La lettura su La poesia e lo spirito di un commento di Massimo Sannelli (v. qui) a poesie di ******, peraltro lì non pubblicate, mi offre lo spunto per una breve riflessione su un argomento già altrove da me affrontato (v. qui e, sotto altri aspetti, qui), quello del lavoro poetico e dell’utilizzo del bagaglio culturale, e su un altro che prima o poi andrà affrontato seriamente, ovvero quello della critica come esercizio del politicamente scorretto, del poeticamente corretto o di entrambi. Bisogna premettere che il pezzo di Sannelli è per molti versi esemplare, soprattutto perché pone in maniera lieve, quasi senza darlo a vedere, alcune questioni di grande importanza, e lo fa ponendosi innanzitutto come lettore di poesia. Che si parli per l’occasione di un autore o di un altro è, in un certo senso, ininfluente. Sta di fatto che Sannelli dice certe cose di un autore, e quindi implicitamente di tutti gli autori. La prima importante questione qui è: che cosa disturba quando leggendo incontriamo una poesia (?) esplicitamente dichiarativa, “che si apre troppo”, “che sembra bastare a sé stessa, e sembra funzionare meno”? Insomma, quando leggiamo qualcosa che, seppure a nostro modesto avviso, non possiamo considerare poesia?
E’ la sensazione che ho provato molte volte quando leggevo centinaia di testi inviatimi per essere pubblicati in rete, come ricordo nel vecchio pezzo pubblicato su questo blog e su La poesia e lo spirito. Faccio una breve parentesi: ho detto “a nostro modesto avviso” per almeno un paio di ragioni, la prima delle quali è che quando si affronta un testo, poetico o meno, lo si affronta innanzitutto come lettori, comunissimi lettori, e sappiamo che nel dibattito corrente sulla critica, per quanto complessivamente abbastanza striminzito, si affaccia una idea, da verificare, di critico lettore un po’ “disarmato” di tutti i ferri tradizionali della critica (v. Cepollaro, Inglese ecc.); in secondo luogo, per quanto modesto questo ”avviso” sia, è comunque un esercizio di critica - si presume fatto con un minimo di onestà intellettuale - che può essere sottoposto a confutazione. Sembra ovvio dire che è molto più difficile sottoporre a confutazione (e qui ci si avvicina di un passo al nocciolo della questione) una critica “falsa” piuttosto che una “vera”, nel senso che, essendo la critica un sistema empirico, una critica volutamente falsa, anche per benevolenza, non ha nemmeno bisogno di essere confutata dall’esperienza. Allora, cos’è che disturba, dicevamo prima? Il fatto è che la poesia è per sua natura una forma d’arte, forse l’unica, fortemente connotativa, se proprio vogliamo fermarci ad uno dei tanti elementi costitutivi del testo tipicamente poetico. Questo significa che il sistema di segni viene utilizzato per produrre un significato di più alto valore e più cospicua risonanza per il lettore. I mezzi per fare questo sono molteplici e consistono nell’armamentario tipico della poesia: il metro, le allitterazioni, le rime, i chiasmi, i correlativi oggettivi, le figure retoriche, ecc, ma anche le “invenzioni” linguistiche e le rotture di senso delle avanguardie. Alcuni poeti, o supposti tali, suppongono di poter fare a meno di tutto questo. o perché confidano nella pura “ispirazione” o perché si affidano a un bagaglio lessicale che “di per sé” dovrebbe garantire la poeticità (cuore, amore, anima e tutto il resto). Purtroppo però il carattere denotativo, puramente descrittivo e quindi totalmente impoetico, del linguaggio è sempre in agguato: può essere infatti denotativo anche parlare d’amore, se si usano parole, simboli, metafore strutture così tante volte usate da essere diventate oggetti enumerabili. Ritorna qui allora la necessità di gestire poeticamente la materia, sia essa l’ispirazione, l’esperienza, la gioia, il dolore, la fede, la cultura. Ecco che qui Sannelli, giustamente, dice che l’autore “mostra un cuore grande...ma manca qualcosa...cioè il poeta che prende distanza dalla sua materia, e che più se ne distanzia più la fa sua e la rende infuocata”. Il significato di questo prendere le distanze è doppio: da una parte la materia deve essere poeticamente lavorata, portandola a un livello semantico più alto, ad una polisemia che permette al lettore di essere attore della poesia, scopritore di sensi; dall’altra l’ispirazione deve essere per quanto possibile “universalizzata” perché, dice Sannelli, “più scrivo per me, più la mia poesia rimarrà adatta a me, e morirà in me”, e ancora “stiamo attenti a non dilagare in immagini troppo personali; forse siamo gli unici a considerarle belle, e per gli altri potrebbero essere semplicemente enfatiche o incomprensibili”. Certo, può sempre avvenire “il miracolo paradossale della poesia”, dice Sannelli, che come tutti i poeti non vuole rinunciare a credere alla mistica di una poesia capace, linguisticamente, di “divenire”. Ma, avverte, “il linguaggio non è materia grezza, ma uno strumento musicale. E, come ogni strumento, può fare alcune cose e non farne altre”. Da aggiungere che naturalmente il linguaggio, qui e in genere nella produzione artistica, va inteso non nel senso di organizzazione di parole, ma in quello ben più ampio di organismo culturale complesso.
Resta la domanda: che fare di fronte a “testi che istintivamente suonano meno di altri”, a poesia non poesia? Forse come fa Sannelli, che avanza la sua critica con molta delicatezza, confidando nell’intelligenza dell’autore, perchè si trova a leggere versi che certo non hanno bisogno di nessun sforzo ermeneutico, ma semmai di qualche buon consiglio. O forse con molta più immediatezza, ma sempre con l’onesta intellettuale, il bagaglio argomentativo e accettando il rischio della confutazione. Comunque sempre mettendoci la faccia, la credibilità, con poco riguardo alle regole dello status quo, come rammenta Alborghetti su L’Attenzione di Novembre. E’ interessante notare che se poniamo di nuovo la domanda in termini più generici (che fare di fronte a un testo?) la questione non cambia, se vogliamo fare critica. Per nostra fortuna nel campo artistico non c’è un problema di tolleranza, tranne quella delle idee, né di rispetto delle minoranze. Perciò non ha ragione di esistere, in critica, il politicamente corretto, se non altro per il fatto, come avvertì un noto scrittore, che il rispetto per la visione del mondo di tutti alla fine porta solo alla paralisi intellettuale. Quindi, se si accantona la politica di buon vicinato, la “scellerata schiera di compagnoni” come la chiama Alborghetti, se si mette da parte la difesa ideologica o lobbistica, se si rinuncia a fare della poesia uno strumento di affermazione di una civiltà o la cassa di risonanza di valori detti molto meglio altrove, può darsi che si riesca a fare della poesia, e conseguentemente della critica, forse politicamente scorretta ma magari poeticamente corretta (o tutte e due). Su questo versante ci sarebbe da fare un grosso lavoro di definizione degli strumenti, pur nella consapevolezza della peculiarità della materia, del suo empirismo, in qualche modo della sua “fragilità”.
Mi restano da dire due parole su quella che potremmo definire “la deriva dei commenti”. Purtroppo mi sembra che dal punto di vista critico la grande piazza virtuale della rete non riesca a leggere degnamente le voci interessanti che circolano, per ragioni diverse, una delle quali è la velocità con cui la rete “consuma” quello che produce, rendendo difficoltoso soffermarsi, come invece sarebbe necessario, ad analizzare un po’ più accuratamente i testi, senza che questo studio si perda in un mare di attestazioni di stima, per quanto gradite, o devii verso considerazioni universali, seppure importanti. Dovremmo rifletterci, perché sarebbe una bella palestra.