Eccolo che riappare. Proprio quando pensavi di essere riuscito a liberarti di lui, di quella sensazione che hai ogni volta che scrivi un verso e ti ritrovi a pensare a qualcosa che forse ha gia' scritto lui; proprio quando i suoi libri, le belle edizioni dello Specchio, cominciavano a ingiallire dignitosamente sui tuoi scaffali, e la storia editoriale si era fermata, anno piu' anno meno, diciamo al 1984, anno dei suoi monumentali "Meridiani"; e proprio quando gli strati geologici della produzione poetica del Novecento lo avevano incastonato in una sua classicita' da guardare con minor affanno. Sto parlando di Montale e del suo ultimo libro postumo, "La casa di Olgiate", che come un revenant spunta dalle ombre degli archivi. E riecco, insieme al ripetersi del suo ultimo versificare, anche un pizzico del suo stile inconfondibile, che ha pesato come un macigno su tutti quelli che hanno tentato di fare poesia dopo di lui. Incidentalmente, questo fantasma e' la dimostrazione di quello che andavo dicendo nel mio post sulle varianti e sui manoscritti, anche qui stilati su quaderni che continuano a parlarci nel tempo come messaggi in bottiglia.
Sia come sia, ecco un libro che forse non aggiunge niente alla statura di Montale, se lo si guarda freddamente, ma che riesce comunque a dare una speciale emozione, a cominciare da quelle pagine di quaderno riprodotte nel libro, segnate da una calligrafia che denuncia "la fatica di una scrittura oramai prossima al traguardo, sempre piu' rastremata, compendiaria, compromessa dalla estenuazione e dalla debilitazione dell'eta' e della malattia" (R.Cremante, nell'introduzione), per arrivare al testo che da' il titolo alla raccolta, e che forse da solo vale la spesa del libro, la cospicua "Casa di Olgiate", in cui ritroviamo Montale al suo meglio. Non e' un caso pero' che questo testo, misteriosamente sfuggito a tutte le sillogi precedenti, risalga al 1963, ovvero a un periodo antecedente alla "svolta" dei "Diari" e del "Quaderno", e quindi forse per questo risalti nella sua lontananza dalle altre poesie del libro. Un testo che andra' indagato in maniera piu' approfondita, oltre le difficolta' ermeneutiche cui accenna Cremante anche nei riferimenti biografici e cronologici, ma di cui, come semplice lettore, posso almeno sottolineare l'ampio respiro, l'excursus temporale segnatamente narrativo, la sonorita', la felicita' dei giustamente famosi correlativi oggettivi montaliani.
Anche tra gli altri testi, spesso punteggiati da nere croci cimiteriali dove il logos si e' perso nell'incertezza della scrittura a mano e che segnalano la drammatica illeggibilita' di una parola, la sua perdita forse per sempre, e insieme il penoso sforzo del lettore di indovinare, anche qui dicevo ritroviamo bagliori improvvisi dell'ironia di Montale, della sua capacita' epigrammatica e di "riduzione", del suo laicismo irredento, ma anche una difficolta', una specie di "esaurimento" di fondo che e' impossibile non intravedere. Non e' facile capire se esso dipenda da una ispirazione sempre piu' legata allo stretto quotidiano e quindi in qualche modo ripetitiva, specie sui grandi temi, o dal fatto che questi brani debbano essere considerati come "ipotesti", come si suggerisce nell'introduzione, cioe' qualcosa suscettibile di "sviluppi talora imprevedibili" o abbozzi che nel gioco infinito delle varianti montaliane ha forse potuto (o avrebbe potuto) condurre a esiti tanto distanti da essere irriconoscibili. In tutto cio' il libro ha un valore documentale di grande rilievo, che a mio avviso pero' non aggiunge niente a Montale, ne' a quell'enorme deja-vu che e' il montalismo, il persistente e potente influsso che l'opera di Montale ha avuto sulla produzione poetica del Novecento (e oltre). Raramente nella storia della letteratura, non solo italiana, un autore ha avuto un tale peso sul lavoro degli altri poeti piu' o meno coetanei (la lista potrebbe essere lunga, Sereni, Fortini, Zanzotto, Saba, in misura piu' o meno rilevante). Ma si puo' anche dire che era impossibile che succedesse altrimenti, vista la statura del poeta. Che poi questo sia stato un bene e' tutto da discutere, se si accetta il pensiero che "togliendo il montalismo a quasi tutti i poeti del Novecento, resterebbe qualche briciola e qualche pietra preziosa. Con Montale resta un'intera miniera" (Guglielmin in un recente commento sul suo blog). Naturalmente non e' proprio cosi', se non altro perche' il montalismo non e' solo una questione di stile e di modi poetici, ma anche e forse soprattutto di "modelli" di interpretazione del reale, della modernita', di ricerca di risposte a domande importanti, modelli che si sono rivelati non solo anticipatori rispetto al lavoro di altri, ma anche particolarmente efficaci. Come tutti i modelli, anche quelli montaliani hanno avuto una vita proporzionale alla loro capacita' di resistere alla confutazione, fino a diventare parte della tradizione lettararia italiana. Come sappiamo, questa influenza e' stata massicciamente indagata dalla critica montaliana, che ha assunto a sua volta, nel tempo, una sua classicita'. I nomi sono molti, possiamo citare Solmi, Mengaldo e la lunga frequentazione di Contini. Vorrei qui ricordare, tra i molti anche recenti, il lavoro di particolare interesse di Guido Mazzoni "Forma e solitudine", in cui il critico affronta, oltre a Montale e in relazione a lui, anche le figure di Sereni e Fortini, grandi interpreti ma anche innovatori di una linea poetica che forse andrebbe sottratta alla gabbia degli "ismi" per essere riconsegnata a una tradizione in cui, eliotianamente, possa irrompere il nuovo.
P.S.: ho tirato fuori "Satura" dalla libreria per trovare qualche verso per chiudere. Mi accorgo ora che ho passato un'ora senza accorgermene, preso da una specie di fascinazione. Qualcosa vorra' dire...