Lunedì, 13 giugno 2016
Pasquale Vitagliano - Habeas corpus - Editrice Zona, 2015
Leggere un libro, specie di poesie, è sempre un affrontare le ragioni degli altri, e in qualche occasione giustificarle. Non credo che nel caso di Pasquale
Vitagliano la motivazione sia l'urgenza di scrivere, come dice Nicola Vacca nella prefazione. Per il semplice fatto, come ho detto in altri momenti, che
detta urgenza non esiste, e se esiste di certo non assomiglia a certi moti del corpo. La spinta principale mi pare semmai sia quella di una rapsodica
ispirazione, come quando ci si ferma un attimo a riflettere, colpiti da un pensiero o da qualcosa che ha acceso una sequenza di associazioni di cui ci si
sente protagonisti, e talvolta vittime. Credo che sia questa, lo dico subito, la ragione di una certa qual discontinuità della raccolta, anche di registri,
non rimarginata dalla divisione in cinque sezioni, che hanno per titolo altrettanti colori senza però che in loro e tra loro sia marcata una differenza di
stile o di senso. Se detto così sembra un elemento critico, c'è però da dire che la ragione sta nel modo del tutto privo di soggezioni che ha Vitagliano
per avvicinarsi alla poesia, quando essa "arriva", come se la prima necessità (questa sì) fosse la "fissazione" su carta. Il resto, tutto l'armamentario
retorico e stilistico dietro al quale talvolta ci si nasconde, appare secondario, e il tutto alla fine si realizza paradossalmente in uno stile, il suo,
che potremmo definire "naturale", esattamente come il linguaggio con cui è espresso, poco retorico (ed è un bene), che si attiene ad una comunicazione a
volte un po' dichiarativa ma immediata, anche quando tende al simbolico o a toni vagamente surreali; o la versificazione che in diversi testi si distende
come se seguisse lunghe espirazioni, un fiato di voce che si estingue solo quando quel che c'è da dire è detto (e questo avviene per lo più nelle poesie in
cui Vitagliano parla di temi sociali o esistenziali). Si ha insomma l'impressione, non so quanto esatta, che in questi testi ci sia poco di successivamente
elaborato, che siano per così dire nati così come sono, senza troppa postproduzione, per usare un termine tecnico. Una originaria freschezza, con pregi e
difetti: da una parte come quello che si riscontra nei testi migliori (alcuni dei quali qui presenti) dove il rapporto tra "ispirazione" e risultato
risalta subito nella sua compiutezza (ad esempio in aperture e finali coerenti, che chiudono il cerchio); dall'altra come quello di contribuire a quella
discontinuità, tra temi e registri, a cui accennavo prima. D'altra parte non credo possa essere altro che così, se è vero quello che dice Vacca, che cioè
si tratta di "parole concrete e nuove a servizio della vita e delle sue cose elementari (corsivo mio)" o di quella "sequenza di ingenue
causalità" di cui scrive l'autore in una poesia. Una poetica, quindi, in cui le occasioni possono essere tante quante i giorni che viviamo, alcune ci
colpiscono e fanno risuonare un diapason creativo, altre no, perché si tratta di una poetica dell'ordinario, del common people, del quotidiano,
dell'esistenza che scorre, del tempo che fugge, del presente posticipato, in cui il frammento funge da elemento catalizzatore della sensibilità di chi
scrive, fornisce l'idea, anzi in qualche modo la impone. Lo specchio è quello di una realtà su cui non abbiamo potere, su cui si può, nella migliore delle
ipotesi, agire solo poeticamente, trasfigurandola in parola, riprendersi un po' del metaforico habeas corpus. L'importante è farlo, come nel caso di
Vitagliano, con un certo ethos (un luogo in cui "vivere" moralmente con chi ti legge) e con onestà, forse non proprio nel senso in cui la intendeva Saba ma
ci siamo capiti. (g.cerrai)
Questo è l’ultimo giorno di scuola, il pianto è scemo il sole ha l’aria fresca. È l’ultimo giorno di scuola, l’ultimo. Qualcuno piange per i miei figli e i miei figli invece ridono. Qui fuori è pieno di colori perché questo per loro è l’ultimo giorno di scuola e per caso prima avevo visto i quadri, quelli dei disabili belli come Pollock, i piedi dei compagni, i piedi storpi fotografati e i miei piedi che non mi fanno più male, ed io che farei santi i loro genitori. Questo è l’ultimo giorno di scuola anche nelle stradine abbagliate che abbiamo percorso gli attrezzi, le taniche, i carrozzini, il sugo e la resina. Quanti ultimi giorni di scuola abbiamo avuto.
Come chiameresti tutto quello che abbiamo visto oggi?
Fine della malattia
Non c’è più la malattia a far galleggiare sul pantano il nostro amore senza amore. È più molesto questo nostro stalking quotidiano della violenza di un estraneo. Siamo stati messi all’angolo dal rumore dei ragazzi, zittiti dalle nostre paure, impotenti per le nostre querule verità. Non si chiamerà genealogia questa sequenza di ingenue causalità.
Vorrei andare al cinema a rivedere la mia storia.
Non è che se togli le lancette all’orologio hai tolto il tempo di mezzo. Ti tocca trovare dove mettere la scatola bianca, il quadrante inespressivo, sperare che lo attacchino al soffitto nel padiglione dei totem insignificanti.
Non ci sarà che affidarci alle ombre dopo aver inutilmente cercato le cinque pietre sulla sabbia di saturno. Per finire seduti sfiniti sugli sgabelli a sminuzzare coi denti biscotti senza sapore, a sperare che le amnesie non siano un morbo.
Mi sono inchiodato allo stipite della porta, un saliscendi sulla spiaggia di Ostia.
Sembro l’allegoria meccanica che batte a mezzogiorno su una piazza senza turisti.
Zitto, non si mostra la vita, al massimo resta il compro-oro dove svendere le cose.
Si potrebbe ricavarne 500 euro, meglio che lasciarle morire sui corpi, con quelli dovrei farcela a finire il mese.
Enigmi alieni
Ho passato l’estate a cercare antichi alieni, altera la luna non sa chi siano, e chi sia io disteso sul divano e lo sguardo oltre la finestra illuminata nel buio della sera. Se non fosse mito o leggenda ma un fatto vero che Prometeo è sceso sulla terra per farci nascere, che anche Osiride è risorto dopo tre giorni per tornare a casa, che l’albero della vita altro non è che la scala genetica, il problema non sarebbe risolto perché mai sapremmo il loro vero nome, quello che non gli abbiamo dato noi. Non sapremmo mai il loro primo nome, quello della nascita, malgrado il gene della parola, quel foxp2 che Dio ci ha iniettato qualunque sia il suo nome il tetragramma impronunciabile o l’illeggibile nome degli dei antichi, alieni comunque alla terra. Allo stesso modo finiremo noi alienati dalle nostre stesse forme di vita, comprendendo che l’ufologia è la tappa finale del materialismo marxista, prodotti noi stessi di questa immane raccolta di merci che è cominciata nel cielo dove gli dei esistono davvero e potrebbero essere fatti della stessa materia dei tegami.
Via dai canili
Non si riusciva a sentire l’ecolalia dei fiumi ingessati sui corrimano di case, delle case interminabili, ci sono più case che abitanti, e dove manca l’acqua, mancano anche le case, sono solo quattro muri. Senza margini sono gli storpi, senza contorno, i tronchi alla deriva sui fiumi, le acque, i fanghi. Il fango, la melma delle città, le deiezioni che non si controllano più, chiamala merda questa natura pura, che non riesci a educare perché lo stesso la vita è inesorabile quando scorre cieca, il cibo, la sete, il fango, le feci sotto la neve. Gli altri, gli abitanti, si sono messi in mezzo, hanno fatto delle loro case il campo di forza, il punto focale dell’ordine costituito, che tutto doveva girarci intorno, deviare, restare immobile sui corrimano se non sbattendo continuamente il capo. Il capo, su e giù, le forze sono rimaste altrove, fuori campo, oltre gli argini, sopra le tettoie e sotto le tavernette perbene. Diversamente abile è questa natura che ci ignora e non riesce a adeguarsi alle nostre misure, e grida, grida, borbotta, vomita, si scuote, ingoia, defeca, divora, inonda, terrificante, inonda, piscia, e se la fa addosso, assolutamente sorda, sorda e incapace di essere perbene.
Giorno dopo giorno mi hanno tolto l’agibilità del corpo. E nessuno, dico nessuno, ha fatto per me ricorso alla corte dei miracoli. Al mio corpo hanno tolto per giunta la sua abitabilità. E sono stato messo fuori del mio involucro di carne. Avrebbero preteso che rimanessi dentro ma in silenzio, imperscrutabile e impassibile a guardare loro che scrivevano la mia parte. Hanno reso l’alienazione umana roba per geometri, ma a questo punto io resto immobile, e resisto in attesa che arrivino i marziani a dirci che la terra è piatta e senza confini.
Solo al buio è concessa la pietà che il sole disdegna per dover redigere il sinistro inventario del riflusso, oltre le cateratte di catrame i relitti possono tornare reliquie, ti può anche venire di pregare nella notte traforata, finché un faro non illumina l’incubo farsi avanti, farsi avanti un talpa che adesso vede bene ed ha fame.
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