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I morti (preghiera) II
Pensiamo che la nostra vita sia popolata da tante persone.
In realtà sono poche le vite altrui veramente importanti
per noi, e precisamente sono quelle che, non
sempre ma per sempre, ricordiamo nelle nostre preghiere
serali, anche a distanza di molto tempo da
quando esse sono oramai polvere ed ombra.
Pace a mia nonna Rosa,
che mordeva negli ultimi tempi
la mano amorosa che la nutriva.
Pace a mio nonno Nicola,
che non serbava per questo rancore,
e che volle morire nel tempo giusto.
Pace a mia nonna Anna, che visse per i figli
fino al disprezzo di sé.
Pace ad Angelina, che seppe servire
senza essere servile.
Pace a Gabriella, che ebbe in dono
l’amore vero e un male mortale.
Pace a Maria Pia, che della vita volata via
non seppe le poche gioie e le molte amarezze.
Pace a Emanuele, mite ma fiero
in un mondo corrotto e violento
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L’inferno
Non è fuoco l’inferno che tormenta
le carni, non è buio che lambisce
le anime stanche.
Nel silenzio rotto
da grida rare, pregano con la lingua
sanguinante dei padri un Dio
perché dia senso alle loro sofferenze.
Per ognuno di noi che parla
di democrazia avvenire, c’è un uomo
che là dentro si martira.
Nessun’acqua pura né diluvio
estinguerà le fiamme. Dal verbo
al futuro nessuno sarà redento.
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Supermarket
Malattia nello spazio che ci separa,
lo spazio di una cassa che digita numeri.
Malattia nell’aria senza odore.
Malattia nei volti tirati e truccati.
Guardo attonito, ancora oggi
che so mia, anche mia, la malattia,
senza spazio per fughe illusorie.
Prendo le buste della spesa,
ed è compassione ciò che sento,
non disprezzo, per fortuna, di me
e delle anime disfatte che sciamano.
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Al Signore dei trapassi
Signore dei trapassi,
com’è ardua l’arte dei transiti:
il canale s’ingorga,
vince il male come osceno ritrarsi
dell’Ego in fortezze inesorabili.
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Emmaus
Sei tu che cammini al mio fianco
nell’arso passaggio di aprile?
Ma come saperlo davvero?
E se fossi soltanto un miraggio
del cuore assediato?
Poi, stanco, seduto alla mensa,
quando le ombre inghiottono i sogni,
rammento parole sgorgate da labbra
di salda dolcezza.
E, dunque,
prendo il pane e lo spezzo,
guardando il compagno di viaggio
inconsapevole, prego,
e riconosco il tuo volto.
Nicola Sguera
è nato il 20 giugno 1967 a Benevento, ove risiede, ed insegna Filosofia e Storia nel Liceo “Pietro Giannone”. Di formazione classica, si laurea a Roma in
Lettere con Biancamaria Frabotta, discutendo una tesi sul simbolo e l’allegoria nell’opera poetica di Franco Fortini. Nel 1992 costituisce a Benevento
l’associazione “La rosa necessaria”, poi divenuta anche rivista, strumento di indagine dalla provincia meridionale della poesia e della cultura italiana.
Nel 2010 ha curato la prima edizione della rassegna “Poesia in forma di rosa”, dedicato alla poesia contemporanea. Nella sua vita intellettuale cerca di
coniugare una spiritualità post-religiosa (secondo la lezione di Bonhoeffer, Illich e la Weil), un pensiero post-filosofico (memore della lezione di Martin
Heidegger), la poesia come luogo privilegiato della verità (guardando ad autori come Celan, Char e Bonnefoy) e l’impegno civile con una forte connotazione
ecologica. Tracce di questa ricerca si trovano nella raccolta di saggi In quieta ricerca (Percorsi editore, 2012). Ha pubblicato una raccolta di
versi: Per aspera (Delta 3 Edizioni, 2013). Alcune sue poesie sono state pubblicate sul n. 1 di «Poesia e conoscenza».
L’assedio di Famagosta di Guglielmo Aprile – LietoColle, 2015
Due sezioni in versi corpose incisive, per narrare poeticamente i fatti del 22 agosto 1570 avvenuti nella città di Famagosta; assediata dalla flotta turca
ottomana e resa allo stremo per un lunghissimo inverno, la cittadina veneta seppe resistere alle forze turche fino alla resa delle armi del 1 agosto 1571.
Guglielmo Aprile, nel suo lavoro L’assedio di Famagosta LC, 2015 si immerge in eventi duri e aggressivi per registrare i significati della
guerra, della detenzione, dell’impotenza, della morte. Soprattutto si sofferma sui particolari reali per far emergere i sentimenti che accompagnano le
occasioni della battaglia e il relativo processo conclusivo. Scavare nelle invasioni di epoche storiche del passato serve ad attualizzare il tema della
sofferenza e della coercizione che ogni guerra comporta. È il terreno dei rapporti individuali che si scardina, qui siamo tutti costretti a indugiare, a
meditare/immaginare/sopportare le violenze che non hanno mai vincitori e vinti, ma solo perdenti e devastazioni intimo/sociali. La morte travolge
l’individualismo e l’orrore riguarda non solo la comunicazione, ma, soprattutto, l’integrazione che fin dall’inizio dello scontro ha esito fallimentare.
L’autore organizza immagini, fa rivivere luoghi, memorie e sottende al cambiamento, alla ricostruzione, nonostante tutto. (rita pacilio)
Il cattivo guardiano
Il completino dei miei sette anni
l’ho ritrovato, era in fondo a un baule
ricoperto di formiche:
lo avevano quasi del tutto
divorato.
E il suo antico proprietario
ora è tornato, senza preavviso,
per chiedermene conto:
vuole vendetta, vuole indietro
il completino dei miei sette anni
(non posso accampare più scuse)
che all’epoca affidò a me
e che io non ho saputo custodire.
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Caccia reciproca
Ho cucito insieme con un filo di carta
i calcinacci crollati,
ho steso una garza di sabbia
sui crateri nel muro
fracassato dai pugni
del tremendo bambino:
l’incattivito demiurgo che escogita
i suoi scherzi pesanti, le sue marachelle diaboliche,
e che ora si aggira
furtivo e affamato, febbricitante
per i capannoni dismessi
dell’area industriale; non so dire
se sia io ad andare
in cerca delle sue tracce,
o se sia lui a darmi la caccia, e tanto
più mi sta addosso quanto più lo fuggo.
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In cima alla collina
il castello in cui non mi fanno entrare;
al suo interno il bambino
si dà alle orge, ma non fa mistero
della sua delusione perché io
mi rifiuti di assistervi o magari
prendervi parte, trattenuto
da fosche dicerie sul loro conto.
Ma il cervo è scappato dal bosco
e decanta i bellissimi arazzi
delle sale, in termini lusinghieri,
i variopinti cappelli dei guitti,
le sontuose armature appese ai muri,
e mi sussurra: “Io sono tuo figlio
e insieme tua madre”; ma io
lo lascio parlare fingendo noncuranza,
finché mi alzo stizzito e mi allontano
sotto una pioggia nera, per non cedere
al suo inganno, al pericolo
della sua voce che confonde e ammalia,
mentre inutilmente mi attendono
l’eco dei liuti e lo scintillio delle torri
in cima alla collina che non oso
per paura scalare.
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E in fatto di urbanistica, lo scempio
da un po’ ha raggiunto esiti
inusitati: ci sono quartieri
da cui è meglio girare al largo
e in cui azzardarsi a scendere è avventura
da ponderare attentamente, data
l’alta incidenza di scontri di piazza
e reati che vi si riscontrano.
Eppure è lì che bisogna
indagare, affondare il bisturi
nei vicoli più scabrosi, protendere
il periscopio dove si raggrumano
caseggiati in tumorali ammassi
di cemento, in informi concrezioni
di muri diroccati, suppuranti
di oscura negletta proliferante
fauna umana: è lì, nell’anonimato
di quelle medusee architetture,
tra quei complici alveari infetti
che è avvenuto il reato originario
e trova asilo il colpevole,
il grande ricercato, e si nasconde
depistando gli investigatori:
è lui, solo lui ad ideare
ogni misfatto, ogni attentato all’ordine
che della città giornalmente
movimenta la cronaca.
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L’antenato dalle piume di struzzo
attaccate alle tempie
non scherzava affatto, quando
il vento in delirio gli urlava nomi
di uomini inghiottiti dalle cento
bocche della montagna, o sedotti
dalla vergine del fiume;
ma anche oggi, malgrado le cure
ricevute e la raggiunta età adulta,
va nel panico
se qualche passante lo fissa
con una insistenza che lo irrita
uscendo da un portone, o se rinviene
una certa espressione di rimprovero
nel servizio da the, nei manichini
dietro le vetrine, o in una baffuta
architettura d’epoca,
ed ha paura, ha paura che un giorno
dal manto dei rampicanti, dai muri
occhi a miriadi potrebbero
spuntare e trafiggerlo mentre dorme.
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Sentinella
Non dormo nei giorni pari.
Appena le palpebre salpano
sullo scuro lago di quarzo,
un grido sanguinante
m’implora di tornare indietro,
mi trattiene sulla soglia
della grotta, mi obbliga
a non abbassare la guardia,
a vigilare –
ma al capezzale di chi?
Un qualche alto comando
mi invia l’inderogabile
dispaccio di stare ogni notte
all’erta; ma per far fronte all’insidia
di quali ombre, di quali fruscii
nella boscaglia?
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Le murene rinchiuse nella vasca
potrebbero sfuggire, eludere
le guardie, risalire
i pozzi, e fare a pezzi
il giardino; guarda come
l’ultima volta hanno ridotto il mandorlo
sulla cui cima da piccoli
scappavamo dopo un rimprovero
o tra le cui rughe nascondevamo
uova di pernice.
Stendiamo sulle grate
lastre di calce, muriamo le botole
perché la sabbia attutisca
le urla di sangue e di schiuma
della loro fame millenaria,
seppelliamo il loro latrato
nel coccige delle epoche,
nell’infanzia delle montagne
il rettile si contorce,
ma noi a voce più alta leviamo
simpatici motivi e intenzionalmente
saltiamo la pagina che riporta
una nota febbrile in rosso a margine.
Guglielmo Aprile
è nato a Napoli nel 1978. Attualmente vive e lavora a Verona. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia, tra cui Il dio che vaga col vento
(Puntoacapo Editrice, 2008), Nessun mattino sarà mai l’ultimo (Zone, 2008) e L’assedio di Famagosta (Lietocolle, 2015); è presente
nell’antologia Il miele del silenzio (Interlinea, 2009). Collabora da anni con periodici specializzati attraverso saggi e recensioni.