Viola Amarelli - da "Fantasmata", inediti
φαντασματα (fantasmata):
immagini sensibili (e in movimento) che Aristotele pone in una zona intermedia tra la percezione e il pensiero, ma libere da entrambi come pure dalla
fredda intelligenza argomentante. Evocate da ricordi, da esperienze, da visioni o da timori, non sono altro che l'immaginazione, la libera creazione,
libera anche di farsi da sé. Non c'è pensiero senza immaginazione o, meglio ancora, poesia senza di essa. E nemmeno immaginazione senza
percezione. I fantasmata stanno lì in mezzo, a fare da ponte. In questa piccola silloge di Viola Amarelli i fantasmi (o i demoni) sono per lo più
larve o barlumi di una realtà, non tanto percepita quanto vissuta e vivente come sintomo o fenomeno accessorio di altro, forse di un passaggio,
forse di qualcosa che travalica una ragione dormiente, come in Goya. Sono, ancor di più, fantasmi di fantasmi, nel senso di una ulteriore riduzione
dell'immagine evocativa ad una frazione di luce o d'ombra che il lettore può solo collocare nel bianco funereo della pagina, può contemplare, può forse
usare come modello, anche linguistico, per gettare uno sguardo sui suoi propri fantasmi.
Fondamentalmente quella di Viola mi sembra una poesia critica, ma critica di un io che è insieme antropocentrato e incapace di porsi davvero come
parte di un tutto consapevole, anche della propria morte ("un ego di muschiato marcescente"). La morte è presenza costante, qui, ma in forma di
contemplazione, di accostamento all'idea e al destino che contiene, elemento di una natura sovrastante e perpetua ("chissà quante altre volte siamo
morti"). È una poesia che vive (e lo fa coerentemente, per quanto possa essere paradossale) quella contraddizione di cui abbiamo appena parlato. Uno dei
nuclei "fantasmatici", forse il principale, a me pare proprio il contrasto tra un io per così dire sociale e un io intimo (quello lirico ha abdicato da un
po') luogo di proiezione di ombre e demoni ("oscuri e privatissimi") sul quale chi scrive vuole appuntare lo sguardo, o tra un dentro e un fuori illusori
("da fuori molto, / tutto, normale"). È la direzione in cui va Viola? Non lo so esattamente, so che in effetti qui non c'è più molto di oggettuale, hanno
perso importanza, da un punto di vista di oggetto ispirativo, anche le "nudecrude cose" di cui avevo parlato
QUI
, se non per il "caos che si riflette sulle nostre vite, o una casualità di eventi sofferti, di prospettive annichilenti" di cui avevo parlato a suo tempo.
Ho l'impressione che comunque qualcosa sia cambiato, si sia in qualche modo evoluto. Altrove Viola aveva detto "la scrittura è dall'origine un fissare, un
dar conto. E nel fissare c'è l'ordine, l'elenco, il taglio sul mondo", aggiungendo "Tutta questa ansia di fissare, contare, nasce da un flusso e si risolve
in un flusso, quasi una sorta di processo a "doppio cieco" ". Ma qui a me pare che questa ansia sia messa in discussione, sia "criticata". A che pro
averla, se l'esistenza presenta "il conto, infinitesimale, del / macellaio" (narratrice, III)? D'altronde, dice ora, "le cose non vanno come
dovrebbero...le cose non vanno, si fermano, splendono e / piangono".
E il testo corrisponde in modo del tutto coerente a uno "sfilare ordure", a un "disordinare l'ordine", una tela di Penelope soggetta solo ad essere
disfatta, ridotta nel frattempo al minimo essenziale, una scrittura volutamente ossificata che potremmo definire un ulteriore avvicinamento (che dura da
anni) di Viola al "mu", a un versificare "privo di" a cui la "narratrice" riduce le "narrazioni" (entrambi sezioni di questa piccola silloge). Cosa che
avviene anche quando il testo si fa viceversa affollato, come in Cerchi (altra sezione) perchè fatto di costruzioni sintattiche che asseriscono
qualcosa che si compie in sé, non vuole diventare veramente narrativo, perché anche gli arazzi alla fine mostrano l'ordito. Le narrazioni
d'altronde, premette in esergo Viola, "- di cosa parlano? / - al dunque niente. // sorda sirena". Perciò un altro vuoto, o una stasi, o un gioco che
"perso, splendidamente langue / nell'arrocco". Giacché, scrive altrove Viola, "niente è peggiorato", e insieme "nulla qui è migliorato". Anche quando, come
dicevo, il testo si amplifica e si dispiega, rimane la sensazione di una volontaria frattura degli elementi costitutivi del discorso, l'eliminazione dei
connettivi, delle "giunture", nell'intendimento finale che "le parole sono pietre. / tu scheggiale / fino a che non diventano sabbia, polvere. / fine" (cerchi, VIII). È come se Viola dunque macinasse indifferentemente pietre grandi e pietre piccole o piccolissime (testi di uno, due versi). Sì,
forse qualcosa è cambiato. (g. cerrai)
da narrazioni
II.
una piccola nausea, vomita parole, non sta meglio .una piccola ferita, invisibile a tutti, emorragia costante, avvelena, marcisce, investe i giorni. cancella il cuore. nasconderla, tacerla. vomitare sorridendo, nessuno veda. nessuno sia. il sangue. una giostra stranota. una nausea, costante. non c'è fine. forse l'inizio, ad andare indietro, cauterizzando cauta, sé. il mondo sviene.
IV.
Nell’ambito//nel novero
dei morti
la graduatoria orizzontale
a pira a fossi
m’accosto, la tocco
tra breve la terra già grassa
di sotto il sordo del magma
che preme, che cerca
l’osmosi continua, intrauterina.
l'odore, delle erbe. non dei fiori.
da dèmoni
I.
vi vedo dietro il vetro,
non vi tocco, un lucido delirio
l’urlo muto, pesci:
chi è il morto.
morto morto morto
fare il morto sull'acqua
vivo
passa il sale
sale le scale avvolge il suono
emette e squaglia
gioia
per poco
siate siate gioiosi
l’intento tenace
non s’ulcera più
lo sbrego, diruto
l’io spiritato,
arso, scomparso
il truciolo sbriciola
novo, un tarlo suicida per fame
la vittima in progress
(il prezzo, alto/basso)
Spett.li Come già
Nel rimarcare
Non si ha modo
Riscontro
Saluti saluti saluti
Molto vi piango
per gli affollati démoni che siamo
amplifica: miriadi di voci
II.
alla marina le carte son segnate
basoli divelti, buche,
baracche triste,
si va, vorrebbe, in corsa
entrare, uscire, cocchi
mozzoni di palazzi
set di bombardamenti
un brulichio sconvolto
grigio giallastro sporco
al sole, all’aria, al mare
mura a moli invisibili
odore chiazze di nafta
belle mbriane sfatte
si va, vorrebbe, in corsa
l’aditus, collo senz’utero,
lontano si sfilaccia Pusilleco addorosa
un’altra, stessa, cosa
l’incuria della furia, slabbrata cicatrice
fantasmi di carrozze in fila al Miglio d’oro
le senti, che frusciano, le
anime perse – divelte
era di fiori il seme che non colsi
allora e adesso un seme che non gioco
da cerchi
I.
potresti scrivere una poesia semplice?
certo, una parola sola
affetto
e un dono: mangiare insieme pane e pomodoro
salto, lieve, di festa come la tua vita
nel balenio di coda, corsa che
danza
III.
il risultato è perfettamente sovrapponibile
camminano assorti una coppia, uomini di mezza età
sembrerebbe, in ritardo il sospetto, il marciapiede si avvalla
timido per la vergogna al peso di trolley, autobus, scarpe spaiate
alle vetrine chiagnenti di comprami comprami
polverose, l’afa si prepara agli agguati elastomerici
elastosonografici, cisti di acqua nel cielo, nelle cavità
intraspeciose
le vetrine si appannano la coppia avvizzisce a un bar, questa era la città dove da piccoli
giocavano, piccioni e sessi dimenticati, acchiappavano ingenui le insegne, chiuso per
lutto affittasi, contiamo i soldi, si squagliano i chip, dateci tessere riverniciate
dovrebbero essere allegri, niente è peggiorato, tutto uguale, a crederci, illudiamoci
non scambiano una parola, tristezza estiva il clima è
le pompe dei condizionatori sibilano, l’acqua troppo calcarea, l’osteopenia
dei dinosauri, gomma, ma di caucciù, bastoni di lacca, puntali argentei, i nonni
l’eleganza dei morituri, rifulgi immoto cielo opaco travagliato
inizieranno le doglia a momenti, si apriranno le acque, fa’ che non siano verdi
i due invecchiano di minuto in minuto, accelerati, è troppo caldo per stringersi,
figurarsi boccheggiare
lastre di ghiaccioli senza glutine, senza semi, vagonate carnivore abbandonate
a una stazione in disuso, carri frigoriferi, gas di nostro signore del calore,
fu sulla soglia di casa che l’uno disse all’altro: non credere mai di cavartela a buon
mercato
nulla mai nulla qui è migliorato, amen disse il ragazzo, che andava a mare, l’illusione in
ciabatte di tela di plastica fulgente, allegro, di pochi, pochissimi minuti primi
sovrapponibili
ripeti, ripeti.l’esame.
IV.
in simultanea la metropolitana, la fila la coda il coperchio già urna
le microscopiche viscere, la polvere, del nato morto
nell’attimo del castigo perenne, non chiederà mai perdono decide
mentre si forma, sformato, sbagliano tutti sulla rotatoria, le canaline adagiate
sotto la sabbia, impronta d’acqua, nomadi di fili di rame, cavi,
ancora nell’istante di organico exultet
battito in volo , collasso di insetto, brivido freccia
il secondo protratto di orgasmo la carne, le membrane
certo opalescenti, la bocca sicuramente a murena a lemure a
voltaggio, trifasico, pagine e pagine e pagine
blateranti al vento, pregate quel, chi, volete,
si è rinserrato dentro un amnio qualunque, spiccona concetti, ribosomi
chi è la più bella del reame, fuori livori
lucean le cupole di zaffiro nei laghi centroasiatici
in simultanea nasce già livido morto,
aveva dato un’occhiata intrauterina,
sequenzialmente
s’era impiccato, evitiamo la lunga inesorabile
attesa del falco, del giorno, dello shopper di plastica.