Venerdì, 22 gennaio 2016
Mauro Sambi - Diario d'inverno - Lietocolle 2015
Non lo so con certezza ma credo che questo sia il
secondo libro di Mauro Sambi - a parte un'antologia pubblicata da
Campanotto in cui appare - dopo il bel "L'alloro di Pound" di cui ho
pubblicato qualcosa su IE (v. QUI) nel novembre 2010.
Sambi rimane fedele a sé stesso, anche in questo
libro, e questo è un bene, perchè la lettura - è una prima ma non banale
impressione - restituisce una familiarità di non poco conto, una
leggibilità assoluta. Si resta o si ritorna come a casa, in un'aria
tersa e complicata insieme che conosciamo bene, in cui quel che c'è da
dire viene detto con una apparente semplicità lessicale e metrica che
invece è frutto di un lavoro niente affatto facile. Sambi ha scelto la
tradizione fin dall'inizio, non credo che nemmeno si sia posto il
problema di organizzare diversamente la sua ispirazione, non aveva
niente da rovesciare soprattutto perché quella tradizione ammirata,
soprattutto quella italiana della grande poesia novecentesca, lo ha
accolto, lui istriano di Pola. Come ebbi a dire in altra occasione, la
sua non è una poesia "di confine", anzi, anche in questo libro, lo
sguardo poetico è fermamente "europeo" perchè intriso di una cultura più
vasta, raffinata e del tutto priva di epigonismi. Hic manebimus optime,
potremmo dire con Livio (e anche con Montale). E infatti Sambi sta
saldamente all'interno di una convenzione ad includere, non ha la minima
intenzione di forzare il perimetro, i confini di un ambiente che
poeticamente lo conforta e rassicura.
Anche la forma, qui fondamentale, guarda alla
tradizione senza infingimenti. E' il sonetto che la fa da padrone, quasi
ovunque, spesso quello shakespeariano (4-4-4-2) mutuato attraverso le
traduzioni che Sambi ama fare del Bardo (ce ne sono diverse già ne L'alloro di Pound),
una forma chiusa che, insieme al classico sonetto 4-4-3-3, abbandona
raramente. Ma è certamente anche una scelta di rigore, di disciplina
quasi scientifica che corrisponde al carattere dell'autore, come già
aveva notato Gabriella Musetti nella prefazione a L'alloro di Pound.
Insomma, come scienziato (Sambi è è ordinario di chimica generale e
inorganica a Padova) lascia la sperimentazione ad altri campi,
preferendo semmai la raccolta di sentimenti o suggestioni che passa
sempre al setaccio culturale, per lui irrinunciabile, che le intride e
le riempie di echi. Il libro percorre un tragitto, un prima durante e
dopo di un viaggio, una storia affettiva e sentimentale tra Padova e
Oxford e dintorni, una andata e un ritorno malinconico perché forse il
ritorno è anche un distacco. Il nucleo centrale della raccolta è la
sezione "In illo tempore" che riguarda appunto la permanenza in
Inghilterra insieme alla persona che lo accompagnava, tutta descritta e
scandita, come si conviene all'indole poetica dell'autore, in chiave di regret
shakespeariano. E' qui a mio avviso che si trovano i testi migliori,
bilanciati tra narrazione (dei luoghi, dei fatti) e ascolto di
sentimenti e percezioni, sempre affrontati con estrema leggerezza. Il Diario d'inverno è il diario elegiaco di una stagione metaforica che volge al rimpianto e alle ombre, di uno "scontento" - per usare ancora le parole del Bardo - forse in attesa di una nuova "gloriosa estate".
Se il libro mostra qualche debolezza (ma è poca cosa) rispetto alla cospicua prova de L'alloro è
forse perché, io credo, c'è in Sambi, quando parla più intimamente di
sé, una sensibilità e una necessità di difesa a cui fa fronte da una
parte la cultura come elemento, come dicevo, di rassicurazione,
dall'altra una discrezione (o forse una timidezza) che un pò filtra i
suoi versi, li protegge da tracimazioni emotive. Del resto è certo,
perché sono parole sue, che la poesia necessiti di una "gabbia" (v. post
citato). E non è un caso, ancora, che il libro sia dedicato "al Doppelgänger", il doppio, l'altro da sé e in sé, lo specchio che si osserva con timore e attrazione. Ma resta indubbio il suo valore poetico (v. ad es. l'ultimo testo qui presentato), e il fatto che nella
sua poesia risieda (sempre citando Musetti) "una
interrogazione pacata ma non per questo meno profonda", soprattutto
quando parla d'amore, luogo - secondo l'autore - di un limite "che porta a sfiorare il confine tra tempo e non-tempo, ma contemporaneamente ne sancisce l’invalicabilità". (g.c.)
da In illo tempore
Stratford-upon-Avon, II
Fu quando scendemmo verso la chiesa della Santa Trinità e mi chiedesti cosa provassi a visitare i resti del Poeta che ho tradotto e – sorpreso –
non risposi; non avevo pensato a questo. Fu così che intercettasti un raggio di me e me lo rimandasti con discrezione. Entrammo dal sagrato
stretto tra gli alberi. Sta qui, secondo Hofmannsthal, il compito forse più delicato dell’amicizia, e tu l’avevi assolto. Ritornati al mondo
sfiorammo il nodo dell’Onlie Begetter da lontano. Cosa muove i sonetti?
25 gennaio
Warwickshire, Oxfordshire
L’autobus scivola nella campagna stillante un pulviscolo d’acquerugiola così sottile che quasi non bagna i vetri; ogni sguardo grato è un indugio
tra le glorie del verde. Qui ti chiamo al tuo futuro e presagisco che ogni refolo può staccarti dal ramo condiviso; il tuo irrequieto bisogno
di cose concrete non consola la mia inquietudine crescente; pesi gli accenti per eludere la sola risposta che vorrei. Tra pochi mesi
la tua scelta scoppierà (e sarà vano il presagio) come una bomba a mano.
29 gennaio
Cotswolds
Come nel fitto di foglie forato dalla macchina nel rapido viaggio tra le radure, nel buio raggrumato in grovigli che neppure il vantaggio
della luce sa sciogliere, così nel segreto di te un’ombra dice l’irrequietezza, il fondo oscuro di accidia che traspare in superficie
solo allo sguardo attento. Il nulla scava anche il tuo centro, apparente miracolo d’equilibrio – là intravedo la chiave del tuo riserbo. Ma gioia senza ostacoli
la mia quando tu, persuaso dal suono dei miei versi, dicessi “Qui io sono”.
25 gennaio
Oxford, I
Troppe piccole porte nel cortile della Bodleiana fanno toccare con mano la sventura secolare della classificazione, sottile
incerta necessaria dissezione del tutto nelle parti: un poco o un tanto va sempre perduto. Di più t’incanta il gioco d’ombre che un’apparizione
breve del sole inventa sul selciato a partire da un cancello di ferro di All Souls. Forse distratto, non afferro subito tutto il fascino implicato
in quell’impronta fugace, ma tu distilli anche per me la sua virtù.
25 marzo
Oxford, III
I grifoni tra le guglie e le creste di St Mary; le maschere mutevoli nei fregi di Magdalen; la foresta sul portale di Merton, col benevolo
unicorno accostato al maggiorente genuflesso – scolpiti nella pietra, immobili, raccontano un pungente paradosso alla ragione che arretra
confusa: la metamorfosi colta nell’atto del suo farsi e congelata per sempre nel sasso, la vita tolta alla vita a salvarne la durata…
Sarà così di te in questa scrittura chiusa, di te che spezzi ogni armatura?
8 febbraio
Padova, III
A tarda estate giungono segnali da lontano: dalla costa algherese, da remoti promontori e crinali siciliani, dai sentieri di ascesa
al Passo delle Farangole, dove ti affiancano in silenzio due stambecchi e fuggono i camosci; scrivi “piove” dal bosco dei violini, pieno di echi
che riverberano perfino nell’ sms che mi mandi alla fine di agosto, già prigioniero io del tran-tran di sempre; indugi sul confine
dell’assenza – è la prova generale del distacco, dello strazio, del male.
13 febbraio
“[…] Un abbraccio. T.”
Quanto potrebbe durare un abbraccio tra noi due, ci pensi mai, non bastasse a suggerirlo l’istinto, col ghiaccio tuo o mio che avesse la meglio? Ci sta, se
ci pensi, stretto il corpo, in questa cosa alta, tutta di sguardo e di scrittura sottotraccia, tangente, che non osa – se anche sfiora – il centro, e qui la paura
del dorso ispido, tuo e mio, gioca un ruolo certo. Ti parlo, mi parli, a distanza. A faccia a faccia manca la parola aperta, il gesto irriflesso, l’alleanza
resta presbite. Non conosce sbocchi quest’afasia. Mi mancano i tuoi occhi.
21 gennaio
postilla
(Catenine, collanine di suoni, corde di sicurezza nell’abisso, di sinalefe in sinalefe fisso le vostre fragilissime giunzioni
e mi chiedo cosa portiate dentro i vostri nodi, sospese in un vecchio arnese incrinato, il piccolo specchio ustorio che il bene il male concentra
in un fuoco e l’incendia, per salvarne l’essenziale (per quel che vale), puri attraverso il fuoco, dove suppuri il morso la ferita nella carne
che passerà. Ora basta, tornate al silenzio, vecchie corde abusate.)
18 febbraio
da Futuro interiore
UN FIORE AZZURRO
Ein Mal jedes, nur ein Mal. Ein Mal und nichtmehr. Und wir auch ein Mal. Nie wieder. Aber dieses ein Mal gewesen zu sein, wenn auch nur ein Mal: irdisch gewesen zu sein, scheint nicht widerrufbar. Rainer Maria Rilke, Die duineser Elegien, IX, 13-17.
Passo delle Farangole, 27 luglio 2012
Qui nel tuo cuore a luglio c’è sempre un po’ di neve e giusto sulle labbra a non volerne esagerare un filo d’acqua gelida in caduta dalla roccia e spazio tra le cime con nuvole veloci che la luce la luce sfrangia e finisce come il tempo che ci è dato.
Qui nel tuo cuore si soffre a passo a passo la fatica dell’ascesa impastata a ogni gesto ogni sasso provato col piede semmai regga perché è facile cadere nel vuoto spalancato da un errore nell’ocra verticale delle forre.
Qui nel tuo cuore la gioia è tutta interna ma evidente nel ritmo stesso del respiro nella qualità dello sguardo e del sorriso nel tono della voce e nel colore del silenzio gremito di indugi, di confini, di consenso.
Qui nel tuo cuore a luglio tutto ti assomiglia la vastità la verticalità l’ampiezza l’inaccessibilità di enormi spazi e l’asciuttezza l’improvviso gelo ove sopraggiunga l’ombra e la solitudine portata come un fiore.
Qui nel tuo cuore nulla è superfluo, nulla è molle ogni cosa è essenza scabra e pura, è pietra conficcata in petto al cielo, è l’acqua che la scioglie, è poca vita viva con tenacia; qui si tendono le corde dell’essere, l’acquisto e la perdita, la fonte.
Qui nel tuo cuore la coscienza della morte è tanto più acuta quanto più compiuta è la bellezza dell’istante che offrendosi svanisce, e la bellezza ferisce, oh se ferisce, perché è arduo credere del bene che è passato: irrevocabilmente è.
Qui nel mio cuore a luglio il tuo cuore lascia un segno di ogni bene passato che resiste: l’effimero sentito eterno sul bianco della pietra – tutto luce, senza terra – di un piccolo fiore azzurro, un nontiscordardimé.
Note dell'autore:
Stratford-upon-Avon, II
Sono in noi certe qualità che noi stessi non ravvisiamo mai nel risultato di una nostra opera, né avvertiamo nella reazione del mondo; eppure sono le più preziose, e esserne consapevoli affretterebbe il corso del nostro sangue: intercettare tali raggi e rimandarli è il compito più delicato dell’amicizia. Hugo von Hofmannsthal, Il libro degli amici (Traduzione di Gabriella Bemporad)
Warwickshire, Oxfordshire “bomba a mano”: oggetto di una e-mail di commiato.
Padova, III “dal bosco dei violini” Il bosco di Paneveggio, tra Passo Rolle e la Val di Fiemme, provincia di Trento. Il cuore incantato dei Monti Pallidi. Paolo Rumiz, La leggenda dei monti naviganti.
Nota di redazione:
L'esergo di Un fiore azzurro è ripreso, come citato, dalla IX delle Elegie duinesi di R.M. Rilke: Ogni cosa una volta, una volta soltanto. Una volta e mai più.
Ed anche noi una volta. Mai di nuovo. Ma questo
Essere stati una volta, pur solo una volta: Essere stati terreni, appare irrevocabile.
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