Vladimir D’Amora - Neapolitana membra - Arcipelago itaca Edizioni, 2016
Il tema è la forma, in un certo senso. Per quanto questo non sia sempre vero, può esserlo quando in un libro si parla di Napoli, è Napoli la fonte di
ispirazione, lo scenario e insieme la protagonista principale, seppure come voce fuori campo. Naturalmente Napoli in questo libro non è un "oggetto"
poetico o non solo, non può esserlo in sé, appartenendo di fatto ad un mito speciale. Magari - qui - di una mitologia privata, un luogo astratto e
concreto insieme ("è un luogo più reale / per la terra è un realissimo / collante"), un luogo solo e soltanto in cui certe cose della vita, proprio quella
dell'autore - private - , avrebbero potuto accadere. Un luogo complesso nel quale la complessità della vita si materializza, forse più che altrove. In
altre parole scenario ed elemento strutturante insieme, che c'è, esiste anche quando viene nominato appena. Sia la città/scenario sia quel che in poesia si
narra, non possono naturalmente essere rappresentati che per lacerti di un corpo, per membra, compreso quel tanto di sessuale, non necessariamente
esplicito in parole, che ogni tanto emerge. C'è quindi, per questa connessione sotterranea, qualcosa di sincopato che si riflette nel linguaggio e che si
esprime in quel tanto di "jazzistico" e di equilibrio ricercato, una certa "propensione verso la scrittura di ricerca e lo sperimentalismo in generale, non
ripudiando però, dall'altra, l'eco lirica" (dalla motivazione del Premio nazionale editoriale di poesia “Arcipelago itaca”, vinto dalla raccolta). Ricerca
e sperimentalismo che per la verità, a mio avviso, si esplicano per lo più in una lingua fortemente ellittica, spezzata, nel rinvenimento di elementi
lessicali contrastati e "duri" (e raramente dialettali), nel ricorso talvolta ad andamenti prosastici, o ad un enjambement estremizzato (specie nel
"narrativo"), ma che nel complesso non è "chiusa", anzi lascia al lettore un ampio margine di interpretazione, un ampio spettro di suoni e colori, insomma
una varia e diversa leggibilità. E' in questo senso che l'equilibrio di cui parlano gli estensori della motivazione è quasi totalmente garantito, non
dimenticandosi però, l'autore, che "la lingua è una torsione elementare", tanto più in poesia dove ci viene consegnata con una sua "conformità" per essere
restituita diversa.
Per il libro di D'Amora valgono molte delle cose generali che ho scritto QUI, parlando de La disarmata,
raccolta di autori vari che ruota anch'essa intorno alla città partenopea. Forse qui in un certo senso ce n'è meno, di Napoli, e alla fine non si può
parlare nemmeno di una poesia urbana, per quel tanto o poco che questo significa, pur mirando nel contempo (parole dell'autore) a uno "stile
dell'asfalto". Per quel che appare Napoli (o napoli, minuscola e confidenziale) è una città introiettata nell'animo (l'anima lasciamola all'imperio di
altri), in tanto apparentata con un "deserto ordinato da milioni di dei", dei che hanno abitato la città ma che tuttavia - aggiungerei - hanno abdicato da
secoli. In questa città/sostrato è quasi naturale rinvenire non tanto e non solo un passato mitico e eroico che in vari modi sedimenta in cultura (e certo
anche in scrittura) ma anche inquietanti "mappe / di una futura scena, di una crisi", a sua volta non tanto e non solo intesa in senso economico o politico
quanto piuttosto in quello di un privato quotidiano transeunte, nel quale l'autore sente che "tutto è posteriore a tutti", e dove è in essere un "dogmatico
accadere immemore". Dicevo introiettata perché quando D'Amora parla esplicitamente della città in effetti parla di sé e per sé, allegorizza la città come
un sé ugualmente complesso e problematico che con Napoli è in rapporto dinamico e circolare, esattamente come quando si trova a parlare d'amore o de "i
fiori che pendono falsi / da tetti più sacri", quei fiori che forse "urlano", fanno "voci", aprono la bocca, come molte altre cose che sono ipostasi di una
realtà che l'autore vive quotidianamente, e che rimane, persiste, vince la morte, ed è - ricordo - "posteriore a tutti". (g.cerrai)
*
Napoli oggi è nel suo inverno statico e pressante,
è una lettera morta che la luce sarà
domattina per chi luce ricordando il giorno,
nuovo giorno e per ogni e nuovo sole
sorgere di un lento battito, stretto ai pochi
gesti nel quotidiano lungo un anno.
Forse avremo bisogno dei ricordi
nella scrittura tutelata nella noia:
saremo come figli seduti alla distanza,
occhi e parole rosso-rabbia incerta
ai primi raggi. Avremo la ragione dei nati
a vivere tra braccia lungo viali e
primavere in questi anni tutti paralitici.
Sarà costante idea la bianca presa
e il latte speso in una città di polvere
biostorica mai tolta, già sottratta.
*
nelle celle di tufo blu
era memoria di guerre interne
costosa, codarda
sottomissione pei grigi vicoli
che alitano bruciate femmine
talianti, prima d'aprirla
'a vocca rossa, l'oro
dalla punta nera e lo slancio,
legato a fili verdi, in turbe
umane e l'onde di maestri
fanciulli i tuffi
nel mare l'invincibile
lordura civica
in questa gabbia
d'infinite perdite per l'uomo solo
questa sua arsa
speranza di una spina.
*
A sera capitano ancora eventi di una speciosa traspropriazione a dire
che la relazione che il politico è, s'inabissa corta nelle frenetiche
rivendicazioni di distanza.
Nel cerchio del Vomero ove circolano indifferenti i mercanti d'anime e
quasi come a Seul il resto da finestre inquadrate da architetti mai
ringiovaniti, sono scorti i passi dell'imminente fine: è il reggerla, la
novità che ha trasformato l'immobile respiro in una esatta maniera
della vita: internamente quelli coi capi vivi nelle vasche umane,
chiedono il potersi aggirare pesanti nei metri consentiti, quasi i corpi
loro come dei muti segnali si specializzassero nella sopravvivenza
accelerando le trasmissioni di pochi punti di parola.
Le ossa che dalla bocca riescono sputate con la gagliardia feroce e
quanto mancano i santi ed i filosofi non imprestati da televisioni in
queste abbreviate luci lo starnutire diverso è un gioco prodigioso e tu
di un'altra epoca diffranta.
*
Napoli, nel novembre dell'anno duemila e quattordici,
è un luogo più reale
per la terra è un realissimo
collante. Le sue terse
illusioni nella vece del saluto
sperano intese
lo zero e la realtà
più dura del metallo. E con l'odore
di possibile oh stringa forte
un piano o uno sciupio
feroce.
*
Riaccolti solo i segnali dell’impiego
uscimmo dall'estrema faccia della gioia.
Un calvario perfetto, senza
colore che rispondesse
ai farmaci, alle stonate ansie della fine.
Desiderai già sul balcone,
calcoli chinati e richieste di sale e sete e
ci salutammo,
confortati in un'angoscia. Il sole, Napoli
in autunno
che già chiamavo gelo
col viso
verificato dal silenzio.
E procedere su orme che si rifiutavano,
e soli e cestinati. Tendesti la mano:
mi coprì di voce chimica
questa forma del perdono, del mescolarsi
di ragioni inferte al chiodo, un unico
lenzuolo somigliante a tutta
la luce pallida e impredicabile del dilatato e solito
bagliore: era il demone che aveva
disegnato fili, spenta
la carne. E colava
essere sul petto, già scoppiato. Caddi così
nella tua sera, tu dentro al ventre mio.
*
amoremio
quanto sei bella nella forma della napoli rifatta
tu sembri
quella storia lasciata sui bordi
di una bocca ed una
sola roccia di chimica lotta
nella posata luce; io comincio
con il ritmo di meschonni
ma come nei miti le navi
che corrono al vuoto desiderio di un'altra
umana forma, così tu
amoremio
tu mi sei astante
fiore di un bacio
nell'alveo disfatto dal borghese.
*
Napoli. Il sole sopra ai tetti,
le giovani
anìmule che fetano la vita a denti lisci.
Un cane allucca al vento, costretto
dalla moda:
urla la morte, ed è vaneggiamento. La vena discoverta
l'ultimo destino, e ammore
è fantasia –
montate già nell'intimo le morse risorse di listino.
Piano piano s'inabissa il canto
'e cunti
due nari richiamano dolore assunto
a terapia nell'al-di-qua-del-porno.
Essere uno di montaggio,
donna di piacere e gusto,
pali d’insensata febbrile garanzia
come una carica e tensione introducendo all'apice
di mire che scambiano reietti sorsi.
E pulsa introversione.
*
i fiori che pendono falsi
da tetti più sacri
l'apparenza è la vittima
ferro battuto da vento
da infamia
fa caldo i
cieli di luglio
sui libri e i secchielli bambini
un torso dell'uomo
è parte d’eterni rifiuti di
napoli
splendori veloci
pompini da stalla
la scolta africana la scena
la fame e poi loro che no
che hanno detto che no
che non ti conoscono