Lunedì, 12 marzo 2018
Luigi Fontanella - Lo scialle rosso - Moretti e Vitali, 2017
Nove poemetti o racconti in versi, scritti tra il 1999 e il 2014, ci dice
in una nota lo stesso autore. Con una buona misura di anglosassone understatement, direi. E in effetti la prima cosa che salta agli
occhi alla lettura di questi ampi testi lirici è come una necessità non
solo di narrare una serie di eventi ma anche quella di fissarli, prima,
come sopra una lastra e piegarli poi, modificarli e in sostanza gettarli
sotto una nuova luce. Come si sa, infatti, ogni fenomeno varia e si
modifica sotto l'occhio, magari innamorato, del suo osservatore. E' quello
che fa sempre la poesia, la poesia buona, come atto di ricezione di ogni accidente, di ogni brandello di vita: diventare qualcosa d'altro,
se non addirittura qualcosa di altri. Niente, per un poeta,
trascorre inutilmente. Vige insomma, come scrive Paolo Lagazzi nella
prefazione al libro, una "intermittente, appassionata, tenace memoria".
Ricordare che sono tutte connotazioni che ci rimandano tra diversi altri a
Montale è pleonastico, tanto più per Fontanella, tra le altre cose
professore di Letteratura italiana alla New York State University (Lagazzi
cita anche Savinio e Landolfi). Insomma, è la sua materia ed ogni eco non è
altro che un indizio culturale scevro da qualsiasi epigonismo, uno
strumento che si adatta perfettamente allo scopo. Come anche naturale, mi
pare, è la vicinanza di Fontanella ad una consolidata tradizione letteraria
non solo novecentesca, lirica soprattutto, ma che tiene ben presenti tutti
gli sviluppi stilistici, appunto anche in senso narrativo e di aderenza al
quotidiano, che soprattutto nel Novecento sono avvenuti.
Se i richiami, più o meno soffusi, possono essere quelli che abbiamo detto,
[tuttavia] qui non c'è molto di "occasionale" e non solo per la dimensione
testuale delle poesie, che denota una articolata elaborazione del materiale
poetico di partenza, ma anche perché questa poesia nell'evento non si
conclude, non diventa epifenomeno di qualcosa che ha colpito l'autore,
dirottando magari verso un esercizio di stile, è decisamente antirapsodica,
come se esplicitasse la convinzione che l'occasione, se vi è, contiene una
"storia" (statica, diciamo) e un seme (dinamico), in altre parole rimanda
ad altre e ben diverse considerazioni, non necessariamente soltanto
"poetiche". Per quanto la memoria, in tutto il libro, sia elemento naturale
fondamentale, essa non è pura rimembranza, sia per l'apporto della rêverie, come annota Lagazzi, in costante dialogo con una realtà
oggettuale, sia perché Fontanella ha chiari i suoi obbiettivi poetici. Che
mi pare siano quelli di evidenziare una dimensione spirituale degli eventi,
per quanto eminentemente laica, e un loro ethos, cioè,
letteralmente, un luogo in cui vivere, in altre parole (e non è certo un
truismo) la vita medesima. Per cui il fatto, nella dimensione poetica,
diventa qualcosa di rizomatoso, per dirla con Deleuze, il fatto,
per sua definizione "passato" e tuttavia non muto, rivive di un'altra vita.
A me pare che si tratti di qualcosa di diverso dall'epifania,
dall'agnizione o da un momento meramente ispirativo. Non è qualcosa di cui
l'autore dice ah, bene, ecco un frammento di vita di cui può valere la pena
scrivere, o non soltanto. Mi pare che questa scrittura diffusa, così
fortemente fàtica, che descrive le cose nel loro aspetto sensibile e in
quello meno evidente, sia un tentativo di ridefinire certi confini, che
sono soprattutto tra la vita stessa (vissuta e - scrivendo - rivissuta) e
la morte come luogo in cui non è più possibile dire. Potremmo definire
tutto ciò semmai come una rivelazione, un disvelamento di implicazioni che
però non provengono da nessun iperuranio, o da un''ispirazione di tipo
romantico. Semplicemente già c'erano, sotto lo sguardo niente
affatto passivo del poeta, che è facile che magari impropriamente ci ricordi, nel suo peregrinare per le strade di Firenze o New York, una certa flânerie baudelairiana. Uno sguardo inoltre che in molti di questi
componimenti è condiviso, non solo con il lettore ma anche con chi, quasi
sempre, è testimone dell'evento insieme all'autore. E se non ci sono
testimoni, in queste narrazioni, ci sono personaggi letterari, gente
incontrata per strada, amici e colleghi citati, exerga e rimandi letterari,
che concorrono ad ampliare lo sguardo sulle cose. Sotto questo punto di
vista potremmo dire che in questi testi non c'è una visione strettamente
"privata", poiché mi pare che Fontanella non vi cerchi una catarsi
personale, o una purificazione dell'esperienza dal prosaico a beneficio di
un ipotetico lettore, ma che dia voce, per tutti, al possibile,
soprattutto al possibile significato delle cose. In altre e diverse parole,
non estetizza il suo materiale, e questa è una delle caratteristiche del
suo stile.
Il poemetto eponimo, Lo scialle rosso, è emblematico
dell'approccio di Fontanella alla sua materia. In una piovosa e ventosa
giornata di fine Aprile, lo scialle rosso della accompagnatrice del poeta
vola giù da un ponte di Ottawa. L'accadimento si esaurisce subito, lo
scialle rosso scompare dalla scena, per fare posto in sostanza ad un
sentire, a un sentimento del tempo che poi lo scialle, che
riappare negli ultimi versi, avvolgerà simbolicamente, proteggendolo e
chiudendo il cerchio. In mezzo Fontanella sviluppa una canzone sulla
fragilità, rispetto al caso, al mondo o all'essere altrove, la fragilità
individuale, e tuttavia la resistenza, della poesia soprattutto, come
emblema di un nucleo forte dell'uomo. Le intemperie, anche simbolicamente
intese, sul ponte di Ottawa "sbriciolano" il gruppetto di amici poeti (e
testimoni, si diceva), lì presenti, come Davide Rondoni, Plinio Perilli,
Irene Marchegiani, e scomparsi, come Giovanna Sicari, e lontane evocazione
italiane. Ma sappiamo che tutti, o almeno la poesia che rappresentano, si
ritroveranno. Lo scialle rosso quindi appare essere, come dicevo, non tanto
un elemento epifanico e nemmeno un correlativo, quanto un potente marcatore
mnemonico, in più carico dei segni del colore e del volo, da cui l'autore
procede a costruire il suo impasto di narrazione e sogno. Nel quale la
memoria non si esaurisce ma si rinnova come rappresentazione e
immaginazione (lo stesso Fontanella rammenta, in una nota, il "connubio,
che mi è caro, oscillante tra immaginazione e memoria, così come ne parla
André Breton nel saggio Situazione surrealista dell'oggetto"), pur
essendo questa poesia, va detto, ben lontana da territori surrealisti o
anche simbolisti. Naturalmente questo registro, che si ripresenta anche in
altri poemetti importanti come Dittico praghese e The old town, non è l'unico di cui dispone l'autore. In altri
testi, che per alcuni aspetti preferisco, come Lettere al padre e Canto del distacco, il tono è più eminentemente lirico/elegiaco, o
forse nervaliano come dice Fontanella, ma certo più venato di un intimo e
privato sentimento di rimpianto, una affettività che in un certo senso ci
avvicina maggiormente al poeta, testi in cui si allenta un poco la vena
descrittiva, meno assiepati di "oggetti" e di nomi, un linguaggio che non
ha necessità di articolarsi in narrazione o di dire "tutto" (come ad
esempio in Old Town e Efemeridos) perché lavora sul piano
di una percezione pura o se volete di un'empatia in cui
gioca più il cuore che l'intelletto. (g. cerrai)
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Giovedì, 25 gennaio 2018
norbert c. kaser - rancore mi cresce nel ventre - Edizioni
alpha beta Verlag, Meran/Merano, 2017
Ci sono coni d'ombra, nella poesia italiana, zone in cui il lettore arriva
con grande difficoltà o per caso, paludi di oblio che spesso corrispondono
ad areali linguistici minoritari ma a cui non sfuggono nemmeno altri, se
non interessano all'accademia o all'editoria, un'ombra che a volte si
illumina per caso. Mi è successo, per fare un esempio, con Roberta Dapunt
(v.
QUI
). Ed ecco, ringrazio per questo Francesca Corrias, un altro poeta che non
conoscevo. norbert c. kaser (sì, proprio così, tutto
minuscolo, come lui preferiva) è un caso del tutto particolare, che trova
in questa ottima pubblicazione (a cura di Toni Colleselli, traduzioni di
Werner Menapace, introduzione di Lorenza Rega) la collocazione antologica
che merita. Poeta e scrittore altoatesino bilingue, nato a Bressanone nel
1947 e morto a Brunico nel 1978, kaser ha avuto una breve
vita travagliata, vissuta in condizioni disagiate e solitarie, con vari
tentativi frustrati di essere e sentirsi parte di qualcosa, fosse la
religione cattolica (un anno in un convento dei Cappuccini), o la politica,
nel sindacato prima e nel partito comunista poi, oppure l'università,
abbandonata nel 1971. E poi vari lavori precari per sbarcare il lunario,
compreso quello di maestro di montagna, e il ricorso all'alcool, che ha
avuto una parte rilevante nella sua salute e nella sua morte. In mezzo una
presenza di polemista, di attivista politico, di feroce critico di un
rigido establishment sociale e letterario di cui soffrivano
indifferentemente artisti tedeschi e italiani (a questo proposito va
ricordato che kaser, al di là delle note vicende
separatiste dell'epoca, ha sempre sottolineato la sua italianità). Come kaser ebbe a dire (citato da Lorenza Rega): “Lentamente
svaniscono i pregiudizi nei nostri confronti. A noi spetta la parola! Qui
dalle nostre parti si aggirano ancora così tante vacche sacre che non si
riesce a vedere niente al di fuori di questa mandria. Ma la festa dopo il
macello sarà imponente. E vi parteciperanno anche gli italiani. Anch’essi
hanno una mandria di vacche sacre. I macellai hanno all’incirca la mia età.
Il Sud tirolo avrà finalmente la sua letteratura e di un valore e
importanza tali che nessuno può oggi immaginarseli.” Il rancore che kaser sentiva crescere nel ventre aveva anche queste
dimensioni, che forse possono apparire tra l'incendiario e il futurista, ma
che danno un'idea di una potente rivolta culturale, e che se
contestualizzate rispetto alla realtà altoatesina del tempo possono fare
affermare, anche a uno studioso attento come Claudio Magris, "atteggiamenti
letterari che in un contesto culturale diverso sarebbero puberali o
patetici, in Alto Adige hanno ancora un valore contestativo” (cit. da Toni
Colleselli). Il che, in un certo qual modo, è un giudizio parziale,
riduttivo, perché rischia di confinare kaser in una
posizione decentrata, locale, o appunto contestativa, mentre stile, temi,
qualità della scrittura e anche ricerca linguistica trascendono le
"occasioni" che hanno generato il suo lavoro.
Il libro, un corpus di 175 testi in versi e in prosa (le poesie sono 140 di
cui 15 scritte direttamente in italiano), ci restituisce un poeta di
assoluto valore, a cui non è difficile riconoscere la qualifica che gli
assegna Toni Colleselli di "maggior poeta italiano di lingua tedesca",
tutt'altro che un poeta a cui affibbiare quella specie di apolidia che si
associa alla letteratura di "confine". I temi sono molteplici, e certo kaser ha sempre in sé il concetto di heimat,
fondamentale in tutta la letteratura germanofona, portatore di un legame
non necessariamente costrittivo, ma anzi fecondo, con la tradizione; c'è
certamente il continuo rimando alla realtà anche locale, alla cronaca, a un
sentire politico e sociale, al paesaggio della sua terra spesso
interpretato come grande correlativo oggettivo di un inquieto sentimento
dell'esistenza; c'è una visione disincantata e certo pessimista della vita,
c'è l'amore, c'è un sotterraneo dialogo con Dio, c'è la visione poetica
delle città e dei luoghi visitati fuori dal Tirolo, c'è il gioco
linguistico e l'invenzione fiabesca nei testi che scriveva per i bambini a
cui insegnava. Ma quello che più colpisce in queste poesie è un rapporto
con il mondo forse pessimistico come si diceva ma non domo, non difensivo,
non ripiegato su di sé, non autocommiserativo, c'è semmai una pretesa di
risposte a molte domande, l'inesausto tentativo di superare una situazione
di "inceppamento" (Magris) culturale, sociale, generazionale. Anche se,
aggiungo, chiudendo il libro resta un finale drammatico senso di cupio dissolvi. C'è in questa voce, come giustamente nota Roberto
Galaverni in una nota apparsa su La lettura nell'ottobre 2017,
"qualcosa di duro e d'irrisolto, qualcosa come un'indignazione
fondamentale, come un'impossibilità di tregua [che] attraversano
dall'inizio alla fine i versi di questo poeta, tanto da porsi come il suo
carattere più distintivo e qualificante". E' questo carattere ad imporsi
sulla scrittura stessa, che può apparire alla prima con tratti
sperimentali, per aspetti visivi e linguistici, scrittura invece "motivata
da ragioni niente affatto letterarie ma immediatamente storiche ed
esistenziali" (ancora Galaverni). Un libro di così alto valore che, a
differenza di altre mie letture, c'è davvero l'imbarazzo della scelta (comunque sempre arbitraria e ingenerosa) nel
selezionare qualche testo esemplare da proporre qui. (g. cerrai)
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Lunedì, 8 gennaio 2018
Per espresso desiderio dell'autrice, che ringrazio, pubblico con grande piacere, in aggiunta al post del 6 gennaio dedicato a Elia Malagò, il testo completo della plaquette lalange da cui avevo estratto solo due poesie, con la prefazione di Antonio Prete, seguito dall'altra breve raccolta pubblicata sempre da Fuocofuochino nel 2015, dal titolo del disamore, con prefazione di Zena Roncada. Entrambe le plaquettes dovrebbero rientrare, insieme a diversi altri testi, nel prossimo libro a cui Elia sta lavorando con impegno da qualche tempo, un lavoro che personalmente attendo con grande interesse. Con l'occasione ringrazio anche l'editore Afro Somenzari per la sua amichevole disponibilità.
lalange
La poesia di Elia Malagò è resto di una lingua cancellata. Un resto che prende respiro e energia, e sale verso la libertà dell’immagine e verso la parola essenziale e necessaria. In questo movimento, aspro e dolce insieme, la lingua porta con sé un sentire che conosce la ferita, il limite, lo scacco del desiderio. Un sentire che sa sporgersi sul vuoto di senso, sul dolore del mondo, su quel “pianto disseminato” che è poi la storia degli uomini. Con questa nuova lingua – la riconoscibilità del poeta è proprio nell’edificazione di una nuova lingua, quella “langue nouvelle” di cui diceva Rimbaud – la poesia di Elia Malagò può farsi interrogazione del visibile, e allo stesso tempo dialogo con il visibile, con il suo mostrarsi e il suo nascondersi, con il suo distendersi nel paesaggio fluviale e il suo ritrarsi nell’aridità. Un universo stranito, opaco, doloroso prende campo: parvenze di quel che è assente, frammenti di una memoria d’infanzia che non lascia detriti ma corpi e gesti e luoghi vividi nella loro lontananza, sguardo sulle ferite e sulla cenere che il sapere della civiltà ricopre di indifferenza. Il desiderio non cessa di confrontarsi con i suoi orizzonti occlusi o offuscati. Ma in una natura che mostra la sua potenza e talvolta il suo patto con l’apocalissi, si aprono a tratti cieli liberi e fluttuano immagini di forte presenza, di cui “l’estate che correva per mare e scollinava” è quasi emblema. Che sia fosca o limpida la scena, i versi collocano ogni volta il lettore di colpo nel mezzo dell’accadere. Ma tutto accade nella lingua, nel suo prendere luce e vento, suono e respiro, senso e dolore, libertà e vigore. Questo accadere nella lingua è la poesia.
Antonio Prete
lalange
1
ho dimenticato la lingua del pianto
e non so più i sapori che a cascata stanziano sotto il naso insalano le labbra guazzano il mento sbriciolano il silenzio e idioti mescolano muco e arcani vergognandosi
mi vergogno di queste parole liberate sconosciute forsanche blasfeme
2
dico te ma sento me
non ho lingua e preghiera tua che trapassi scorticata e venga fuori a brani gutturi inson miei
3
so che non c’è lingua
cantilena forse di passi d’altri contati in sonni non sognati in notti di prima che il tempo ha sottratto
so che di quella lingua cancellata
da qualche parte resta un chiodo una polvere bluastro il barlume
Nota. lalange è un refuso della memoria di lalangue con cui ciascuno si parla
soglie
ma quante ce ne sono prima che l’oltraggio basti
limiti che la verità buca con una sfrombolata e viaggiano e viaggiano viaggiano findove si spacca la terra si sfalda il muro di tufo precipitano gambe e braccia
i piedi ancora nella sabbia gli occhi già inghiottiti dal sale
quando tutta quest’acqua finirà di sole e vento, comincerà la conta
il margine
non lo aggiusti come ti pare la mattina che s’è placata la tramontana
non è la siepe che togli il dissuasore si apre nonostante le spine
il margine è maestro che si prende corrente garbino piene e rottami conta i passi e le infamità confida nei due gradoni del sottobanca raccoglie confidenze e segreti mulina l’aria di colma e si gonfia di collere indicibili
ma non lo aggiusti non si aggiusta
ti ci devi mettere davanti senza socchiudere gli occhi spegnere
libera
solleva questo piombo di cielo
contro la quarta parete che cade fitta di nubi a frastorno d’aria fogliame e rabbiume
- diciotto anni prima che ancora la luna s’avvicini tanto misure e percentuali calibrate il faccione di matto fisso lì che ci guarda
da qui a diciotto fanno un mazzo di steli l’erica svasata l’estate appena scorsa
l’estate che correva per mare e scollinava senza campo a cercare menta e rosmarino avvitata lì a una menzogna che rabbiosa e cattiva si urlava dentro la sete
la fame
che ha traversato il deserto e succhia le ossa che trova
ogni desiderio spento
te la figuri la notte che non s’accende quando lo scuro incappa il cielo in un sacco di plastica e lo tiene stretto tra stelle scariche e antichi lallalli spersi nel deserto?
che calenda di tempo e sperpero che splendore d’occhi
tutto questo pianto disseminato
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Sabato, 6 gennaio 2018
Elia Malagò - Lalange - Ed. Fuocofuochino, 2017
Eccolo qua, un altro libriccino artigianale, quasi fatto a mano, un'esile
creatura di cinque fogli A4 piegati in due e spillati, stampati dalla "più
povera casa editrice del mondo", messa su da Afro Somenzari in quel di
Viadana ( www.fuocofuochino.it ), con un catalogo che, insomma, mica male. Se nel caso di Viola Amarelli
la tiratura si attestava su 120 esemplari numerati (v. post precedente),
qui siamo all'edizione speciale numerata in venti copie, tutte autenticate
da "un bollo IGE annullato da giduglia stellata che ne comprova
l’originalità". Ma non siamo al minimalismo, né allo snobismo, né al
samizdat. Sono "solo" entità poetiche che amano manifestarsi così ai nostri occhi.
Di Elia Malagò ho già parlato qualche volta (v. QUI), sebbene non quanto avrei voluto e dovuto sia per il suo valore sia per
l'amicizia che mi ha sempre dimostrato. Valore che questo libretto non
smentisce, nella estrema sintesi delle sue sette poesie, nella raffinatezza
del versificare, nella trasparenza della scrittura, sempre costante da
molti libri a questa parte. "Lalange è un refuso della memoria di lalangue con cui ciascuno si parla", scrive Elia in una nota. Sappiamo a cosa
allude: in primis, al di là del rimando culturale, a quel "resto di una
lingua cancellata" di cui parla Antonio Prete nella brevissima
introduzione. Cioè qualcosa che va (come solo poeticamente è possibile
fare) oltre il neologismo di conio lacaniano che, come altre idee dello
psicanalista francese, si presta a interpretazioni ed equivoci che qui non
ci interessano. Il refuso/lapsus in questo contesto prende la sua
rivincita, guarda caso freudianamente verrebbe da dire, sulla "tecnica"
lacaniana (cioè qualcosa che è interno alla disciplina), perché viene da
qualcosa di più profondo e personale che nemmeno avrebbe bisogno di
definizioni, dalla memoria. Niente è per caso. Se lalangue è la lingua preverbale, quella abitata dal corpo e con cui il corpo si
parla, se è l'aspetto primevo e materno della comunicazione, il refuso ci
dice che la poesia ha già agito su di essa, raddolcendola e riportandola al
livello simbolico che è proprio del linguaggio. Qui lallazioni, incertezze,
regressioni non ce ne sono, o almeno non servono come idoli sperimentali. Ci sono eventualmente invenzioni/restauro di parole dai molti echi (frastorno, rabbiume, sfrombolata, calenda, garbino, verbi come guazzano, insalano), cioè - mi pare - recuperi di "antichi lallalli spersi nel deserto". C'è
ancora quello che avevo scritto a proposito di Golena, "è certo che in quanto a parole Elia lascia poco o nulla al caso, la sua
è una scrittura esatta", senza nessun tipo di compiacimento. C'è ancora la
limpidezza dello sguardo con cui Elia osserva le cose, la sua pianura,
sempre presente anche quando non espressamente evocata, e le idee. E
tuttavia la riflessione sulla lingua c'è ed è l'oggetto principale di
questi versi. Ma, a differenza di altri esempi rinvenibili nella poesia
contemporanea, Elia non ne fa metapoesia, cioè non pensa alla sua lingua
concettualmente. È semmai una riflessione radicale, proprio nel senso di
una "liberazione" alla radice della parola, di un suo "etimo" implicito,
perfino di una sua "blasfemia", ovvero di una rottura violenta del canone.
Il punto è che Elia sa, o si domanda, se da qualche parte c'è una lingua
cancellata, un idioma di cui rimane qualche segno, qualche "chiodo". Se
scrive "ho dimenticato la lingua del pianto" non vuole dire che non sa più
descrivere il dolore col linguaggio ma che il linguaggio del pianto non
risuona più a dovere in lei, e c'è necessità di qualcosa che potremmo
definire empatia del sé. La lalangue lacaniana? Forse, ma qui si tratta se permettete del primato della poesia,
come linguaggio specifico. Non si tratta di sciogliere un nodo psicoanalitico, si tratta di
attingere a profondità diverse da quelle meramente psichiche, scendere al
di sotto di certe superfici, recuperare un livello di comunicazione senza
orpelli salvandone nel contempo la carica poetica. La ricreazione di una
nuova lingua "esatta", ciò che ha tutta l'aria di essere un'evoluzione. (g. cerrai)
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Venerdì, 29 dicembre 2017
Viola Amarelli - Il cadavere felice - Edizioni Sartoria
Utopia, 2017
Torno a parlare di Viola Amarelli, che trovate su IE
in altri post
, perché mi piace come scrive e come pensa, semplicemente. Inoltre questo
"cadavere" è anche un oggetto che ha una sua presenza materica, essendo
stato cucito artigianalmente dalle Sarte Utopiche Manuela Dago e Francesca
Genti, e lo vedi sgomitare tra gli altri libri della libreria con lo
spessore delle sue cuciture. In più tende anche a sottolineare la magnifica
inutilità della poesia, perché vive in pochi esemplari ed è orgogliosamente
fuori da certi processi produttivi. È quindi, in questo senso, un oggetto estetico, oltre che artistico, qualcosa che si pone
consapevolmente fuori dalle mappe.
Ah, sì, le mappe. Perché lo dico? C'è qualcosa che assilla (o solamente
interessa) Viola Amarelli, e mi pare che sia la ricerca e possibilmente la
scoperta dell'essenziale che è possibile dire con il linguaggio che ci è
concesso in dote, depurando il linguaggio stesso dai fronzoli che ne
costituiscono il velame primario. Fronzoli che sono anche di fatto
culturali, prodotti di una esondazione del mondo sulla scrittura, in
sostanza alibi quando si rigetta la fatica di sezionare il reale
preferendone il topos o la mera rappresentazione. Scrive Viola:
[gli accademismi, le traduttologie, le lectiones serpentiformi,
i periodi uroborici, l'armamentario lulliano, il bilame
del computo binario, disegnassero almeno una traccia, una via di,
un sentiero, altrimenti di bravi, bravissimi, ce ne sono già tanti]
È evidente la critica, in primis della poesia stessa, ma anche la critica
della critica. Almeno come espressioni del linguaggio, non tanto come mezzi
in sé, visto che tuttavia alla poesia Viola ancora crede. È che
l'essenzialità dell'espressione è essenzialità del pensiero, soprattutto
nel momento in cui la rozza materia linguistica diventa, come una amigdala
di selce, uno strumento. Che deve essere infine consumato:
le parole sono pietre.
tu scheggiale
fino a che non diventano sabbia, polvere.
fine.
Be', qui entrerebbero in gioco altri fattori, diciamo così ideali, a parte
quella chiusa che può essere intesa in diversi modi. Uno di quei fattori è
che rarefazione del dire, frammentazione del verso, sospensioni sintattiche
e altro ancora non sono iconografia nichilista, o rappresentazione di una
realtà sfuggente e spappolata, o balbettio stupefatto dell'uomo. Sono
semmai ammiccamento, anzi avvicinamento al silenzio come perfezione
inattingibile, come forma d'arte suprema, o mistica. Naturalmente Viola sa
bene che esiste un punto di rottura in questo avvicinamento, un culmine
oltre il quale tutto precipita nel vuoto. Come scrittrice, perciò, cerca di
raggiungere semmai l'arte di avvicinarsi al limite e ritrarsi, e questo
significa, ancora una volta, depurare la parola mantenendone da una parte
intangibile il senso, per qualunque orecchio, e dall'altra dandole un
riverbero disvelante o sapienziale (ma siamo ormai lontani da Notizie dalla Pizia). Il limite fascinoso è, in altre parole, una
scarnificazione "pulendo all'ossoessenza / quello che resta, quel che
m'interessa". Processo consapevole quindi, mentre di converso il cadavere
felice, come spiega la poesia eponima, è chi non sa di essere morto, come
un arto fantasma che si illuda di afferrare brandelli di vita, mentre
invece ha subito o accarezzato "uno sciame di mediocrità". Nella visione di
Viola, critica del linguaggio e critica della mediocrità umana
("l'imbecillità dilagante") si sovrappongono, anzi sono indistricabili,
perché è nel modo di dire, nella costruzione facile, nel sintagma assestato
nella consuetudine (gli stessi che Amarelli talvolta destruttura
ironicamente) che precipita la dismissione del pensiero.
Composto di cinque capitoli ( narrazioni, cronache, dèmoni, fantasmata e cerchi), la
maggior parte dei quali inclusi, in tutto o in parte, in Fantasmata e altri inediti di cui avevo già parlato
QUI
(e quindi rimando anche a quel post, a quanto scrissi e alle poesie ivi
contenute), il libro appartiene a quel genere di poesia che se ne frega
altamente di essere lineare o assertiva, che cerca uno stile non autotelico
(lo scopo in sé) e che se fa ricerca (termine che noterete ho usato solo
una volta prima d'ora) è proprio per trovare qualcosa, non foss'altro, al
bisogno, come scrivere "una poesia semplice" (trovate il testo nel post
sopra citato) o il modo di confrontarsi a testa alta con le cose, ancora le
"nudecrude cose" che, loro sì, "se ne fottono o, più esattamente, restano
imperturbabili", o con la presenza sempre sotto traccia della morte, tenuta
d'occhio e di conto, ma da una distanza "spirituale" e tutto sommato disciplinata. Ecco, credo che questo sia un concetto appropriato,
applicabile su più versanti, sul lato soleggiato e sul lato in ombra della
collina, per dirla in termini che Viola potrebbe apprezzare. Ovvero su
quello della scrittura, per ciò che abbiamo detto prima ma non solo, la cui
sintesi espressiva, rarefatta e contundente insieme, non viene contraddetta
dai testi più lunghi, quelli ad esempio che è possibile leggere nella bella
sezione cerchi; e sul versante dello sguardo, specie quando
rivolto all'esterno, come alla sua città e alla gente (qualche esempio
ancora in cerchi e nelle poesie contenute ne La disarmata
- v.
QUI
), sguardo sempre selettivo negli elementi, pochi e fondamentali, che vanno
a comporre un'immagine che oserei dire compassionevole e partecipata di un
comune destino di impermanenza (purché non si parli di imbecilli,
naturalmente! o di certi orrori della modernità). È in fondo la disciplina della misura, che non è ritegno
né understatement, è caso mai consapevolezza dei limiti e dei
confini, anche di quel silenzio che la stessa parola poetica contraddice,
proprio nel momento in cui lo prefigura: "le belle parole / le giuste / le
sufficienti / quelle necessarie / finiscono nello stesso / punto dove
nascono. / il silenzio - sipario". Nel frattempo però... (g. cerrai)
Continua a leggere "Viola Amarelli - Il cadavere felice"
Domenica, 26 novembre 2017
Stelvio Di Spigno - Fermata del tempo - Marcos y Marcos, 2015
Di Spigno, come ad esempio De Lea (v.
QUI
, - ma con altri esiti, altre tonalità, un diverso uso plastico della
lingua), è poeta in cui la scrittura è ricerca di rassicurazione e
identità. Lo è per diversi aspetti, a cominciare dal suo "sforzo di frenare
o addirittura di arrestare il flusso del tempo, di illuminarne una fermata" (Umberto Fiori in prefazione), il che mi pare significhi,
anche alla luce dei testi di questo libro, non solo una ricognizione per
momenti e luoghi topici della propria vita, ma anche la ricerca in essi del
proprio essere attuale. E' in altre parole un ragionato ritorno a casa
(dovunque in realtà essa sia), in cui però la nostalgia ha un'importanza
relativa, è più motivo lirico/elegiaco che epico o tragico, poiché mi pare
vi manchi un'eco lancinante, come se Di Spigno di quella "casa"
riconoscesse più la forza evocativa e identitaria che la sua mancanza.
Luogo che tuttavia certamente non "sembra proprio una casa qualunque e
indolore" (in La nudità, Pequod, 2010, v.
QUI
), una specie di disperso, molteplice e personale "posto delle fragole" su
cui Di Spigno posa uno sguardo essenzialmente rivolto al passato, facendo
un po' il punto della propria vita. Se il tempo ha un senso, quindi, - e
qui sta parte della rassicurazione - , è per il suo essere storia e replica
(come rappresentazione) di eventi e luoghi (Roma, Gaeta, Napoli, Anzio, la
Calabria...) per così dire filogenetici, di cui cioè il poeta reca traccia
in sé. E poiché storia è narrazione di sé stessa e di chi
trascina con sé, ecco che ne consegue naturaliter la scrittura che
Stelvio ritiene più adatta, un flusso di cui avevo già parlato brevemente a
proposito de La nudità, appunto narrativo, a volte ipertrofico, a
volte predittivo, e in cui, come accennavo prima, trova talvolta il suo
spazio anche l'elegia pura, quasi foscoliana, come ad esempio in Faville, ma con un certo equilibrio (ha ragione ancora Fiori in
prefazione) e poco timore di lanciarvisi pur col rischio calcolato di
qualche sbandata, conoscendo come un pilota il suo mezzo, le sue parole. In
un certo senso Di Spigno cerca e trova un'altra rassicurazione proprio in
questa lingua in cui quel che devi dire e la forma in cui lo dici sono
indissolubili, nella quale cioè elemento fàtico e funzione poetica sono
così fusi che il carattere lirico/elegiaco vi trova la sua collocazione
naturale, non extra ordinaria. Ne è così convinto che a volte si allunga e
dilunga, come già avveniva ne La nudità, non è poeta che lavori
per sottrazione, tende semmai a non buttare via niente di quel che ha da
dire, fossero anche i nomi di persone e luoghi che risuonano, per ovvie
ragioni, solo per lui. Sia i luoghi che la scrittura sono per Di Spigno, a
mio avviso, spazi mentali o ricordi "affidabili", che è necessario in
qualche modo non tradire, omaggiando e rinovellando i primi con la seconda,
anche con una certa maestria lessicale, con una capacità connotativa e a
volte esornativa del "fatto" che tende a dare una certa aura "mitica"
all'oggetto del poetare, ma che crea in definitiva una tessitura di
rilievo. Quando Stelvio riesce ad allentare un po' la pressione
sull'acceleratore del dire, a favore di una emotività meno mediata,
consegue gli esiti più alti come quelli (v. Il distacco) contenuti nella sezione Generazione mortale, a mio avviso la migliore del libro insieme a Le radici sepolte.
A pensarci bene più che di nostalgia o di ritorno ai lari, di tratta di
malinconia/rimpianto, spesso con uno schema classico e abbastanza
ricorrente di enunciazione/ipotiposi del ricordo seguita da una ripresa
attualizzante/riflessiva ("Eppure quando torno...", "E ora eccomi qua...",
"Ma intanto passano i treni...", "Qui ho vissuto tra gente...", "Ora io ti
penso...", "L'alba ride come allora...", "Ecco cosa ripetono i miei
anni...", "Li rivedo in lontananza...") con un andamento leopardiano, come
ne La quiete o ne La vita solitaria per capirci, che si
ritrova anche in un uso esteso del verso libero ipermetrico che già avevo
notato a suo tempo, segnato più da spezzature che da enjambement
significativi (ma vale la pena rimarcare anche qualche eco pasoliniana,
come in Trastevere ore quindici). Tutto sommato quello di Di
Spigno non è un mondo particolarmente complesso, perché non è
particolarmente moderno (e nemmeno postmoderno), descrive - spesso molto
bene - dinamiche intime su sfondi che, al di là della geografia, da un
punto di vista lirico potrebbero essere ovunque, salta a pie' pari (per
fortuna) tutti i mugugni della crisi dell'uomo di oggi di fronte al nulla,
preferendo cantare le sfumature di un esistenzialismo semplice. Entro il
quale, in una prospettiva ben definita, contenuta nelle due direttrici
passato/presente che tendono a riprodursi (il presente è già un passato),
l'individuo/poeta si pone come custode di una memoria che aspira ad essere
"non per rimpiangere, piuttosto per sapere dove andare". Cioè una memoria
non lapidaria, malleabile. Ma, dice l'autore, "siamo una specie senza
predizione", cioè senza futuro, senza contare che "il tempo non avanza di
un momento". Solo la poesia (ed è la fede di Stelvio) può sperare di
risolvere una tale aporia. (g.cerrai)
Continua a leggere "Stelvio Di Spigno - Fermata del tempo"
Martedì, 17 ottobre 2017
Davide Castiglione - Non di fortuna - Italic 2017
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Ho già scritto qualcosa su Davide Castiglione (v.
QUI
), a proposito del suo Per ogni frazione, uscito per Campanotto
nel 2010. In quell'occasione terminavo l'articolo con una sospensione,
aspettando di "osservare Davide alle prese con qualcosa di più progettato",
dopo aver sottolineato non pochi elementi di interesse in un libro forse un
po' frammentario ma dotato di "una sorta di raffinato understatement
emotivo di discreto effetto".
Credo che un po' delle cose che scrissi allora debbano essere accantonate,
non necessariamente nel senso di "meglio o peggio di". Semplicemente o le
cose cambiano o si assumono come parte dello stile di un autore, di una sua
maniera di vedere poeticamente la faccenda.
La poetica di fondo mi pare infatti che rimanga immutata. Una inquietudine
a volte irrelata, cioè non esattamente definita nelle sue motivazioni, che
si riflette sulla realtà o da essa proviene, mediante una osservazione
bifronte o bidirezionale, non sempre attivamente esercitata, ma semmai
riverberata in uno spleen il più delle volte solitario, una
cogitazione riguardo all'essere lì e in quel momento,
dove però "giustamente è tardi", "tutto è appena", essendo "fuori tempo
massimo". Si ha in effetti, leggendo questo libro, l'impressione di una
ricerca di collocazione nel reale, in cui però il caso, e non la volontà,
abbia una parte preponderante (anche nella fornitura di "occasioni"), e
dove la scrittura cerchi di mettere ordine, cedendo però talvolta alla
tentazione di mimare il disordine stesso del caso. Se si ottiene così un
effetto di scoppio ritardato, Davide ha però ben presente la necessità di
cogliere, in questi nodi, quanto vi è di poetico o di registrare quelle
piccole manifestazioni epifaniche che nel quotidiano (il tempo è quasi
sempre, anche qui, uno scorrevole presente) si incistano. Il problema (e la
necessità) della poesia di questa ispirazione, o con questa linea, sta nel
dilemma tra trovare e cercare il poetico, con una ricerca
che - rispondendo ad un bisogno di deformazione del tangibile "ordinario" -
è affidabile solo al linguaggio, alla sua capacità di trasformare
l'impoetico in poetico (ovvero, secondo un pensiero leopardiano,
nell'illusione che allontana la visione del nulla). Dico questo perché non
sempre è possibile trovare, nel qui e ora - e scriverne -,
un'illuminazione, un simbolo, una parafrasi dell'esistenza, senza, diciamo
così, lasciar fare un po' anche all'immaginazione, andare a vedere cosa c'è
davvero dietro e sotto, o inventarlo. Castiglione ha un
certo talento, per quanto discontinuo, nel fare questo, nel tentativo cioè
di dare una lettura sovrareale alle cose, e mi ricordo di aver parlato, a
proposito del suo libro precedente, di "corti circuiti poetici addirittura
eccellenti", forse in quest'ultimo lavoro un po' più dispersi. E' una
poetica dell'esistente, e quindi di un habitat, da abitare e forse
adattare alla propria sensibilità, nel quale le memorie non si sono ancora
sedimentate, è tutto ancora in divenire, da farsi, un divenire tuttavia in
cui il tempo ci sorpassa, come dicevamo prima, e questo farsi non sembra
implicare una speranza, un investimento nel futuro. E' tutto molto attuale,
da questo punto di vista, e tutto molto individuale, voglio dire
dietro c'è una generazione e insieme non c'è, c'è qualcosa di
critico e non c'è, c'è insomma una solitudine. Da un altro punto
di vista, divergente, in Per ogni frazione mi pareva ci fosse una
diversa aderenza alla realtà così com'è, o più flânerie, proprio
nel senso baudelairiano del termine, uno sguardo su una realtà che però era
forse possibile mutare simbolicamente. Ora la proiezione del tempo in
Davide è decisamente cambiata, mi pare più frantumata e disillusa, per
quanto anche allora lo fosse, vi fosse una questione in sospeso, un punto
interrogativo sotto traccia riguardo alla leggibilità degli accadimenti. In
alcuni testi questa sospensione ripiega in una oscurità del dettato non
sempre traducibile, che a volte prende le mosse da un oggetto, evento,
fatto sfumato o criptico, come una conoscenza esoterica che compete a
pochi. E' vero che a questo concorre una padronanza della lingua notevole,
a volte funambolica, con costruzioni a volte precipitanti, paraipotattiche
e seriali subordinate nelle quali il dubbio, l'interrogazione, la domanda
inevasa nuotano a proprio agio, sfociando non di rado in qualche postura
filosofica. E' pure vero che in questa scrittura capita anche di incontrare
qualche ingenuità, qualche forzatura, qualche jeu de mots palese
che non ti aspetteresti: "a brutta posta", "lo propelle una passione
gelida", "fatto sta che / ma il fatto non sta", "iniziare e frinire",
"commutano: nel senso del fare / avanti e indietro", "confessa chi fa gli
orrori di casa", "l'opera di sapone, soap, / sob", "gli animaletti sbadati
eternati nel bitume". Ma anche questo credo che rientri in una ricerca e ne
sia un po' lo scotto da pagare, Davide è un critico troppo raffinato (altra sua
attività che apprezzo molto) per non saperlo e prendersi qualche rischio.
Assumiamolo semmai come specimen di una qualche pressione sul piatto significante della bilancia espressiva. Sbilanciamento che
tuttavia (generalmente parlando, non solo nel caso di Davide) può
contribuire egregiamente a quella "obliquità" o significanza (superiore
alla informatività del significato) della poesia a cui allude M. Riffaterre
("la poesia esprime i concetti e le cose tramite obliquità. In parole
povere, una poesia dice una cosa e ne significa un’altra"). E' solo un
problema, direbbe un pianista, di pedale.
Di che parla la poesia di Castiglione? Be', in parte l'ho accennato, parla
di star solo sul cuor della terra, ma senza una singolarità che rischi di
farsi massa critica, che sia prodromo di tempi diversi, parla di un "io
immerso nel divano", che "non [sa] scegliere né rinunciare". Il giorno, il
presente di cui ho parlato altre volte, non può che avere la sua
ripetizione come condanna. C'è anche una privatezza, che qui ad esempio
trova la sua espressione nella sezione, appunto, "Privati", che peraltro è
a mio avviso la migliore, forse perché mi pare essere quella in cui di più
Davide parla di sé, più direttamente lega l'esperienza al suo sentire anche
lirico, senza troppe intermediazioni, dove anche il paesaggio urbano,
postindustriale, appare dotato di una sua umanità, per quanto residuale,
perfino di una certa affettività. Ma lo sguardo sulle cose, anche sui
rapporti sociali, sembra non solo disilluso ma volutamente privo di
emotività, come se si fosse ulteriormente allontanato quell'io
"immediatamente al di fuori del cerchio degli accadimenti, a volte un
interessato osservatore esterno, a volte uno che attraversa come un
passante l'area poetica per poi lasciarsela accaduta alle spalle" di cui
parlavo a proposito del libro precedente.
Il versante opposto è in qualche caso anche acribico, uno sguardo gettato
su una realtà microscopica, pixellizzata (e quindi scontornata), dalle
stelle agli acari, quasi che il calarsi nella realtà fosse un
attraversamento di strati e livelli, come in certi film dove il satellite
zoomando si cala nel poro della pelle del protagonista. La realtà cambia se
la si guarda da molto vicino? (ma qui bisognerebbe per l'ennesima volta riaprire
il discorso sul divario tra realtà e reale). Temo di no, temo che sia
troppo complessa per poterla sistematizzare in questo modo. Rimane certo il
grido solitario e cocciuto di fronte al vuoto, non potendo comprendere ciò
di cui si fa parte come minuscolo frammento, come la scheggia di uno
specchio immenso, against the fog but part of it, come recita un
esergo di Sean O'Brien. E non posso fare a meno di trovare, oltre agli
esiti letterari, qualcosa di eroico in questa battaglia perdente, che non è solo di Davide e di altri della sua generazione, ma nella
quale Davide è un buon soldato, con le sue armi, con le sue paure, le sue perlustrazioni in terre di nessuno, le
sue ritirate. (g. cerrai)
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Giovedì, 27 luglio 2017
Simone Maria Bonin - Tratti primi - Arcipelago Itaca Ed., 2017
Come ho detto altre volte, non è sempre agevole parlare di un'opera prima.
Si rischia di essere troppo condiscendenti o troppo severi. Ma può essere
utile. E' pur vero, intanto, che un'opera prima non è mai tale, non spunta
dal nulla in una notte come un fungo prataiolo. Immagino che anche nel caso
di Bonin questi Tratti primi siano frutto di una scelta di prove
precedenti, di elezioni e rifiuti operati su un lavoro di scrittura, per
quanto relativamente breve esso possa essere stato (l'autore è del 1993).
Un libro che ha vinto, per l'inedito, la seconda edizione del Premio
indetto da Arcipelago Itaca.
In questo tipo di letture l'interesse principale, a mio avviso, sta nel
cercare di capire l'aria che tira, cos'è che importa mettere in poesia ad
un giovane, pur nella convinzione (mia) che il dato generazionale non
costituisca affatto una categoria critica, ma solo una prospettiva per così
dire sociologica. E quindi, di cosa parla Bonin nella sua raccolta? Del
mondo, naturalmente, e della realtà, almeno come percepibile ai suoi occhi.
Si tratta, citando la motivazione del premio, di "un approssimarsi inquieto
ad una realtà che costantemente sfugge". Se ci si limita a questo siamo nel
pieno del secolo breve (ma per Sanguineti interminabile), e si parla ancora
dell'ambito della incomprensibilità del mondo e della sua descrizione, e
della crisi dell'uomo di fronte ad esso. Un tema a cui anche molti giovani
poeti non sfuggono, testimoniando un disagio che però non può essere che presagito, o, nella peggiore delle ipotesi, raccolto,
come se l'esperienza soggettiva (per forza di cose limitata) si mischiasse
ad una percezione non degli eventi ma della narrazione (magari
anche letteraria) dei medesimi, di uno stream poetico. Almeno la
prima parte della raccolta (diciamo le sezioni Vicoli ciechi, PTSD, Biopsie) mi pare che si muova in questo
senso, identificando lo sfuggire della realtà (che però è cosa diversa dal
reale, ma lasciamo perdere) nella indeterminatezza degli oggetti poetici e
della loro messa a fuoco, dei "luoghi" esistenziali, delle cose che appunto si osservano nell'approssimarsi.
Se questi caratteri sono esatti, mi pare che siamo su un terreno di
ermetismo "riformato", in chiave moderna se volete. Da questo punto di
vista mi sembra emblematico un testo come il seguente:
Sei parole senza nome, senza
soluzione
impara la posizione del corpo le cose
non torneranno più
in cui al lettore non è offerto alcun appiglio, tranne la pura suggestione
di un ammonimento che l'autore dà a sé stesso (il tu non mi pare
riferito a qualcun altro) riguardo, forse, al tempo che scorre in maniera
inesorabile, partendo da qualcosa (sei parole) di determinatamente
indeterminato. Non sappiamo altro, e comunque sappiamo molto meno di quello
che certo sa l'autore, un atteggiamento orfico poco "transitivo".
Un altro esempio può essere quello di Illogiche II, che troviamo
prima:
II
Qualunque cosa fosse
l’ho sotterrata in un fosso
ho fatto un cerchio nell’aria
e ho scagliato d’impulso il sasso
un movimento d’elastico e il corpo
si fa molla - lontano, dicevo, va lontano
“Tanto poi sbuco fra le dita della tua mano”.
Qui l'indeterminatezza è concentrata in quel "cosa" (parente delle "cose"
del testo precedente) che però, pur essendo lapidario e testimoniato
dall'autore nel suo essere inconoscibile, ignoto e, forse, ignorato,
ingenera nel lettore l'immagine di un fatto, un evento, una esperienza o
chissà cos'altro che viene superato, gettato dietro le spalle, tanto poi
qualcuno (come dimostra la forma dialogica virgolettata) ritorna, riemerge
come in un frame, anche tra le dita della mano che tenta di impedirne la
visione. Non si sa se questo fatto sia un bene o un male, il mistero
rimane, in questo testo, ma certo il lettore riscuote qualche guadagno in
termini evocativi.
Qual è il problema delle "cose"? Di per sé nessuno, anzi le "cose" hanno
sempre avuto la loro dignità, in Montale tanto per dire, nella cosiddetta
linea lombarda, in autori come Sereni, Cattafi, Balestrini e diversi altri.
In questo discorso servono solo come marcatori (ma ce ne sarebbero altri)
di una tendenza più generale a far scomparire la realtà, anzi a nemmeno
identificarla, "conoscerla", nascondendo questa riduzione minimalista sotto
il tappeto della genericità di un sostantivo come "cose" (o analoghi), come
ha cercato di dimostrare Davide Castiglione in un suo saggio di qualche
anno fa, intitolato appunto "Le cose, le cose, le cose - Svuotamento e
stallo nella poesia recente". Insomma si tratta di vedere se certa
indeterminatezza (non tanto in Bonin quanto in molta della poesia giovane
attuale) è emblema di poesia che ha il suo proprio "essere nulla e tutto" a
cui ancora la motivazione del premio fa riferimento (ma rovesciando qui la
connotazione positiva della motivazione stessa). Non è un caso che facciano
parziale eccezione i testi della interessante sottosezione Voyages
, nella quale il riferimento quasi onirico ad elementi naturali (mare,
monti, onde, acqua, alberi) danno al dettato una forza di correlatività tra
interno e esterno, tra percezione e realizzazione.
Certo, quelli che ho preso in esame sono due casi forse estremi. In effetti
essi evidenziano la differenza che esiste all'interno di questo libro tra
una prima parte, quella rappresentata dalle sezioni prima indicate, ed una
seconda, costituita principalmente dalla sezione eponima Tratti primi, che a me pare di ben altra e miglior stoffa. In
quella prima parte, come si è cercato di vedere, il registro è di una
voluta opacità monologante, che mi pare rispondere ad una interiorità tanto
privata da risultare talvolta misterica; in questa altra lo sguardo
dell'autore è decisamente rivolto all'esterno, in relazione con un mondo
più vasto, anche storicaménte e geograficamente più distante, abitato da altri. Un mondo identificabile e concreto pur nella sua metaforica
valenza di habitat, di luogo diffuso dell'esistenza, ma anche come
territorio da attraversare, campo di analisi, elaborazione di frammenti e
visioni proprie o altrui, come in autentici scatti fotografici. Qui
troviamo il viaggio, che è conoscenza e realizzazione, come la Timisoara in
cui riecheggia una Storia, come la rivoluzione rumena dell'89, che per
l'autore (che ricordo è del 93) non può tuttavia che essere una esperienza
per così dire "ricostruita", postideologica, qualcosa che le ultime
generazioni devono ricomporre; troviamo l'esercizio lirico/elegiaco di una
parafrasi, di una reinvenzione narrativa di storie che l'immagine
fotografica ha fermato, come la serie di testi dedicati a Edward Sheriff
Curtis, fotografo degli Indiani d'America, tutti molto interessanti, pregni di voglia di esserci; oppure
il resoconto, anche questo interessante e ben scritto, di impressioni,
note, suggestioni, meditazioni raccolte durante un viaggio o soggiorno in
Danimarca, caratterizzato da un punto di osservazione laterale ma acuto, di
un autore volutamente defilato, che percorre i luoghi con pensosa
leggerezza e partecipazione.
Non voglio asserire che questa concretezza sia un valore in sé, né che lo
sia per chiunque, e nemmeno contrapporla ad una ricerca interiore, ma è
dove il reale, non tanto evocato quanto varie volte nominato
direttamente nei versi, si raggruma ed affiora fornendo corpo, consistenza
materica e colore al testo.
Direi allora che queste sottosezioni di Tratti primi ( Timisoara, fotografie di E.S. Curtis e Denmark), decisamente
superiori alle precedenti, sono la parte migliore del libro in cui tra
l'altro riesce ad emergere anche un accento lirico capace di prendere fiato
ed espandersi, evitando sempre bene segnali troppo elegiaci o decadenti. E'
quindi in questa direzione, di realizzazione (termine qui
appropriato) del mondo, di aderenza al visibile che Bonin, anche
in relazione alle qualità della sua scrittura, a mio avviso dovrebbe
andare. (g. cerrai)
Continua a leggere "Simone Maria Bonin - Tratti primi"
Lunedì, 26 giugno 2017
Viviana Scarinci - Annina tragicomica - Formebrevi edizioni,
2017
Mi pareva di conoscere il lavoro di Viviana Scarinci, di avere qualche
chiave per penetrare la sua scrittura. Un lavoro che complessivamente
apprezzo, come apprezzo le qualità intellettuali di Viviana. In altre
occasioni avevo scritto alcune note su di lei e le sue cose, in particolare
su Piccole estensioni, con cui aveva vinto il Montano (v.
QUI
) e su un altro lavoro dal bel titolo L'amore è una bestia cronica
, fatto in collaborazione con il pittore Sergio Padovani (v.
QUI
). Avevo inoltre letto, anche senza poi scriverne, La favola di Lilith, una pièce breve in due atti in collaborazione
con Edo Notarloberti (Ark Records, 2014, con CD), un lavoro ambizioso e
interessante, in cui viene messa in scena, come simbolo protofemminista
della donna che guarda al cielo, aspira a congiungersi con Dio e non vuole
sottomettersi all'uomo, colei che secondo la tradizione cabalistica fu la
prima moglie di Adamo, ma anche, sempre per tradizione, portatrice di
elementi demoniaci. Avevo anche avuto modo di leggere qualche estratto di Il significato secondo del bianco, da qualche parte in rete.
Insomma, mi pareva di avere qualche strumento più o meno adatto all'uopo,
pur nella consapevolezza che quella di Viviana non è una scrittura facile,
che nel tempo è andata connotandosi, mi pare, per una ricerca soprattutto
sul linguaggio e sulle sue pieghe. Ma devo dire che questo Annina tragicomica mi crea qualche difficoltà di "ingresso". Che
la prefazione di Anna Maria Curci non contribuisce a risolvere del tutto,
dato che dopo averla letta mi rimane l'impressione che pur abilmente abbia affrontato il lavoro come un kubrickiano monolite.
Diciamo intanto che non si tratta di un livre de chevet, da
leggere distrattamente. Ha bisogno dei suoi tempi e di riletture
organizzate. Ma provando e riprovando, come gli accademici del Cimento,
alcune cose mi pare siano emerse. La prima riguarda indubitabilmente il
tema di fondo, quello che potremmo chiamare il basso continuo o il
canone ricorrente. Il libro intanto non è una raccolta, termine che sarebbe
fuorviante. Rientra immediatamente in quellla forma lunga che in questi
ultimi anni sembra essersi riproposta, che sta tra il poemetto strutturato
e la legatura (usiamo un altro termine musicale) di brani che per
semplicità diciamo di prosa poetica o prosa in prosa. Lo dico per
intenderci, prendendo comunque atto di quanto scrive Viviana in una nota
finale, rifiutando qualsiasi capziosa catalogazione in questo senso (e mi
pare che sia pacifico - anche - che ogni autore non ami essere catalogato),
quando afferma che "mi è capitato di ritrattare la parola verso
anche dal suo etimo, in favore di una scrittura senza quell'argine,
cercando qualcosa che si adattasse meglio alle complessità in perenne
transito (...), senza sconfinare nella prosa". Qui ci sarebbero da dire un
paio di cose, ma ne parliamo più avanti. Sono due le sezioni del libro, ben
intravate all'interno di ciascuna e tra di loro, Bambole e bambine
e Annina tragicomica, titolo eponimo. entrambe di trentacinque
testi. I titoli, qui, danno i protagonisti, gli attori, e i temi. L'idea e
il pensiero di Viviana, diciamo la missione, continuano, come nei lavori
precedenti ma a diversa profondità, l'indagine non tanto sulla condizione -
che è termine sociologico - quanto sullacostituzione in essere
della donna, del suo divenire ed essere - nel corso della storia e
contemporaneamente - natura generante e catalizzatrice di colpe, educatrice
ed educanda, forza ctonia e elemento celeste, figurante generica e
protagonista, e così via ma sempre nell'ambito di una percezione, certo
tutta maschile, per così dire verticale, che la guarda o in alto o in
basso, a seconda. Ma soprattutto, io credo, la sua capacità (e la capacità
dell'autrice) di interpretare e leggere lo spazio siderale che sta (citando
il Mesa presente in un esergo) tra "lo spreco di minuzie" e "il senso degli
atti", mediante (cito Curci) "altre modalità di accesso alla conoscenza". E
un'indagine che, aggiungerei, si sposta da un ambito più o meno privato ad
un altro più universale. E' un'interpretazione possibile? Forse. Che lo
sguardo sia femminile, e non solo per questioni autoriali, non c'è dubbio.
La bambole e le bambine, Annina e le sue derivazioni (Annie, Anna, Annetta,
eteronimi, alter ego bifronti...) sono lì a dimostrarlo per indizi.
Minuzie, frammenti, frammenti di frammenti. Che da questo si possa risalire
al senso, ricostruirlo, è l'ambizione e il miraggio di parte della poesia
italiana contemporanea. Che a volte ci si avvicina abbastanza. E' questa
può darsi la (una delle) "modalità di accesso alla conoscenza" di Curci. E
indizi, dunque, che sta al lettore reperire. Indizi che non è facile
estrapolare se non trascrivendo interi testi, perché intimamente intrisi
come elementi chimici nella fibra testuale, nella poesia (o prosa) stessa.
Sono i testi medesimi che si prestano ad una lettura polifunzionale, per
così dire, che offrono la possibilità al lettore (l' "apertura" del testo)
di sovrapporre un dato ideale o l'altro, una fiction o l'altra,
una immaginazione o l'altra, senza che tuttavia gli sia possibile
dirottare, nell'insieme, dalla visione che è di bambine, bambole, Anne,
Annette, e ovviamente dell'autrice (la corrispondente "chiusura"). Che qui
elabora la riflessione costante e evidente che certo ha animato Viviana
come donna anche al di fuori di un ambito "finzionale". Vedere, come
piccolo esempio abbastanza superficiale, il brano 20 qui riportato, che
agisce per lo meno su un doppio binario, uno puramente narrativo, l'altro
culturale e metaforico, senza contare tutte le evocazioni della
parola/target "malaffare". Penso che questa lettura polifunzionale sia
dovuta a un certo grado di neutralità della lingua adottata, parlo di
neutralità emotiva che non "pilota" necessariamente verso direzioni
specifiche, parlo anche della selezione semantica, della voluta ambiguità
di un tono talvolta verbalizzante, delle tecniche di disallineamento
sintattico o di diacronia, come ad esempio la sospensione delle clausole
(chiusure) in certe catene sintattiche, che tende a rivoluzionare
l'aspettativa ordinaria di chi legge, e così via. Un effetto anche molto
affascinante, come l'osservazione di un frammentato ma continuo pensiero
dominante.
Ci sarebbero di sicuro altre osservazioni da fare. Ma lascio in fondo
alcune considerazioni extra corpus, di carattere generale. Mi pare
di percepire in questo lavoro una certa progressiva distanza rispetto a
quelli precedenti, che non è tematica né concettuale. Distanza che è data,
pare a me come lettore abbastanza empirico, soprattutto dal lavoro sulla
lingua, come ho accennato prima, sul livello comunicativo che questo libro
realizza. E' un discorso di una certa importanza, non solo in relazione
all'opera in sé ma anche all'idea di poesia in genere. Su quanto cioè il
linguaggio influisca sull'oggetto della poesia, sul suo tema, mutandolo; se
la poesia debba essere un'arte mimetizzante, piuttosto che
mimetica; e così via (ma sono solo piccole parti della questione). E
soprattutto se la ricerca poetica, come pare sia, debba essere quasi
esclusivamente sul linguaggio, nella convinzione che da esso le cose si
incarnino, che dalla sua torsione, condensazione, astrazione le cose poi
emergano. Se così fosse mi pare ovvio che l'oggetto in sé diverrebbe secondario rispetto al modus. Tanto per fare un esempio ancora
banale, quello che Lilith portava in sé era un diverso
livello di fruibilità e rappresentazione, intendo proprio dal lato lettore.
Naturalmente Viviana è artista troppo intelligente per fare del linguaggio
un mero totem. Per cui la distanza (una delle distanze) è semmai nel grado
di evidenza del contenuto che la sua scrittura trasporta, basti
pensare a categorie forti come il "tragico" e il "comico", qui parecchio
dissimulate; o nel grado di allusione delle tematiche o meglio,
nel lavoro metaforico ma soprattutto metonimico (usiamo in senso ampio
questo termine) di scambio e sostituzione, e non necessariamente per
contiguità e nemmeno reciprocità, tra "oggetti" e lingua e anche tra
segmenti di entrambi. Un'idea, se questa mia impressione è esatta, già di
per sé intrigante ma di estremo impegno.
Siamo insomma testimoni di un percorso abbastanza evidente, di cui Viviana
ha perfetta consapevolezza e padronanza, dagli esiti ancora aperti. E
questo percorso, ripeto, ha un valore e un fascino. Ma anche io credo (e
ora più che mai parlo in termini generali, e forse anche per me stesso) un
limite per così dire "fisico" della scrittura (almeno quella lineare e
semica). Come la conduttività del silicio, la cui riduzione pone una
barriera oltre la quale è difficile andare. (g. cerrai)
Continua a leggere "Viviana Scarinci - Annina tragicomica"
Mercoledì, 26 aprile 2017
Una vena più malinconica, rispetto alle cinquantasei cozze di cui ho già parlato (v. QUI),
in queste poesie inedite del Corsi, che forse troveranno una
pubblicazione, forse non hanno ancora nemmeno una forma o un titolo
definitivi. Parlo di malinconia tanto per attaccare il discorso, ma la
questione come sappiamo non è mai così semplice, perché il Corsi non è
un uomo semplice e non figura nelle antologie del cuore o delle fragole.
Certo, c'è in fondo una consapevolezza del tutto anagrafica, del tempo
che passa, delle realizzazioni dell'io che si fanno sempre più diradate,
forse conseguenza dell'inevitabile "piombare nel compound mezza
età". Della componente narcisistica della poesia, in genere, non se ne è
parlato mai granché, ma esiste ed ha la sua rilevanza, semplicemente
perché in fondo non si parla che di se stessi, della propria esistenza
in vita. Bisogna vedere come, e con quale contorno. Qui ad esempio l'io
c'è ma non è detto che sia smaccatamente lirico, centripeto e centrale.
Anzi a volte assomiglia a un sasso gettato in uno stagno a smuovere un
po' le acque, a deformare e mettere un po' in burletta il volto che vi è
riflesso. Roberto ha abbastanza ironia e senso della misura per fare
questo, anche perché si sente (giustamente) forte di una cultura che
affiora ad ogni passo, che è fatta di musica e buone letture (e magari
di un po' di barely legal, why not?) e che gli serve per
setacciare da una parte e nobilitare dall'altra un senso della vita che è
consapevolmente edonistico (quasi come il "guardare la storia dentro un
agio") e insieme venato da un tragico ineludibile perché legato allo
scorrere del tempo. Per cui si capisce che a dire malinconia si fa
presto, ma va da sé che questo, ammesso che sia vero, non spiega poi
molto.
Mi pare che qui la domanda, in un certo qual modo,
sia "cos'è che abbiamo fatto fino ad adesso? che cosa siamo stati?",
qualcosa che i francesi. con una parola sublimemente dignitosa, chiamano
"regret", una cartesiana cogitazione su quel che avrebbe potuto. Questo
naturalmente vale per sé, ma vale anche per il mondo circostante, per
le cose come vanno (ma qualsiasi auspicio se ne tragga proviene, molto
più terra terra, da un "oracolo della pizza"), per i rapporti con le
persone, specie quelli sentimentali (dove Corsi a mio avviso dà il
meglio di sé), insomma anche per quelle cose su cui avremmo potuto agire
solo fino a un certo punto. Fino ad arrivare a un certo sentimento di
inutilità, di pestare l'acqua nel mortaio, forse anche per lo stesso
esercizio della scrittura. Che tuttavia Roberto cura amorevolmente,
soprattutto nel senso di una chiarezza di esposizione di quel che ha da
dire, addirittura programmatica se si preoccupa di annotare da una parte
"avrei dovuto scrivere più astratto e compiacente", dall'altra "a me
proprio non riesce". E va bene così. Del resto uno dei suo bersagli
preferiti è proprio la scrittura intesa come esercizio artigianale
professato come arte, in particolare con qualche riferimento velenoso al
mondo della poesia ("Un anziano poeta / Verseggia su facebù le sue
pulsioni / Dinanzi a una “poetessa puledra” "; od anche "E impazza
questa prassi emarginante / Di dar risalto all'anno in cui uno è nato /
Piuttosto che alla polpa dei suoi versi"), un mondo in cui anche Corsi
si muove, peraltro senza troppi patemi d'animo, ma con qualche
tentazione, come si diceva prima, di "chiudere con coraggio
l'esercizio". Ecco, su questo versante satirico/salace ci ritrovo il
Montale autoironico e un po' sprezzante, forse meglio sarcastico,
quello da Satura in poi per capirci: parlo di stile, ma non di
epigonismo, non è il caso; parlo di andamento a volte epigrammatico,
marzialesco, con in più (mi par di vederlo) quel tosco sorrisetto di
scherno che dalle nostre parti equivale a uno sputo in un occhio. Per le
altre cose, altri temi, certi eventi, certe baudelairiane passanti a
notte fonda in Borgognissanti, insomma in un occhio gettato a quello che
della vita non è dato arraffare, il riferimento potrebbe essere Philip
Larkin, quello di High windows (sì, c'è anche lui da qualche
parte, dichiarato ma è lo stesso, perché palese), senza la sua misoginia
e la sua proverbiale solitudine da piccolo bibliotecario. Ma qualsiasi
siano i temi (sempre comunque sottesi, a mio avviso, a quel senso del
tragico a cui alludevo prima) Roberto li affronta (o fa finta di
affrontarli) come nugae, con una scrittura spigliata e a suo modo "avida", vitale, ben costruita, pensosamente leggera, "lubrificata per il contatto con la sensibilità del lettore" (è questo il senso del titolo Grafite bianca, dicesi provvisorio). Forse non sempre "mite e ordinata"
come nelle sue intenzioni, ma certamente non scritta (ancora in riferimento
al titolo) con una matita bianca, "senza lasciare il segno". (g. cerrai)
Continua a leggere "Roberto R. Corsi - Inediti da Grafite bianca"
Lunedì, 3 aprile 2017
Beloslava Dimitrova - La natura selvaggia - Arcipelago Itaca Ed., 2017
Un libro feroce, questo che Emilia Mirazchiyska e Danilo Mandolini
hanno tradotto dal bulgaro, da quel che so la prima opera della
Dimitrova pubblicata in Italia. Uso un aggettivo volutamente forte, ma
con niente di giudicante dentro, pensando semmai a tutte le eco che
questa parola antica contiene, alla sua natura animale e animista. La
natura è selvaggia, dice l'autrice, e noi ci siamo dentro, non al di
sopra, biblicamente, per un diritto datoci da Dio, o a lato, con
l'illusione di una strategia di fuga o trasformazione, ma proprio
dentro, senza statuti o privilegi speciali. E' questa l'idea di fondo
della raccolta, uno sguardo plurimo, dall'interno e dall'esterno di sé,
su una condizione che non è nemmeno più umana, ma riguarda una natura
appunto "selvaggia" e incoercibile. Non naturante, perché se c'è
qualcosa che porta in sè non è il farsi ma il distruggersi, né naturata,
perché non sembra né perfetta né recante il segno della mano di Dio.
Somiglia semmai a quella leopardiana e matrigna de La ginestra
("Non ha natura al seme / dell’uom piú stima o cura / ch’alla
formica..."). Per questo parlo di ferocia, e in più assoluta (ovvero
priva di regole e norme), perché attiene ad una natura agnostica, in cui
la presenza divina è assente, o che Dio ha abbandonato a sé stessa.
Chi è che popola questa natura, a sua volta parte costitutiva di un
mondo? Gli uomini, certo, ma anche gli animali, alcuni dei quali
identificati, altri indistinti e inquietanti. Che però non solo sono
intesi come una complessiva anima ferox, ma sono visti e
descritti e proiettati nel corpo poetico da uno sguardo umano defilato,
da una prospettiva decentrata e a tratti de-umanizzata, extracorporea,
esercitata a volte con una singolare empatia, un mettersi nei panni,
tanto che talvolta l'attore che agisce nel testo poetico è una creatura
simbionte, un io "alieno" che abita corpi diversi e li attraversa
prestando loro la voce, una voce che diventa "interna" e che tuttavia
mantiene una connotazione doppia. Ciò ovviamente per quanto possibile,
perchè in fondo si tratta di un grande artificio retorico, che per certi
aspetti non può che riportare alla mente il Gregor Samsa di Kafka, che
si sveglia una mattina trasformato in un gigantesco insetto, e al senso
del tragico di quella grande metafora. O, se preferite, le potenti
raffigurazioni zoomorfe di Max Ernst.
Se gli animali/uomini sono emblemi anche, a mio avviso, di forze oscure
che negli uomini agiscono per vie non sempre comprensibili, come una
natura profonda, e insieme, come un riflusso di forze "altre" che dagli
uomini si rivolgono contro la natura stessa, tuttavia il registro
complessivo del libro è giocato su una violenza "fredda", talvolta su
una registrazione refertale degli eventi che "naturalmente" si svolgono,
comprese le relazioni amorose amare e difficili, senza però che il
senso di una tragedia comune ne venga minimamente sminuito. E' uno dei
punti di interesse di questa poesia, questo sentimento di ineluttabilità
implicita che si riflette anche su di un linguaggio teso, su "un testo
che sembra scritto precipitando, dove prevale la denotazione per tratti
rapidi, sincopati, quasi che non ci fosse più tempo per approfondire il
senso della caduta e nemmeno più la pazienza", come scrive Stefano
Guglielmin sul suo blog (v. QUI).
Non sfuggono a questa ineluttabilità le relazioni affettive, i rapporti
familiari, temi per lo più raccolti negli ultimi testi del libro, come
se anche in essi risiedesse una difficoltà a svolgersi senza catastrofi,
svolte brusche, lacerazioni delle carni. Anzi su queste relazioni
sembra abbattersi una definitiva speranza nihilista "che il miracolo
dell’evoluzione non accada / che non appaia l’uomo / che tu non appaia di nuovo / che sia soltanto io ad apparire" (in Essere umano, corsivo mio). L'uomo, in questa natura selvaggia, è un accidente.
Una poesia, quindi, drammaticamente originale, con tratti metafisici e
visionari, tanto diversa anche da altri poeti dell'Est come quelli
presenti su questo blog (v. QUI),
soprattutto i giovani e i giovanissimi (Dimitrova è nata appena tre
anni prima della caduta del Muro) che sembrano orientare in altre
direzioni, più lirico-oggettive e con un occhio rivolto decisamente a
occidente, la loro ricerca. (g. cerrai)
Continua a leggere "Beloslava Dimitrova - La natura selvaggia"
Martedì, 21 marzo 2017
Giusi Montali, Luca Rizzatello - Faria - Dot.com Press, 2016
Come dice la nota di apertura, in questo libro a quattro mani - quelle
di Giusi Montali e di Luca Rizzatello - ci sono 14 "testi fonte"
dell'uno e 14 "riscritture" dell'altro, divisi in due sezioni, L'agiografia umana (Rizzatello → Montali) e Il signor klek (Montali
→ Rizzatello); e un paio di regole: che c'è più di un autore ma meno di
due, e che si tratta di letteratura di evasione ma in senso
escapologico, ovvero - come si precisa oltre - come evasione da ogni
preconcetto poetico e da ogni conformismo.
Come si vede le ambizioni ci sono, o forse vanno intese come
dichiarazioni di poetica, che però il lettore, mi pare, non è tenuto più
di tanto a verificare. E basterebbero queste, ma in realtà avvertenze e
raccomandazioni ce ne sono parecchie altre, tanto che complessivamente
finiscono per costituire un tramaglio per chi legge, o un voluto
depistaggio (termine che usa Sergio Rotino nella nota di lettura finale,
ma va considerato - a margine e poi magari ci si torna - che il
depistaggio può essere assunto come artificio retorico/poietico, con
qualche vaga parentela con il détournement di debordiana
memoria). Compreso il titolo sulla cui reale definizione, ci dicono in
quarta di copertina, è meglio non speculare troppo, perché forse il
Faria è quello che subito viene alla mente o forse no. Va aggiunta a
questo, sempre in premessa, la chiave di lettura che viene anch'essa
offerta al lettore, riguardo alle due sezioni del libro: l'agiografia umana
"è un ciclo di immagini...su alcuni fatti storici, condizioni sociali e
aspetti universali...un affresco contemporaneo", tra realtà e
immaginazione; il signor klek invece "è la narrazione di un
tentativo di analisi della realtà da parte di un soggetto e al contempo
uno studio che un altro soggetto fa sul primo", in chiave - anche -
psicologica. Quindi, mi pare di capire, l'uomo nella storia e la storia
nell'uomo, alla luce, come abbiamo visto, di una fonte (cioè un punto di
vista "sorgente", in qualche modo originale) e di uno scolio (meglio
dire una rilettura, forse un rovesciamento).
Come vedete, è un libro molto "spiegato", fin dall'inizio. Si tratta di
accettare o meno queste carte, il gioco poetico che viene proposto.
Andare a vedere, ad esempio, in che modo si realizza la riscrittura, o
in che modo si confrontano e affrontano due scritture non
necessariamente paritarie, che anzi tentano di "dimostrare" sé stesse
appoggiandosi sull'altra, in un contrasto che è certo interessante ma
non sempre, come dire, efficace. Il dialogo è ravvicinato, ma è anche -
talvolta - dialogo tra sordi, stante che anche qui si realizza una certa
incomunicabilità che è nell'ordine dell'umano. Tanto che spesso si
procede per agganci semantici, per echi di parole, per associazioni e
cooptazioni, dato che è il mezzo più agevole per stabilire un contatto,
come del resto in ogni rapporto interlinguistico o, per estensione, in
ogni traduzione. Agganci da cui poi il pensiero svaria, détourne,
costruendo - poieticamente - un altro castello di significanze, non
necessariamente organico al primo. Producendo, scrivono gli autori, "le
ipotetiche conseguenze". Come avverte Rotino, e sono nella sostanza
d'accordo: "Tradire, tradurre, traslare per interpretare mai conoscendo -
e già conoscendo - il pensiero fatto parole dell'altro, rincorrendolo
(...). Un inseguimento circolare, dove ogni rivisitazione del testo, ogni
reinterpretazione del testo, ha bisogno dell'errore quanto della
precisione".
Un concept book, dunque? Sì e no. Sì nel senso di una architettura, di una idea sul come fare
che sta a monte, che è preesistente e in qualche modo autonoma. No,
perché poi la scrittura, almeno nella sua componente profonda e sorgiva,
prende il sopravvento (anche qui in maniera non paritaria, poiché
logicamente diverso è il controllo dei due autori sulla scrittura
stessa, sulla lingua, sullo stile, e le differenze si vedono), scarta, e
segue le sue strade, accantonando il più delle volte la tentazione del
calco o della mera traduzione nel testo a fronte. Forse sta in questa
caratteristica (e nell'altro elemento di "scarto" che dicevo prima) il
motivo principale di interesse di questa prova. La lingua qui (e forse
lo si voleva dimostrare) ha un effetto eco che si riverbera su (o
innesca) la produzione del pensiero poetante, ma - ripeto - non sempre
convergente da (e su) un punto di vista, per così dire, tematico. Come
se lì al centro, dove il libro si spalanca davanti al lettore, nella
dialettica fonte/riscrittura si fronteggiassero due differenti approcci
gnoseologici alla realtà. Dare per esatta questa impressione,
l'impressione di questa vista binoculare - ammettiamolo per un momento -
non implica un giudizio di valore, ma semmai da parte del lettore
l'accettazione di voci plurime, del fatto che la visione del mondo non
può essere univoca né corale, può essere relativa e contemporaneamente
essere una ed essere vera. Perché in fondo questo è,
nel suo complesso e con le sue ovvie discontinuità, un poema sull'uomo
come elemento decentrato e impotente della Storia e insieme come centro e
simbolo della sua propria e altrui umanità. Lo è nella componente
etico-politica della scelta dei temi, e nel loro rovesciamento (o
travaso, o messa in mora), come accennavo prima, da sociale a privato,
da collettivo a individuale, da esteriore a intimo, e viceversa. Una
componente non sempre agevole da trattare, una delle sfide di questo
lavoro, che è possibile superare solo trascendendo il "tema" (in fondo
qualsiasi esso sia e in senso lato) in espressione, e qui allora la
lingua non è solo funzione e strumento fàtico, ma anche protagonista
elemento iconico, immagine, recupero di frammenti culturali (vedo un Sanguineti, ad es.), rappresentazione; un testo/teatro, anche, in
cui i due "attori" rilanciano sé stessi per "farsi doppi e
intercambiabili - ancora Rotino - pur restando distinti e unici". O -
immaginiamo - al limite fino sovrapporsi. (g. cerrai)
Continua a leggere "Giusi Montali, Luca Rizzatello - Faria"
Martedì, 7 marzo 2017
Enzo Campi - ex tra sistole (dieci sequenze per un poema irrisolvibile) - Marco Saya Editore 2017
Dieci sequenze per un poema irrisolvibile, dice il sottotitolo di
questo libro. E', fin da qui, la denuncia di un'aspirazione (e di una
ispirazione) tesa alla realizzazione di una completezza organica, di una
struttura (che la forma poema esemplifica); e la consapevolezza della
difficoltà di attingere a qualcosa di concluso, sia in termini formali
sia nel senso dell'esplorazione della materia poetata. Non è un limite,
è - direi - una coscienza. In effetti niente impedisce a questo libro di superare sé stesso, la propria carta, il limes convenzionale
di una pagina finale. Perfino chi legge lo sa, giungendo alla pagina
sessantanove, che tra l'altro termina con un unico punto interrogativo,
acuminato e ultimativo. E ora?, si domanda il lettore. E tuttavia il
viaggio è stato agevole più di quanto avvenga in quasi tutte le opere in
cui si pratica una scrittura genericamente definita di ricerca. Voglio
dire, non si attraversa, almeno non più di tanto, una selva oscura,
aggrottata, superciliosa. C'è anzi in questo libro dell'ironia, a volte
del sarcasmo, e un' infinità di incastri sinaptici, di agganci
mnemonici, di sottili riferimenti culturali, di trasferimenti verbali
per assonanza e consonanza, di metafore cognitive stimolanti e così via.
Ed una accennata architettura teatrale (prologo, parodo, stasimo, coro,
ecc.) che sembra preludere, o meglio suggerire, invitare, a una
fonazione, interiore o palese, a una messa in scena di tutto questo
materiale verbale, nella quale il lettore si potrebbe con qualche
soddisfazione cimentare (e in effetti il suono in questo libro ha una
rilevanza notevole). Certo ha ragione Giorgio Bonacini (nella
postfazione) ad avvertire il lettore che quella di questo libro non è
una lettura comunemente intesa (che cioè, dico io, si può permettere
qualche rilassatezza o disattenzione, tanto poi...), perché necessita di
"pratiche interpretative significanti", anzi "occorre leggere come se
fossimo noi a scrivere". Insomma, dice Bonacini, "se (...) non si fa
questo sforzo benefico di aderire a ogni articolazione, scrutando e
auscultando anche i minimi tratti del testo, l’opera di Enzo Campi la si
può certamente leggere, ma al minimo delle sue potenzialità
semantiche". Mi rendo conto che c'è un'apparente contraddizione con
quanto ho scritto prima, dando forse l'impressione di una facilità di
lettura. Be', questa non c'è, perché bisogna, secondo me, non tanto
mettersi nella testa di Campi ("leggere come se ecc."), quanto cercare
di capire il più possibile il suo sistema metaforico e di pensiero
(compresa la loro reinvenzione), là dove "rimanda perpetuamente ad
altro, ovvero a qualcosa che non appartiene al sistema di riferimento e
di significanza preso di volta in volta in considerazione" (Sonia
Caporossi, nella prefazione).
L'obbiettivo di Campi, proprio nel senso di un centro da attingere
anche con qualcosa di perforante, è certamente il linguaggio. Ma non il
linguaggio come territorio di scorribande, come materiale torcibile a
piacere (per quanto Campi al bisogno non si tiri indietro in questa
pratica), quanto il linguaggio o la lingua come arnese usurato,
centripeto, ricorsivo, discutibile, egolalico, che si autorigenera in
luogo comune, che si autocertifica come dominante e come langue omologa.
Che tende ad un uso "economico", non dispendioso, produttivo e (quindi)
politicamente conservatore. Che perciò, secondo Campi, è intimamente
antipoetico e antiartistico, ontologicamente manierista, incapace di
articolare cioè una definizione del reale che abbia a che fare con la
bellezza. L'obbiettivo è anche il materiale con cui si cerca di
raggiungerlo, unitariamente, la freccia è insieme il bersaglio e chi
scocca (inevitabilmente Campi mette in discussione anche la sua "resistenza" alla lingua, i suoi propri
punti di rottura, soprattutto nella perlustrazione dei limiti, che mai
vuole saggiamente superare, tra dicibile e indicibile, comunicabile e
incomunicabile). E' un abile gioco di equilibrio, un procedere su una
corda tesa di parole, molte delle quali deviate e metamorfizzate in
altre per contiguità, per assonanza, per una eterodossa parentela di
sensi e suoni, per spoliazione di significati, per de-nominazione,
ovvero per rottura dei legami tra parola e oggetto ecc.; e questo
avviene non solo sul singolo vocabolo ma anche, spesso, sulla catena
sintattica, sulla spezzatura (per la verità a volte un po' capziosa)
della frase. C'è poco di "comodo" e di confortevole in questa modalità
espressiva. Il sistema metaforico di Campi a cui alludevo è in realtà
una supermetafora del linguaggio, da una parte come corpaccio che deve
essere purgato con la necessaria "crudeltà" (e qui si rimanda a uno dei
dedicatari del libro, Antonin Artaud. L'altro è, ça va sans dire, Emilio Villa), dall'altra come ouroboros, elemento
primigenio che si consuma ma per la cui rigenerazione è lecito sperare e
lottare. In questo senso il lavoro di Campi sul linguaggio (qui
verbale, ma va da sé applicabile - e in effetti applicato - a qualsiasi
altro linguaggio artistico) non è meramente clastico, frammentante, ma è
plastico, riformante, dato che qui "da ogni disgregazione si forma uno
scarto di senso" (Bonacini, rilevando in realtà uno dei caratteri
"forti" della poesia in genere). Un processo di cui Campi dimostra di
avere una piena coscienza, anche quando sembra svelare (come ricorda
Caporossi) delle meccaniche, "una dichiarazione di poetica e di
metodologia compositiva" come in questo passo "dato un incipit
ricordarne l’ / essenza e usarlo come / collante come / legante ogni
volta che la / scorta di senso diviene / scarto a delinquere”,
domandandosi subito dopo, ironicamente “ah! / è questa la / regola / ?”.
Certo che no, almeno per quanto lo riguarda (mentre per altri forse sì,
e andrebbero verificati i risultati, alla fine). Molto più
probabilmente Campi crede in altro: "la / regola parla chiaro / bisogna /
copulare avec la / barbaque / raspando con / ruvide lime i /
residui di / senso di / messe mai / celebrate e / pure sublimate in /
pomposi baccanali". In altre parole bisogna affondare le mani e il corpo
intero nella carne viva, nella materia bruta, raschiandola all'osso,
rinnovando una non superficiale comunione poetica con essa. E' evidente
la distanza tra la prima e la seconda "dichiarazione": lì il linguaggio
genera le cose e sé stesso (non necessariamente rigenerandosi), qui la
materia genera il linguaggio (quel linguaggio) con cui è
possibile descriverla. Una delle più impegnative dichiarazioni di
intenti che abbia avuto occasione di leggere da un po' di tempo a questa
parte. (g. cerrai)
Continua a leggere "Enzo Campi - ex tra sistole"
Lunedì, 27 febbraio 2017
Dieci inediti di Emilio Capaccio, già presente su
questo blog con una nota di Rita Pacilio dedicata al suo "Voce del paesaggio" e con sue traduzioni di poeti francesi e inglesi (v. QUI). Poesie diverse da quelle che si possono leggere in
quel libro; forse, nella loro scarna presenza sulla pagina, nella
sintesi che realizzano, anche migliori, più risolte. Una poesia
essenziale, in cui agisce una lirica senza egotismi, ridotta a brevi
lacerti pittorici, nella quale i protagonisti (io/tu) si stagliano su un
corto scenario simbolico, privo di una reale concretezza, di oggetti
che con la loro presenza possano rischiare di "abbassare" il testo,
l'effetto quasi epigrammatico che vuole ottenere. Se ci sono oggetti,
essi rimandano subito a una natura, come dicevo, simbolica, traslata:
una pietra bianca "che rotola e cade nell'acqua", l'alzarsi finale del
vento, la bocca che è strumento di una "parola finale", stelle e luna
che sono testimoni di un metaforico firmamento che crolla (un dis-astro,
appunto), un'ala del tutto simbolica che cade e si rialza dall'ortica,
parole (casa, pietra, amore) che pur nella loro finita concretezza (o
forse grazie a quella) danno nome a delle eternità. E poi porte chiuse
che hanno una loro impenetrabile qualità "nera", la notte che è un
imbuto, è "stretta", e quindi non è spazio, luogo, tempo sufficienti,
"non ha salvezza", il bacio, che sarebbe comunione amorosa, è "fallito" o
addirittura è "di medusa", il corpo che è luogo metaforico "dei nostri
intenti" ma dove tuttavia agisce "l'inutile". Tutto sembra scivolare,
con molta leggerezza, verso una malinconica e consapevole dissipazione
di certezze, affettive, sentimentali, esistenziali, un processo in cui
il tempo, passato o attuale, è la macina maestra che prima frange (anche
strutturalmente nell'ambito cioè del testo) e poi raffina (nei finali)
la materia poetica. Non il tempo crudele e vampiresco di un orologio
baudelairiano, semmai quello sfumato e venato di qualche rimpianto di
Léo Ferré, il tempo con il quale "tout s'évanouit". Ricordando tuttavia,
avverte Emilio, che "anche l’assenza è una presenza / condannata ad
esistere", qualcosa cioè con cui bisogna fare i conti. (g.c.)
Continua a leggere "Emilio Capaccio - Poesie inedite"
Domenica, 5 febbraio 2017
Avevo già scritto qualcosa sul lavoro poetico di Ivano Mugnaini qualche anno fa (v. QUI)
e in quelle note mi pareva di aver individuato alcuni tratti salienti
del suo modo di vedere il mondo e la poesia. Ora mi manda qualche
inedito che troverà collocazione in un suo prossimo lavoro dal titolo,
penso definitivo, di "La creta indocile", e in questi testi io lo
ritrovo. Ivano è un poeta solido, anche nel senso di una fedeltà a sé
stesso e ad una tradizione però assimilata e "riscritta" in maniera del
tutto personale, molto poco crepuscolare. E' fedele ad un mondo, alle
sue manifestazioni sensibili, anche minime, e al significato che esse
riverberano sulla vita, e nelle quali il tempo vissuto o "salvato"
agisce da attore principale, anche in queste poesie. Un mondo niente
affatto ristretto, per quanto Mugnaini sia con tutta evidenza un uomo di
grande riservatezza, uno che tu immagini vivere e scrivere (non solo
poesia ma anche bella prosa) al suo tavolo da lavoro in un piccolo paese
della provincia lucchese. Non ristretto perché certamente cultura e
immaginazione, capacità di lettura dei "segnali" e reinterpretazione
dei medesimi, permettono a Ivano di addivenire ad una stesura del testo
complessa e articolata di sfumature, ma assolutamente leggibile, anzi
godibile perché parla con un linguaggio poco ellittico, che tende a
portare il lettore, senza alcuna sentenziosità, dritto al centro della
questione, a quella domanda esistenziale che è di tutti. Non c'è ragione
di dubitare che la creta di cui dispone Ivano sia indocile, presenti
qualche opposizione a lasciarsi modellare, poiché si tratta dell'essenza
stessa della poesia, linguaggio espressivo quanto mai "costoso" (per
dirla con Barthes) o dispendioso, se preferite, proprio in termini di
comunicazione. Ma si percepisce nelle poesie di Ivano come una
gratitudine verso questa indocilità, nei confronti della sfida che
questo materiale poetico gli propone quotidianamente. Una gratitudine
che alla fin fine è per la vita stessa, per gli incroci che essa
presenta al poeta di giorno in giorno, tanto che sembra di percepire in
questi testi addirittura, in una certa misura, un sentimento sottilmente
religioso, il sentimento di un uomo che si trova in mezzo al creato ma
non lo domina, forse non lo considera un dono su cui l'uomo ha una
biblica primazia, cerca solo di capirlo. Un cielo trascorso da nuvole
che diventa innesco e fondale di ricordi; il ritrarsi, anche con un
certo orgoglio, dal "sentire comune" proprio per abbracciare idealmente
il mondo, per comprenderlo; il gettare uno sguardo anche ironico sugli
altri, sui compagni di un viaggio che è anche metaforico, su una realtà
che può apparire periferica, e che non è solo fisica ma costituisce
anche un'enclave psicologica e un ethos. Sono alcuni dei temi di queste
poesie, che nel loro insieme delineano un'area ideale in cui Ivano si
riconosce e si muove come autore agevolmente, in cui il tempo, quello
salvato, quello dei ricordi o quello delle parcelle di vita che Ivano si
annota, sembra benevolmente rallentare, indugiare quel tanto che basta a
farsi cogliere, a farsi vivere pienamente. (g.c.)
Continua a leggere "Ivano Mugnaini - Poesie inedite"
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