afferma Frene, in realtà mi pare si
tratti di una poesia lineare, persino in molti punti decisamente lirica,
non meno di quanto lo sia un carme di Saffo (e anche qui sono d'accordo
con la prefatrice), con la dovuta distanza naturalmente. Una linearità,
anche sintattica e lessicale, en travesti, in un certo senso, con una veste cioè opposta alla voce, tanto che a volte ti chiedi se sia funzionale davvero. Ma in cui il grassetto, il bold,
le lettere grosse non hanno solo una funzione di enfasi o di esplosione
grafica, ma anche - come sanno i vecchi frequentatori di newsgroup -
sono segnale di un urlo, di una rabbia, di un alzare la voce per farsi
intendere, di una incazzatura. O di una forte passione. E certo è la
passione amorosa il motore principale di questo libro, espressa in una
concretezza di carne, di fluidi, di gesti erotici, di parole in
evidenza, a volte forse esibite, che alla fine costituiscono un'onda
lunga, una massa essa stessa corpo ("e sembra di attraversarlo, questo
corpo", cito ancora Frene), abbastanza vischiosa da non poter essere
semplicemente letta, da richiedere anche un confronto intellettuale,
forse razionale più che emotivo o empatico. Corpo che è segnale e
simbolo, come ho scritto altre volte, un topos della poesia femminile,
soprattutto in termini di riappropriazione ma anche, generalmente
parlando, come luogo di incrocio e snodo di problematiche diverse non
sempre ricomposte. Quindi anche corpo politico, di cui la poesia di
Caporossi vuole a mio avviso farsi interprete e voce, essere
poesia-bandiera, riconoscendo a sé stessa, come dice Sonia nella nota in
cui ringrazia l'editore per il suo "coraggio", di essere poesia forte.
Almeno quanto basta per colpire il lettore o per essere "perturbante",
come scrive ancora Frene con un termine scientificamente esatto. E
probabilmente per il lettore la cosa migliore è lasciarsene investire,
rimandando alla fine del libro ogni considerazione, ogni meditazione,
senza opporre ingiustificate resistenze agli attriti che questa poesia, a
differenza di tante altre, certo può generare. Gli attriti si dice generino calore e luce. (g. cerrai) Continua a leggere "Sonia Caporossi - Erotomaculae" Giovedì, 20 ottobre 2016Claudio Salvi - AlbumClaudio Salvi - Album - Arcipelago Itaca, 2016 Un libro, questo qui di Claudio Salvi, che insieme coinvolge (anche a livello concettuale) e un po' perplime. Il che è molto di più di quanto si possa dire di tanta poesia, cioè sostanzialmente un successo. Questa estrema sintesi (e vengo a spiegarmi) si ritrova in parte in quanto scrive Giulio Mozzi nella postfazione, che poi vedremo. Intanto il titolo, Album. Album di che cosa? Mi pare che sia contemporaneamente di foto, nel senso di immagini, scatti, attimi o inquadrature non sequenziali raccolte con un medium (in questo caso la scrittura); e di schizzi, ciò che gli inglesi chiamano sketches, appunti lineari di una realtà che c'è, e in un dato momento appare pur non essendo evocata, e che viene registrata a futura memoria, cioè per spostare a dopo la realizzazione di qualcosa. L'idea della foto è presente anche esplicitamente, essendo citata nei testi, con i suoi correlativi, almeno una ventina di volte. Come pure è presente un concetto, forse meno esplicito, di inquadratura brevissima, veloce, poco più di un frame, all'interno del quale l'autore è spesso mimetizzato. La brevità, in parecchi dei testi (non tutti), è infatti uno di tratti salienti, direi stilistici, e io credo che lo sia in relazione a quanto abbiamo appena detto, ma anche a una convinzione dell'autore che mi pare di intravedere, ovvero che la realtà sia afferrabile per lampi fenomenici, presenze, leggi del caso, qui e ora di pura combinazione. In questo senso mi pare che gli schizzi di cui parlavo possano essere l'espressione - anche - di una speranza, di afferrare il lampo (fotografico?) ora per capirlo dopo. Che poi la speranza si dimostri vana o accantonata o volutamente rimossa, questo è un altro discorso. Lo sguardo è qui essenziale e funzionale, ma è una risorsa che potremmo definire non strumentale, accessoria, uno sguardo che non ritorna veramente indietro. Un rivolgere lo sguardo, un gesto di indicare, dice Mozzi. E' la presenza ontologica dell'autore, l'essere-nel-mondo di uno che c'è e scrive, un esserci tuttavia non proprio impersonale, non solo perché a volte dice "io", ma anche perché, se proprio vogliamo fare i pignoli e parlando per metafore, cerca di assumere in sé tutte le categorie barthesiane, facendo la parte di operator (chi "scatta"), di spectator (chi guarda) e di spectrum (il soggetto, anche se di riflesso, anche quando fa finta di non esserci, aleggia). Quindi, in un certo senso, tutto fagocitando. Se la prima sezione è intitolata Album come il libro, la seconda, diciannove testi brevissimi che direi - come forma - sono prosa in prosa, si chiama Polaroid. Continua la metafora fotografica, ancora la messa a fuoco one shot (tentata, fallita, o ininfluente), ancora l'idea di una realtà colta sul fatto, senza prima né dopo e quindi senza prodromi né conseguenze. Non un diario, come Warhol amava definire la sua Polaroid, poiché in effetti in molti casi non c'è niente di esistenziale da registrare, questi schizzi non sono studi preparatori di alcunché. Non dissimile la sezione Sogno, tredici frammenti anch'essi in prosa di due tre righe, anch'essi quindi brevi ma costipati di cose, di microeventi o microazioni. Già, azioni. Perché, a ben vedere, non di rado il fotogramma si dilata, slitta, appare "mosso" da un movimento rattratto a cui concorre anche l'uso dei tempi verbali (presente, imperfetto, passato prossimo), come avviene in questo testo (completo), che assomiglia anche molto (cosa interessante) ad un appunto di sceneggiatura: ci sono delle persone con gli ombrelli. un uomo correva.
allora è cominciato a piovere, ma non lo vedo. è diventato più freddo.
oppure come in questo altro testo, tratto da Album:
il venditore di cocomeri si è fermato sotto la casa della ragazza.
le tremano le mani quando lui le consegna il resto.
Nell'ultima sezione, Altri scritti, l'atteggiamento è invece
ancor più prosastico, con anche al suo interno alcune affermazioni che
potremmo definire di poetica o visione del fare poesia col mondo,
le immagini che presento non hanno niente di umano. a me piace
guardare un buco per la forma che ha, non per quello che di umano porta.
come pure, più avanti,
in fondo non si fa altro che ripetere quello che c’è. le cose
cambiano però quando qualcuno mette la copia in mezzo a un numero di
originali tra cui non si può distinguere.
atteggiamento che più si avvicina alla sensazione che registra Giulio Mozzi nello scritto conclusivo e cioè che "leggendo i testi di Salvi [ci si abitua] a uno sguardo che è insieme molto assertivo (la forma del buco!) e per niente assertivo". Sul dibattito, a volte fondato a volte specioso, tra poesia assertiva e non assertiva il discorso è tutto aperto e qui lo lasciamo perdere. Ma la cosa è interessante, senza dubbio. Mi diverte pensare (e questo certo fa parte del fascino del libro) che Salvi scrivendo avesse in mente Duchamp che per vent'anni ha lavorato a costruire un buco, la sua opera segreta (Étant donnés: 1. La chute d'eau, 2. Le gaz d'éclairage), una porta massiccia con uno o due pertugi da cui si può gettare lo sguardo su una rappresentazione misteriosa. Certo, magari in sottofondo c'è Benjamin (la copia in mezzo agli originali) o ancora Barthes, con la sua idea che la foto (qui la poesia) possa essere riprodotta (letta) all'infinito mentre quel che è stato còlto è - da un punto di vista esistenziale - irripetibile. Ma è il dato di realtà (il donné) che è intrigante, anzi perturbante, è questo sguardo un po' voyeuristico (che a volte osserva il pleonastico: "in inverno nevica. i pesci girano nella vasca."; "piove in un verso poi cambia inclinazione. dipende da dove arriva il vento.") che dà da pensare. Forse ha ragione Mozzi quando scrive: "Non vedo niente (niente di particolare, niente di attraente), quando leggo Salvi, ma vedo". Il dato (il donné) è lì, si tratta di vedere, anche se poi per quali conclusioni trarne è difficile capire, se non forse la realizzazione di una contemporaneità irrelata dell'immagine ("penso che questi sono i miei contemporanei", scrive l'autore), di un vuoto totale che finalmente conquista quei "non luoghi" che ci hanno ammorbato in poesia per anni ("territori senza luce. stazioni illuminate. / luoghi vuoti. / luoghi parati a festa senza uomini e donne. / tempio vuoto. case vuote. stazioni vuote. / luoghi in attesa. o soltanto vuoti"). Ma il punto è che questo sguardo può essere gettato ovunque, ad libitum. E' questa una poesia ad libitum? E' forse la poesia di chiunque altro si metta davanti alla finestra e annoti quel che vede o gli viene in mente? Una poesia modulare, una poesia che potrei-farla-anch'io? Uhm, non è così facile, è un po' più problematica la faccenda. Leggere per credere. (g. cerrai) Continua a leggere "Claudio Salvi - Album" Mercoledì, 12 ottobre 2016Su Trasversale miei inediti con una nota di Mario Fresa
Martedì, 11 ottobre 2016Antonio Bux - Kevlar, nota di Rita Pacilio Antonio Bux - Kevlar – Società Editrice Fiorentina, 2016
La raccolta poetica Kevlar di Antonio Bux, divisa in due sezioni: Capitanata e altre poesie e L’oppio di Barba, ci rimanda immediatamente alla musicalità, al suono di un controcanto tra luogo e significato, tra disposizione strofica e ricongiunzione de la chose envolée spostando continuamente il baricentro dalla dottrina ontologica e purgatoriale del mondo ai luoghi fisici e metafisici della coscienza. Musicalità, struttura e spazio (la musique avant toute chose, la musica prima di ogni altra cosa, Verlaine) concedono il suono del senso, o il senso del suono in cui significante e significato sono in continua corrispondenza come compito primario e necessario del poeta. Attraverso l’uso consapevole della metafora, a volte drammatica e sigillata nella sua misteriosa propaggine, si realizza l’atto creativo in cui terrestre e immaginazione offrono un tono privilegiato all’osservazione/celebrazione del reale. La sensibilità dell’autore non si esprime sic et simpliciter per se stesso, ma a nome di tutti gli altri che sono esseri pensanti e viventi nel mondo. Dunque, l’io lirico, la voce parlante di Valéry, supera la consuetudine del linguaggio abitudinario: non un individualismo per fervore creativo, ma un’acutezza di ingegnosa creatività che porta l’individuo-poeta a fondersi indissolubilmente con l’umanità intera. C’è, dunque, una chiara e dinamica consapevolezza della prevaricazione degli oggetti sulle creature, quasi ad accostarsi alla corrente poetica del realismo terminale di Guido Oldani. A tratti la versificazione, mai scontata o abusata, ci persuade, infatti, a concepire l’uomo singolo succube della vicenda cosmica del consumismo (materiale e intellettuale) venendone sopraffatto, inibito. Il simbolismo, come mezzo poetico, stabilisce un rapporto intimo e conciliante con la quotidianità creando una esperienza sensitiva e onirica come maniera di generare, riscrivere in abbondanza i tratti della modernità. Tempo (tempo tra composizione e ispirazione; tempo che smentisce la staticità delle cose e la continuità degli accadimenti), spazio (viaggi e spostamenti geografici tra la Catalogna e la Puglia e il luogo intimo della poesia, il suo paesaggio), vita (coscienza del sé e ruolo immaginario, interiore, incontro/scontro con il quotidiano), morte (i dialoghi con i poeti defunti e la resistenza alla fine grazie all’allegoria del kevlar), memoria (ricordi e sedimentazioni scrupolose della forma) rimangono le tematiche portanti della scrittura di Antonio Bux che sfida con audacia le forme nuove di espressione provocando la piacevole polemica tra etica ed estetica, tra premeditazione e dignità poetica. (Rita Pacilio) Continua a leggere "Antonio Bux - Kevlar, nota di Rita Pacilio" Mercoledì, 28 settembre 2016Caterina Davinio - Alieni in safariCaterina Davinio - Alieni in safari - Robin edizioni 2016 (con testo inglese a fronte a cura di David W. Seaman e 42 fotografie scattate dall'autrice)
Forse in certi luoghi della Terra dovrebbero averci fatto l'abitudine, ormai. L'abitudine cioè a quegli "alieni" di cui parla Caterina Davinio nel suo
ultimo libro. Fotografie e versi, scatti e impressioni poetiche dal mondo esotico frequentato da occidentali che però non sono più Pierre Loti, né Bruce
Chatwin, ma nemmeno (o almeno si illudono di non essere) i turisti charter frustati dal tempo e "pacchettizzati". Alieni perché, come dice l'autrice in una
nota, perché siamo "stranieri senza radici, che amiamo perderci per imparare qualcosa di noi che non sapevamo, atterrati da un'astronave in paesi ignoti",
ma - aggiunge Francesco Muzzioli nella prefazione - "restando inevitabilmente 'intrusi', 'estranei' e 'illegittimi' in un contesto che non ci prevede e che
la vacanza non basta ad approcciare". E allora a che serve il viaggio, magari ritornando negli stessi posti? Io mi fermerei qui, a questa interessante
contraddizione tra il cercare (forse) qualcosa e l'essere intrusi, estranei e illegittimi (forse anche a sé stessi). Se si pensa a questo, forse allora il
viaggio non diventa altro che un transfert dell'immaginazione, un vedere il mondo come lo si immagina che sia, anche magari dal punto di vista di una
"cultura" di cui ci si è imbevuti; oppure un "divertimento" nell'etimo del termine, cioè un deviare dal percorso usuale, e allora, alla fin fine, ti viene
il sospetto che equivalga a un "voyage autour de ma chambre", cioè a vedere il tuo mondo da un'altra prospettiva, cercare di vedere te stesso meno alieno di quel che ti senti.
Io credo che nel libro di Caterina ci sia anche questa consapevolezza, a conti fatti, di una impossibilità, in un mondo globale, di delocalizzare la
propria identità, di spostare i problemi, di essere diversi da quello che siamo (e del resto Caterina dice ne La mia nascita: "Fin da allora fui
io" e "Dove fui sarò"). L' "altrove" è ovunque e l' "altro", rimbaudiano che sia o meno (cosa più probabile), è sempre più uguale a noi. Il pittoresco
locale porta i Ray Ban, il leghista nonsiammicarazzisti e aiutarlincasaloro te lo ritrovi in Kenya. Viene meno il mondo diverso,
"innocente" e parallelo della cultura alternativa, rimane un sentimento profondo, forse un po' melanconico e nostalgico, rimane il conforto prezioso della
vastità della natura, dell'oceano, del mondo che puoi ancora contemplare popolandolo di pensieri, di dei benevoli e laici, di poesia. O anche un mondo
visto dal di fuori, dall'alto, come farebbe appunto un alieno a bordo di un'astronave, ma non in arrivo bensì che si sta allontanando dopo una fuga
precipitosa da una catastrofe, come avviene in testi come Il pianeta o L'Italia vista dallo spazio. Caterina è brava a rendere questi
sentimenti basici, fondamentali. O quelli di un ritorno, forse non meno "alienato", a casa, ai luoghi natii, alle città nostrane (Roma, Lecco, Heidelberg,
Novoli in Salento), luoghi dell'affetto e della decantazione di un percorso ellittico che poi, in finale, riporta irresistibilmente alle spiagge di Goa e
Bombay, come riflessi abbaglianti di una vita precedente. Come pure è brava ad accendere autentiche visioni del cosmo come nella rutilanteUna finestra e una storia infinita o a rinnovare affettuosamente cadenze beat venate di divertenti echi futuristi e palazzeschiani come in Goa (Goa trance).
Certo Caterina non è come scrittrice un "viaggiatore immobile" o "sedentario", come diceva X. De Maistre, tanto che sono dell'idea che dovrebbe essere
letta in contesto, come un unico libro o diversi libri uno accanto all'altro, trasversalmente o parallelamente, poiché la sua scrittura tende ad essere
così legata all'esperienza diretta (quindi poco simbolica, poco metaforica in senso stretto) che in realtà ha scritto e sta scrivendo un unico libro, nel
quale da una parte si parla d'amore, dall'altra di malattia dell'anima e di esperienze estreme, dall'altra ancora di attraversamenti e riattraversamenti di
confini alla ricerca di chissà cosa o di sé stessa (v. anche, per assonanze e consonanze, Aspettando la fine del mondo, QUI). Ma mi pare che ci sia una patente pacificazione in questa poesia, un appeasement anche
generazionale, un segno della variazione dei tempi e di un clima complessivo o anche di una realizzazione se vogliamo. E' naturale che sia così, direi. La
lontananza dalle lacerazioni drammatiche e coraggiose di libri come Il libro dell'oppio (v. QUI) o anche
come Fenomenologie seriali (v. QUI), è
evidente. Là lo sguardo e la scrittura erano rovesciati in un incolmabile vaso interiore, qui c'è uno sguardo meno affamato, spesso lirico/malinconico, a
volte contemplativo e libero da inquietudini, espresso in testi anche molto belli (v. ad es. qui sotto titolo), uno sguardo rivolto ad un orizzonte lontano
sull'oceano, come se gli alieni in fondo avessero visto quasi tutto quello che c'era da vedere, prendendo coscienza di sé non tanto come soggetti di una
sociologia del turismo, quanto come uomini e donne che, a Goa come sul balcone di casa, devono alla fine fare i conti col tempo ("Oggi che il
tempo / ha reso sagge le membra ma non la pietà"). Ma da Caterina c'è da aspettarsi di tutto. Per fortuna. (g. cerrai).
Continua a leggere "Caterina Davinio - Alieni in safari" Mercoledì, 21 settembre 2016Emilio Capaccio - Voce del paesaggio, nota di Rita Pacilio Emilio Capaccio - Voce del paesaggio – Kolibris, 2016
Alla mia famiglia , inizia con una dedica il bel libro di poesie di Emilio Capaccio dal titolo Voce del paesaggio, edito da Kolibris, 2016, e l’incipit … Ma la vita, la vita, la vita, la vita è possibile solo reinventata (Cecília Meireles) definisce quanta realtà è insita nei versi della raccolta. Se il poeta è il tramite tra la poesia e il misterioso reale, allora qui troviamo numerosi suggerimenti per lo spirito e per la società intera. Il discorso, sin dalle prime poesie, si fa tensione: dalla parola emerge la nostra storia e le sue ragioni. Le continue guerre, le uccisioni per nome di un Dio che non porta nome, i valori decapitati dall’opportunismo economico e dai compromessi, sono in rapporto vivo con l’animo dell’autore che non dimentica di sorprendersi e stupire senza esprimere giudizi moralistici, ma, corrispondendo a ciascuna forma di dolore intimo e sociale. Così la voce di Capaccio si intreccia con quella delle coscienze dell’umanità rivendicando il diritto di pace e di amore, opponendosi con forza alla tragicità della realtà. In verità il profondo monito è rivolto al senso di responsabilità e di colpa divenuto sempre più minimo dentro di noi; ecco perché interviene la poesia. Il poeta ha necessità di indicare a se stesso la via possibile da percorrere, attraverso il linguaggio, per comprendere l’esperienza umana e per lottare contro di essa al fine di salvarsi dall’abbandono, dal fallimento, dalle solitudini. La poesia non viene prima degli accadimenti, ma all’interno di essi, nell’attraversamento dei dubbi e dei contrasti, come possibilità di purificazione, come operazione di salvamento. Bisogna partire dalla creazione, dall’inizio, dalla nascita, per raggiungere l’innocenza, la verginità delle cose sensibili e, la prosa, la narrazione degli antefatti, servono all’autore per raggiungere lo stato di contraddizione dei luoghi della volontà, più intimi, procedendo verso i labirinti della verità. Accostarsi alla realtà della parola consente di essere in più luoghi, in più paesaggi e lì trovare le risposte semplici, le più audaci e irrinunciabili. Sono gli intrecci delle tradizioni e la prospettiva intellettuale della bellezza a illuminare l’autore che si accosta e misura il sublime e il terribile del mondo con intelligenza e saggezza, unica modalità per sentirsi vivi, consapevoli, pronti nella vita. (rita pacilio) Continua a leggere "Emilio Capaccio - Voce del paesaggio, nota di Rita Pacilio" Venerdì, 16 settembre 2016Francesco Iannone - Pietra lavicaFrancesco Iannone - Pietra lavica - Nino Aragno Editore, 2016 Abbiamo già incontrato Francesco Iannone su questo blog, in una nota che scrissi in occasione dell'uscita per Ladolfi del suo "Poesie della fame e della
sete" (v.
QUI
). Rimando volentieri a quella piccola nota perché mi pare che molte delle cose che allora sottolineai sinteticamente siano in sostanza rimaste lì, pur con
qualche evoluzione soprattutto sul terreno della scrittura. Dico subito che qualsiasi cosa scriva Iannone la scrive bene (e infatti riceve consensi), ha inventiva linguistica, ha
una perfetta padronanza sul come dire quello che vuole dire, in che tonalità eseguire la sua musica, su questo non c'è dubbio, con un certo coraggio e con
poche riserve mentali, poche soggezioni, stilistiche, concettuali o "correntizie" che siano. E', da questo punto di vista, un autore privo di dubbi e
insieme una tabula rasa, come se nessuna eco di esperienza poetiche precedenti alla sua emergesse, anche se certamente ve ne sono (a partire certo dal
Pascoli "fanciullino") ma senza - apparentemente - nessuna tradizione da difendere. In tutto ciò sta un certo fascino, diciamo anche questo, una purezza
che certo è anche "religiosa", assumendo il termine in senso ampio, ma è comunque fideistica, di una immensa fede nella vita, nell'uomo e nella natura, di
una francescana disposizione ad ascoltare i segnali che provengono dal mondo sensibile, da una realtà visibile e invisibile, un mondo che però, come
scrissi, sembra appena creato. Segnali che raramente sono problematici, fenomeni che difficilmente appaiono indecifrabili o incombenti (come in Leopardi,
ad esempio) perché con ogni evidenza sono lì come dono o forse perché nella visione dell'autore, fresca e confidente, sono ancora incontaminati, e come
sospesi fuori della Storia. Se gli uccelli e tutte le altre cose che lo sguardo di Iannone prende in considerazione sono correlativi oggettivi lo sono di
uno stare al mondo, di un essere parte ("altissimi testimoni del mistero") di una creazione superiore della cui logica anche gli affetti, i sentimenti, le
relazioni sono espressione. Ma senza particolari intendimenti metaforici o simbolici, pur essendoci in questi testi molto del simbolismo e pure una certa
vena metafisica. C'è in questi versi un'umanità indefessa, "originale", ancora capace di una qualche innocenza, insomma "denudata" e "primitiva" (sia detto
senza accezione negativa), naive. A volte mi appare come un Rebora un po' più laico, spogliato da tutte le angosce, ma più portato a costruire
piccole parabole, spesso assertive. Quel che sorprende di più, in fondo, che disarma, è questa sensazione antica, prenovecentesca, anzi volterriana da
"migliore dei mondi possibili", nel quale l'autore non sta dalla parte di Voltaire, perché non prende in considerazione il cataclisma, l'evento critico, il
male che alberga il mondo. I punti in cui c'è maggiore frizione, un maggior salto di potenziale poetico, un pacato tono di angustia malinconica che infine
emerge sono in effetti le poesie (generalmente belle, come l'ultima qui presente) dedicate all'amore, al sentimento che in qualsivoglia mondo possibile è meno gestibile, perché non si
lascia semplicemente osservare come una zolla o un uccello.
Iannone, tra i molti che ho letto, è comunque singolare, pur essendo diciamo un lirico puro (anzi "euforico", come scrive Giovanna Rosadini nella
postfazione), e insieme un esponente di quella "identità sfilacciata e solitaria , debole e poco battagliera, una potenziale 'nuova generazione in ombra' "
che Matteo Fantuzzi aveva acutamente individuato nella sua antologia "La generazione entrante" ove lo stesso Iannone appariva (come rammenta Giovanna
Rosadini). Singolare per stile, certo, ma soprattutto per la sua visione "fanciullesca" (parola mia e di altri) che salta a pie' pari, ignorandola
bellamente, tutta la questione forse un po' abusata del chi e cosa siamo qui e ora, in questo mondo, nella complicata modernità, uno dei mondi
"impossibili" da decifrare, in cui l'uomo - certo colpevolmente - è sempre meno il destinatario "centrico" del dono di Dio e sempre più un prodotto. E lo
fa convinto com'è, sono parole sue, che "tutto è alla portata della mia comprensione". Aspettiamo con curiosità il terzo libro. (g. cerrai) Continua a leggere "Francesco Iannone - Pietra lavica" Venerdì, 9 settembre 2016Francesco Filia - La zona rossa Francesco Filia - La zona rossa - Il laboratorio/le edizioni, 2015
Cos'è la zona rossa? Ne abbiamo più o meno un'idea: anni di "eventi", a partire dalla fine degli anni '90 (Seattle, 1999), ci hanno abituati a questa area
fisica e giuridica "esclusiva" in cui i detentori di un potere si rinchiudono per parlare dei fatti loro (e nostri), difesi da un apparato militare e
repressivo vero e proprio, proprio quella zona in cui per una ragione si sospende un diritto di esserci, di starci ecc., una libertà di movimento, una
"circolazione", non solo delle persone ma anche e soprattutto della manifestazione delle idee. Ma anche - storia di questi giorni - quella in cui si segna
il perimetro di una instabilità, del rischio del crollo, della maceria inabitabile - in questo caso il relitto di una lotta, di una speranza ideale o
semplicemente, come ha notato qualcuno, di un rito di passaggio. E' questo il nocciolo della questione, nel libro di Francesco Filia, che partendo da una
memoria per così dire "storica" e collettiva - cioè le manifestazioni e gli scontri avvenuti a Napoli il 17 marzo 2001 in occasione del Global Forum, un
triste prodromo di quanto più grave sarebbe accaduto a Genova di lì a qualche mese - delinea un percorso esistenziale, sociale e inevitabilmente politico,
una parabola discendente. Libro autobiografico, poema epico/lirico strutturato su piani temporali diversi (ora/allora, ma il tempo narrativo è tutto in un
giorno, da alba a tramonto), registri diversi (narrativo, lirico/elegiaco) e voci intersecate, incentrato sulle presenze di tre ragazzi e una ragazza di allora, qui non
esclusivamente come persone in carne ed ossa o "personaggi" ma anche e forse in maniera precipua come emblemi generazionali, almeno di quella generazione
che all'inizio del terzo millennio non aveva ancora voglia di smobilitare l'impegno politico, ma forse, come dice Viola Amarelli, "epigona del fallimento
dei padri". Pur senza colpa, perché, come avverte Masullo nella prefazione, "l'ideale infatti è intrinsecamente necessario ma altrettanto intrinsecamente
impossibile". E' questa necessità a statuire il rito di iniziazione narrato in questo libro, con la relativa parabola conseguente. Passaggio verso dove? Se
questo è, nella sua compattezza, un bildungsroman, come ha osservato qualcuno, lo è alla rovescia, nel senso che forma ad un sentimento irrelato
di sconfitta, forse di inadeguatezza ai tempi che verranno (sono venuti). In questo è degnamente contemporaneo, essendo impossibile un riscatto, un'ascesa
o una catarsi. Le magnifiche sorti e progressive sulle quali, anch'egli all'ombra dello sterminator Vesevo, già Leopardi ironizzava, sono finite.
E tuttavia - poiché la poesia serve anche a questo - ripercorrere quelle vicende da un punto di vista plurisoggettivo (per dirla in termini
cinematografici) non è una archiviazione. Se in esergo tra le altre cose Filia sente di dover porre le parole del PM Marco Del Gaudio al processo
del 2009 contro gli abusi dei poliziotti ("Succederà di nuovo, prima o poi. Se non si mette bene a fuoco cosa è accaduto quel diciassette marzo, il rischio
è che tutto ciò accada un’altra volta") è perché credo che abbia sentito questa necessità, cercando di darne poeticamente un senso attraverso una
registrazione per così dire sinestesica di quegli sguardi diversamente soggettivi di cui si diceva prima. Del Gaudio preconizzava, facile sibilla,
qualcosa che nel 2009 in realtà era già tragicamente avvenuto, lo sappiamo. Il libro invece parla di una lezione irripetibile, perché si cresce, si cambia,
si tradisce (ideali e, come racconta il libro, compagni), si diventa forse pompieri, si supera forse quella pulsione di morte un po' romantica che
serpeggia nel racconto ("Trent’anni sono la soglia oltre la quale / non andrò, spesso mi son detto / brucerò quello che rimane in fretta"), si dimentica la stretta relazione tra pubblico e (è) privato (ricordate?). Lezione
irripetibile perché soggettiva, identitaria, sentimentale, nel senso buono, pieno ed "educativo" della parola, il non avere più dopo quel "niente di
meglio" flaubertiano che Filia cita in un altro esergo. E lezione insieme rinnovabile perché la si narra a chiunque voglia leggerla, se ne fa poesia
(scegliendo insomma la forma di comunicazione più "costosa", come direbbe Barthes) a tratti anche in maniera impietosa, poco giustificazionista, a tratti
con una vena lirica che parla direttamente alla nostra parte illogica, emozionale. Ma poi quel che rimane, la nota persistente di fondo, è la faccia
politico/poetica della meglio gioventù, del come eravamo. Ecco, se a me come semplice lettore è venuto in mente qualcosa, non è tanto Sciascia come ad alcuni, quanto piuttosto Gianni, Antonio, Nicola e Luciana, insomma l'Ettore Scola di "Ci eravamo tanto amati", che già nel 1974 descriveva magnificamente e forse anche
con maggior pessimismo l'epos di una resa generazionale, peraltro uscita da una catastrofe ben più imponente.
Non mi inoltro più di tanto nei dettagli perché di questo libro hanno parlato acutamente in diversi, a cominciare dal prefatore Aldo Masullo (ricordo tra
gli altri Montieri, Amarelli, Curci) e anche per i testi, oltre a quelli qui sotto, rimando a quelli apparsi su Nazione Indiana, Poetarum Silva, Carteggi
Letterari, ma anche QUI, ne La disarmata. Aggiungerei soltanto che uno dei meriti principali di questo libro è proprio di essere un poema a tutti gli effetti, come hanno notato in tanti.
Una forma-argine, un mezzo di contrasto della poetica rapsodica e frammentaria con cui si manifesta il "compianto", l'angoscia esistenziale, il disagio di
identità e collocazione che un po' "snerva" tanta poesia attuale. E' già importante, al di là che la si possa catalogare come opera politica o civile, cosa
che non interessa, o del fatto che inevitabilmente anch'essa sia mercè della "brutale corrente " della resa, se posso permettermi di semplificare. Ma qui la
storia (minuscola o maiuscola che sia) non pretendeva altro che di essere guardata per un momento in faccia. (g. cerrai) Continua a leggere "Francesco Filia - La zona rossa" Martedì, 23 agosto 2016Viola Amarelli - da Fantasmata, ineditiViola Amarelli - da "Fantasmata", inediti φαντασματα (fantasmata):
immagini sensibili (e in movimento) che Aristotele pone in una zona intermedia tra la percezione e il pensiero, ma libere da entrambi come pure dalla
fredda intelligenza argomentante. Evocate da ricordi, da esperienze, da visioni o da timori, non sono altro che l'immaginazione, la libera creazione,
libera anche di farsi da sé. Non c'è pensiero senza immaginazione o, meglio ancora, poesia senza di essa. E nemmeno immaginazione senza
percezione. I fantasmata stanno lì in mezzo, a fare da ponte. In questa piccola silloge di Viola Amarelli i fantasmi (o i demoni) sono per lo più
larve o barlumi di una realtà, non tanto percepita quanto vissuta e vivente come sintomo o fenomeno accessorio di altro, forse di un passaggio,
forse di qualcosa che travalica una ragione dormiente, come in Goya. Sono, ancor di più, fantasmi di fantasmi, nel senso di una ulteriore riduzione
dell'immagine evocativa ad una frazione di luce o d'ombra che il lettore può solo collocare nel bianco funereo della pagina, può contemplare, può forse
usare come modello, anche linguistico, per gettare uno sguardo sui suoi propri fantasmi.
Fondamentalmente quella di Viola mi sembra una poesia critica, ma critica di un io che è insieme antropocentrato e incapace di porsi davvero come
parte di un tutto consapevole, anche della propria morte ("un ego di muschiato marcescente"). La morte è presenza costante, qui, ma in forma di
contemplazione, di accostamento all'idea e al destino che contiene, elemento di una natura sovrastante e perpetua ("chissà quante altre volte siamo
morti"). È una poesia che vive (e lo fa coerentemente, per quanto possa essere paradossale) quella contraddizione di cui abbiamo appena parlato. Uno dei
nuclei "fantasmatici", forse il principale, a me pare proprio il contrasto tra un io per così dire sociale e un io intimo (quello lirico ha abdicato da un
po') luogo di proiezione di ombre e demoni ("oscuri e privatissimi") sul quale chi scrive vuole appuntare lo sguardo, o tra un dentro e un fuori illusori
("da fuori molto, / tutto, normale"). È la direzione in cui va Viola? Non lo so esattamente, so che in effetti qui non c'è più molto di oggettuale, hanno
perso importanza, da un punto di vista di oggetto ispirativo, anche le "nudecrude cose" di cui avevo parlato
QUI
, se non per il "caos che si riflette sulle nostre vite, o una casualità di eventi sofferti, di prospettive annichilenti" di cui avevo parlato a suo tempo.
Ho l'impressione che comunque qualcosa sia cambiato, si sia in qualche modo evoluto. Altrove Viola aveva detto "la scrittura è dall'origine un fissare, un
dar conto. E nel fissare c'è l'ordine, l'elenco, il taglio sul mondo", aggiungendo "Tutta questa ansia di fissare, contare, nasce da un flusso e si risolve
in un flusso, quasi una sorta di processo a "doppio cieco" ". Ma qui a me pare che questa ansia sia messa in discussione, sia "criticata". A che pro
averla, se l'esistenza presenta "il conto, infinitesimale, del / macellaio" (narratrice, III)? D'altronde, dice ora, "le cose non vanno come
dovrebbero...le cose non vanno, si fermano, splendono e / piangono".
E il testo corrisponde in modo del tutto coerente a uno "sfilare ordure", a un "disordinare l'ordine", una tela di Penelope soggetta solo ad essere
disfatta, ridotta nel frattempo al minimo essenziale, una scrittura volutamente ossificata che potremmo definire un ulteriore avvicinamento (che dura da
anni) di Viola al "mu", a un versificare "privo di" a cui la "narratrice" riduce le "narrazioni" (entrambi sezioni di questa piccola silloge). Cosa che
avviene anche quando il testo si fa viceversa affollato, come in Cerchi (altra sezione) perchè fatto di costruzioni sintattiche che asseriscono
qualcosa che si compie in sé, non vuole diventare veramente narrativo, perché anche gli arazzi alla fine mostrano l'ordito. Le narrazioni
d'altronde, premette in esergo Viola, "- di cosa parlano? / - al dunque niente. // sorda sirena". Perciò un altro vuoto, o una stasi, o un gioco che
"perso, splendidamente langue / nell'arrocco". Giacché, scrive altrove Viola, "niente è peggiorato", e insieme "nulla qui è migliorato". Anche quando, come
dicevo, il testo si amplifica e si dispiega, rimane la sensazione di una volontaria frattura degli elementi costitutivi del discorso, l'eliminazione dei
connettivi, delle "giunture", nell'intendimento finale che "le parole sono pietre. / tu scheggiale / fino a che non diventano sabbia, polvere. / fine" (cerchi, VIII). È come se Viola dunque macinasse indifferentemente pietre grandi e pietre piccole o piccolissime (testi di uno, due versi). Sì,
forse qualcosa è cambiato. (g. cerrai) Continua a leggere "Viola Amarelli - da Fantasmata, inediti" Mercoledì, 3 agosto 2016Loredana Semantica - L'informe amniotico e ineditiLoredana Semantica - L'informe amniotico - Limina Mentis, 2015
L'informe amniotico [appunti numerati e qualche poesia] è
un'opera prima, già finalista sia a Opera Prima 2012 (di Poesia 2.0, e
già in quell'occasione lo avevo letto, facendo parte del gruppo
selezionatore), sia al Lorenzo Montano dello stesso anno. E sinceramente
mi fa sorridere il fatto che lo sia, che sia un'opera prima, qualcosa
che si accosta mentalmente all'acerbo, al primaticcio, al sorgivo e
comunque a qualcosa intrisa di "divenire". Sorrido sapendo bene che in
Loredana c'è invece una collaudata coscienza poetica, una esperienza sul
campo di anni, una presenza competente molto defilata, per molto tempo
celata dietro pseudonimi (e chissà che anche Semantica non lo sia), come quella Alivento con cui aveva animato
blog letterari come "Via Delle Belle Donne" o "Tellusfolio", per lo più
però con rubriche e note piuttosto che con testi poetici suoi, di cui in
fondo è abbastanza parca (diverse tracce e notizie si trovano ancora QUI e QUI), preferendo comunque una pubblicazione "virtuale", che è possibile reperire su ISSUU.
Dimostrazione è qundi forse proprio questa sua "opera prima",
dimostrazione cioè anche di una riservatezza che non diminuisce la
poesia rinchiudendola ma semmai la incastona in una visione personale,
intima e raffinata, dove è necessario andarla a cercare, attraversando
l'etere.
Di questo libriccino parlo con ritardo e anche buon ultimo, dato che se ne sono già occupati a suo tempo Stefano Guglielmin (QUI) e Deborah Mega (QUI),
ma tant'è. Potrebbe essere quindi una buona scusa per parlare d'altro,
per così dire, in maniera ellittica (qua stiamo, infatti). Loredana è
già stata in questo luogo, circa dieci anni fa (v. QUI),
con qualche poesia su cui scrissi una nota, seguita - cosa poi divenuta
rara in un blog - da un piccolo dibattito ancora utile da leggere. In
quella occasione avevo posto l'accento su alcune caratteristiche della
sua poesia, di una poesia esistenziale dispiegata su uno scenario
"freddo", arricchita da una scrittura "significante", densa di elementi
pittorici, fonici, timbrici, ritmici, entro i quali la parola a volte si
dissolveva o si guardava allo specchio, con qualche innamoramento. Una
scrittura interessante e personale, appunto, in cui l'elemento
drammatico, una inquieta e disillusa visione del mondo e della vita,
fluttuava in maniera aerea, trovava per così dire un suo ambiente
naturale, diveniva permeabile al lettore.
In questo libro l'approccio a tematiche che sostanzialmente non sono
cambiate è più strutturato. Se l'idea di fondo è ancora quella di un
magma di difficile solidificazione, di un caos a cui è quasi impossibile
e insieme imperativo tentare di dare una forma e un senso, tuttavia ora
c'è il tentativo di includerlo in qualcosa di organico, che ci circonda
e in qualche modo ci nutre. Se l'indeterminato, il caso, l'accidente,
l'incontrollabile fanno parte della nostra vita, possiamo dire allora
che sono la nostra vita, o almeno sono il contenitore che ci
genera, in cui la vita nasce e si svolge. La ricerca di senso, come una
ricerca che si rispetti, avviene à rebours, partendo dalla decostruzione
del risultato finale, come una operazione di reverse engineering, fino
ad una "foce", quando "si ritorna all'uno, al grembo della madre".
Questo "uno" non è solo (o forse non è) un unum trascendentale
a cui tutto si riduce, ma è anche il punto terminale di un conto alla
rovescia, di una danza delle ore che parte da una sessantanovesima
("alla sessantanovesima ora deglutì il passato") e va all'indietro (o
forse in avanti, chi può dirlo?). Per la verità c'è anche uno "zero",
che sembra segnare un "oltre", una rottura dell'amnio verso una realtà
destinale, un annullamento in seno alla natura - una maiuscola "Madre
nostra" - al pari di tutti gli esseri viventi. Deglutire il passato è
azione primaria di questa ricerca, riportarlo ai suoi "nutrienti"
essenziali, che sono non necessariamente momenti memorabili, forse più
insospettabili, anche minimali, punti su cui si incentra una diversa
prospettiva della stessa realtà già vissuta, dispersa in momenti che
tuttavia hanno avuto il loro significato, in un "futuro già accaduto",
con una "preveggenza esperita a posteriori", come scrive Rosa Pierno in
una delle note introduttive. Forse il percorso a ritroso non è un
procedimento nuovissimo (penso a illustri poeti francesi come Jacques
Dupin, penso dalle nostre parti al "Diario inverso" di Lucianna
Argentino - v. QUI),
ma qui è sostenuto dal fatto di non essere esaustivo, di non essere
"narrante", di lasciare dei cavedi nei quali il senso (del lettore)
rimbalza o rimane sospeso, grazie anche ad un sentimento di
indeterminazione corroborato dal ricorso ad un vocabolario
essenzialmente astratto, che aumenta quella permeabilità di cui parlavo
prima, o riferito a una concretezza di oggetti che però sono segnacoli
di un quotidiano ripetibile, di una non eccezionalità. Sembra che
Loredana registri la sua verità "come se stesse prendendo appunti"
(Guglielmin), ed in effetti è così, per ammissione stessa del titolo. Ma
a me pare però che la inchiodi sulla pagina (anche con quei punti ricorrenti nel
testo, come chiodi cristici, nota Guglielmin, e infatti la croce è spesso nominata), come
nell'urgenza di salvare ogni frazione salvabile, con la coscienza - come
scrive - che ".non è facile ancorare lo spirito alla terra. la carta al
suo pensiero". La tollerabilità del vivere la si misura in questo
ancoraggio delle cose (usiamo questo termine generico) alla parola
poetica, e viceversa. Inevitabilmente, anche in questo libro
dall'andamento prosimetrico, il frammento si ripropone come un canone
accreditato, ormai presenza costante della poesia attuale, come simbolo
di una realtà ontologicamente inafferrabile se non per schegge di uno
specchio infranto, e c'è certo una differenza rispetto alle poesie di
dieci anni fa. Se un problema c'è è forse, parlando in generale, quello
di un certo "horror pleni", il timore di farlo crescere, quel frammento,
fino a farlo diventare (banalmente) magari un testo poetico per così
dire "insostenibile" di fronte alla stessa complessa realtà che dovrebbe
descrivere. Viceversa, gli inediti qui presenti sembrano indicare,
anche nelle parti in prosa, una specie di recupero di un discorso più
esposto, meno franto, di modalità più distese, più liriche anche, pur nella
persistenza dei temi esistenziali, che nemmeno il ricorso al punto
fermo, quando c'è, riesce a ridurre a frammento, a scheggia inquieta e
baluginante. Non saprei dire se questo sarà il nuovo corso della poesia
di Loredana, se il suo conflitto con il tempo navighi verso acque meno
agitate. Mi piacerebbe trovare le risposte in qualcosa di più organico,
forse la sua vera opera prima - tutti quei testi dispersi nella rete,
alcuni dei quali eccellenti, i vecchi, i nuovi - che è ancora lì da
qualche parte, dietro i velabri della sua proverbiale riservatezza. (g. cerrai) Continua a leggere "Loredana Semantica - L'informe amniotico e inediti" Martedì, 26 luglio 2016Vladimir D'Amora - Neapolitana membraVladimir D’Amora - Neapolitana membra - Arcipelago itaca Edizioni, 2016
Il tema è la forma, in un certo senso. Per quanto questo non sia sempre vero, può esserlo quando in un libro si parla di Napoli, è Napoli la fonte di
ispirazione, lo scenario e insieme la protagonista principale, seppure come voce fuori campo. Naturalmente Napoli in questo libro non è un "oggetto"
poetico o non solo, non può esserlo in sé, appartenendo di fatto ad un mito speciale. Magari - qui - di una mitologia privata, un luogo astratto e
concreto insieme ("è un luogo più reale / per la terra è un realissimo / collante"), un luogo solo e soltanto in cui certe cose della vita, proprio quella
dell'autore - private - , avrebbero potuto accadere. Un luogo complesso nel quale la complessità della vita si materializza, forse più che altrove. In
altre parole scenario ed elemento strutturante insieme, che c'è, esiste anche quando viene nominato appena. Sia la città/scenario sia quel che in poesia si
narra, non possono naturalmente essere rappresentati che per lacerti di un corpo, per membra, compreso quel tanto di sessuale, non necessariamente
esplicito in parole, che ogni tanto emerge. C'è quindi, per questa connessione sotterranea, qualcosa di sincopato che si riflette nel linguaggio e che si
esprime in quel tanto di "jazzistico" e di equilibrio ricercato, una certa "propensione verso la scrittura di ricerca e lo sperimentalismo in generale, non
ripudiando però, dall'altra, l'eco lirica" (dalla motivazione del Premio nazionale editoriale di poesia “Arcipelago itaca”, vinto dalla raccolta). Ricerca
e sperimentalismo che per la verità, a mio avviso, si esplicano per lo più in una lingua fortemente ellittica, spezzata, nel rinvenimento di elementi
lessicali contrastati e "duri" (e raramente dialettali), nel ricorso talvolta ad andamenti prosastici, o ad un enjambement estremizzato (specie nel
"narrativo"), ma che nel complesso non è "chiusa", anzi lascia al lettore un ampio margine di interpretazione, un ampio spettro di suoni e colori, insomma
una varia e diversa leggibilità. E' in questo senso che l'equilibrio di cui parlano gli estensori della motivazione è quasi totalmente garantito, non
dimenticandosi però, l'autore, che "la lingua è una torsione elementare", tanto più in poesia dove ci viene consegnata con una sua "conformità" per essere
restituita diversa.
Per il libro di D'Amora valgono molte delle cose generali che ho scritto QUI, parlando de La disarmata,
raccolta di autori vari che ruota anch'essa intorno alla città partenopea. Forse qui in un certo senso ce n'è meno, di Napoli, e alla fine non si può
parlare nemmeno di una poesia urbana, per quel tanto o poco che questo significa, pur mirando nel contempo (parole dell'autore) a uno "stile
dell'asfalto". Per quel che appare Napoli (o napoli, minuscola e confidenziale) è una città introiettata nell'animo (l'anima lasciamola all'imperio di
altri), in tanto apparentata con un "deserto ordinato da milioni di dei", dei che hanno abitato la città ma che tuttavia - aggiungerei - hanno abdicato da
secoli. In questa città/sostrato è quasi naturale rinvenire non tanto e non solo un passato mitico e eroico che in vari modi sedimenta in cultura (e certo
anche in scrittura) ma anche inquietanti "mappe / di una futura scena, di una crisi", a sua volta non tanto e non solo intesa in senso economico o politico
quanto piuttosto in quello di un privato quotidiano transeunte, nel quale l'autore sente che "tutto è posteriore a tutti", e dove è in essere un "dogmatico
accadere immemore". Dicevo introiettata perché quando D'Amora parla esplicitamente della città in effetti parla di sé e per sé, allegorizza la città come
un sé ugualmente complesso e problematico che con Napoli è in rapporto dinamico e circolare, esattamente come quando si trova a parlare d'amore o de "i
fiori che pendono falsi / da tetti più sacri", quei fiori che forse "urlano", fanno "voci", aprono la bocca, come molte altre cose che sono ipostasi di una
realtà che l'autore vive quotidianamente, e che rimane, persiste, vince la morte, ed è - ricordo - "posteriore a tutti". (g.cerrai) Continua a leggere "Vladimir D'Amora - Neapolitana membra" Martedì, 19 luglio 2016Greta Rosso - MANUALE DI INSOLUBILITÀ - Lietocolle, 2015 (collana Pordenonelegge)
E' passato qualche anno da quando, nel 2010, ho pubblicato su questo blog una piccola silloge di Greta Rosso, intitolata con una certa ambizionePoesie a Dio (v. QUI). Nel frattempo
Greta ha scritto diverse altre cose, compresa una raccolta inedita, La tormenta, finalista al Premio Montano di quest'anno. Se nel 2010 avevo
segnalato qualche incertezza e qualche testo di indubbio valore, questa raccolta dello scorso anno mi pare, almeno dal numero dei testi che ho annotato e
che meriterebbero di essere riproposti, un notevole passo avanti, soprattutto nel senso di una maggiore consapevolezza di obbiettivi e di modalità
espressive.
Articolata in tre sezioni (un complesso sistema di eventi intempestivi; fingemmo di scaricare le unghie, scriverci in petto; il nostro amore al di fuori della legge) anche questa raccolta esplora uno spazio personale e intimo, un altro di quelli che io chiamo "universi ristretti", nel quale Greta si muove bene,
registrando sollecitazioni antiche e nuove. Lo spazio è ristretto anche fisicamente, sostanzialmente domestico, custode di momenti o visioni o accadimenti
che essendo domestici dovrebbero portare in sé qualcosa di familiarmente confortante e invece spesso - e questo fa parte della poesia come linguaggio di
relazioni - fungono da agganci o trampolini per salti di riflessione, per diversioni centrifughe su toni nostalgici o di rimpianto, o diventano scenari per
un soliloquio interiore. Il passaggio spesso avviene per intenderci dal concreto, dalla nominazione del reale ad una articolazione astratta del pensiero,
come una sfocatura dello sguardo che si ritrae nel pensiero stesso, perdendo di vista l'oggettualità (e del resto le cose sono "impilate in mucchi a
dissolvere"). Altre volte avviene un percorso inverso, dalla riflessione malinconica o dal rimpianto verso un oggetto, visto però in funzione simbolica o
metaforica, in una specie di trapasso dal ricordo - per esempio - a qualcosa che non solo è concreto ma è anche costante o ciclico, cioè qualcosa che
segnala il tempo, in qualche modo lo misura (la neve, spesso presente, tanto per dirne una), quel tempo che, per capire, "mi tolse il padre e mi diede il
temporale a / tuonare fra le mani". O ancora il paesaggio come topos esistenziale da trascendere emblematicamente ("malauguratamente non siamo una /
spiaggia in inverno nella quale uomini / col berretto calato sulla fronte cerchino / monetine"). Naturalmente questi passaggi sono il terreno privilegiato
del linguaggio, una lingua poetica puntuale che Greta utilizza in genere molto bene, nella quale a volte - raramente - si perde, specie quando scivola su
un côté simbolista e involuto, dal riflesso esistenziale però intimo a tal punto che il lettore rischia di rimanere fuori della porta (es. in un dolore riparato ad aghi, un divenire); ma comunque una lingua che serve essenzialmente a far bene il suo lavoro, quello cioè di legare, annodare, contenere in una rete di lunghi filamenti l'insolubile, per definizione ciò che non può essere disciolto o slegato, sia esso un legame chimico o sentimentale o qualcosa da cui, alla fin fine, non si vuole davvero essere
liberati, come "un prurito dell'arto amputato". In effetti il ricordo è, nella maggior parte dei casi, qualcosa di irrinunciabile, che non ci abbandona non
ostante gli sforzi, e l'obliare per un poeta credo sia il peggiore dei mali perché significa tra le altre cose obliare una lingua madre, quella
emotivo/affettiva che nel caso di Rosso è elemento base, mi pare, della sua poetica in fondo nostalgico/romantica, e della sua scrittura. Al di là del
tecnicismo à la mode del titolo, qui non c'è niente di pratico, di
pronto all'uso, anzi - come suggeriscono i titoli delle sezioni, molto più eloquenti - il tema è quello della varianza, della aleatorietà, della "finzione" (anzi
"un'ipotesi di finzione", come scrive Greta), del caos o "disordine" che si voglia, degli inciampi (skàndala) che sregolano i rapporti, per lo più
variamente sentimentali (che sia il padre scomparso o un uomo), che incappano nella vita, spesso dolorosamente. A ciò che "accade", sopravviene o viceversa
nelle aspirazioni non arriva mai (come quel "amore mio ancora fatto in un’altra / maniera che non mi sogno nemmeno"), il linguaggio selezionato, asciutto,
controllato ma fluido di Greta tende ad opporre il suo ordine, la sua linearità, la sua soluzione, anche nel senso di "legami", di patti riscritti con quell'io non arrendevole, non disposto a defilarsi che è costante in tutto il volume. Nella
consapevolezza (o speranza, o obbiettivo) che la scrittura sia un ricondursi, un ricongiungersi "al nucleo (in cui / eravamo infine irrimediabilmente /
uniti)". (g. cerrai) Continua a leggere ""
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