Sabato, 14 marzo 2015
Nicola Ponzio - Il mio nome nel tuo nome - Oèdipus 2014
Un libro di non facile approccio, che ha bisogno di uno sforzo
interpretativo non indifferente per essere accostato, e uno sforzo più
di ragione che di sentimento. Poichè con ogni evidenza è con la ragione
che è stato costruito da Ponzio, un lavoro che copre l'arco di un
decennio a riprova di una robusta idea o concetto che si ritrova nella
compatta sostanza del libro. Voglio dire che dieci-dodici anni non hanno
minimamente influito sulla varianza di stile, come forse avremmo potuto
aspettarci. Un libro, per così dire. perseguito tenacemente.
L'idea narrativa è quella di un dialogo, a distanza probabilmente di
luogo e di tempo, tra due entità il cui scambio comunicativo è segnato
graficamente dal corsivo e dal tondo alternati, come in certi
testi teatrali. Una delle quali, si scopre fin da subito, è il cadavere
di una donna che si sta lentamente decomponendo in un ambiente
acquatico; e l'altra è un soggetto non esattamente identificato (ma è
l'autore, il "mio" del titolo) il cui compito è "leggere" questo
disfacimento, forse interpretarlo, in senso aruspicino forse, o forse
meglio come "giacimento" di segni e di nessi, di nomi e di azioni, di
fenomeni e di epifenomeni. Ma naturalmente tutto ciò non è che il
livello superficiale (il pelo dell'acqua) del libro, come avverte nella
postfazione Giampiero Marano. Già il titolo dà qualche indicazione,
denotando un rispecchiamento (il mio nel tuo) di un
"nome", che però non è quello che ci identifica come persone, non è
l'identità, ma è il nome delle cose, quello di cui dobbiamo riprendere
possesso per tentare di "comprendere" il mondo visibile e invisibile.
Concezione, che come sappiamo, è biblicamente antropocentrica,
provenendo da Dio la potestà all'uomo di dare un nome alle cose. Nel
dialogo tra i due soggetti è la trasformazione, subita e osservata, che
costringe a riconsiderare i fenomeni, a riportare l'attenzione sulla
potenza descrittoria - e quindi sul potere - delle parole. Sono - quindi
- il linguaggio e forse la poesia i nuclei fondanti e gli oggetti veri
della complessa allegoria rappresentata dal libro, come ricorda Marano. E
prima di essi, ovviamente, la scrittura, che trova la sua ragione
d'essere, e la sua salvezza, secondo l'autore, solo nell'affondare con
coraggio (e freddezza) nelle viscere delle cose, reali o immaginarie,
come in quelle di un cadavere.
Certo, fin dal primo testo, non sembra che le "cose" debbano essere
rinominate, se si accetta la lezione suggerita da Marano. Ponzio fin dal
primo testo, affidato al corsivo del cadavere, stabilisce il privilegio
dei nomi e la signoria dell'autore su di essi. Il testo, infatti,
esordisce con una accuratissima sfilza di vocaboli attinenti al processo
post mortem: "saprofagi, lividi, antremi. / decremento del calore /
e del pH: ipostasi, fenoli / ammoniaca. / l'apparire annualmente di
foglie. // poi mi sono seduta. ho aspettato. [...]" Competenza
scientifica, che si dispiega ampiamente nel libro, in aggiunta - direi -
a necessità nominalistica, e si torna al potere definitorio (ma anche
costrittorio, incasellante) delle parole. Tuttavia è proprio da questo
processo, dice il cadavere, che "iniziavano i nomi". I nomi hanno una
vita successiva al processo, che va avanti inesorabile anche senza di
essi. Se il mondo fosse vuoto di nomi, la morte continuerebbe in
silenzio la sua opera distruttrice.
Ecco, questo è un altro punto. E cioè se davvero, anche dal punto di
vista dell'allegoria che Marano accredita al libro, quella descritta da
Ponzio sia davvero una "distruzione". Può apparire singolare che sia
proprio la figura femminile, quella che tradizionalmente e culturalmente
è generante e vivificante, ad essere morta. Escludendo una ipotesi di
misoginia, direi che forse è segno di una morte non vera, nel senso di
una ricostituzione degli elementi altrove, di una rigenerazione. I
testi, che sono salvo qualche eccezione tutti brevi, sono in effetti -
nella dinamica dialogica - uno scambio di prospettive, di
"informazioni", una dissoluzione / ricostituzione, un rilasciare /
raccogliere indizi. Cosa che è, in effetti, a ben pensarci, la capacità
modulante della sintassi. Al fondo c'è anche un'idea di risanamento della
parola, che la società attuale ha danneggiato e impoverito al pari
della natura, dell'ambiente, dei rapporti umani. E' - nelle intenzioni
di Ponzio - una "anamorfosi", come titola la prima delle cinque sezioni
del libro: un formare di nuovo, un riformare e insieme, tornando al
linguaggio scientifico, una rigenerazione spontanea di certi organismi.
Ma è anche, e Ponzio non può ignorarlo, una deformazione prospettica (v.
"Gli ambasciatori" di H. Holbein il Giovane QUI)
che restituisce all'osservatore (il voyeur, come Marano chiama il
"vivo" del libro, ma anche il lettore) la responsabilità di ricomporre
il senso. Un gioco ambizioso che non è detto che riesca a dare i frutti
sperati. E infatti Marano avverte opportunamente che proprietà
dell'allegoria "è l'impossibilità di stabilirne a priori l'esito
finale".
Le altre sezioni ampliano e svolgono questa analisi allegorica del
disfacimento e il suo tentativo di "riuso", secondo il principio -
potremmo dire - trasformazionale caro al Lavoisier del "nulla
si crea, nulla si distrugge". Il percorso è articolato e insieme
ricorsivo. Di "Anamorfosi" abbiamo detto; segue poi "Imago picta", una
sezione in cui appaiono per la prima volta nel libro testi - sempre
nell'ambito del dialogo tra i due soggetti - nei quali è il colore
protagonista di una ricerca di elementi basilari ("ontologici", dice
Marano) che legano le cose tra loro, ne avvicinano il senso, fanno da
comun denominatore, e sono insieme indici e simboli di vitalità e
decadimento (e mi viene da sorridere ricordando l'ammonimento di Leone
XIV: mortuorum picta imago non imprimatur et ridens non mortui sed hyeanae facies est,
che non si stampi immagine di morti a colori, l'espressione sorridente è
propria della iena non del morto). I colori naturalmente sono primari e
"saturano" alcuni dei testi più lunghi (sei quartine ciascuno), che
Marano definisce "cataloghi mantrici": il rosso, nelle parole della
morta: "...rosso arboreo, rosso cuore, rosso chimico. / rosso bacca,
rosso acceso, rosso agata. / rosso nube, rosso legno, rosso cimice.
[...]"; il giallo nelle parole dell'osservatore: "giallo siero,
giallo ocra, giallo pallido. / giallo ottone, giallo acceso, giallo
acido. / giallo cromo, giallo antere, giallo iride [...]", e a seguire,
nelle parole del cadavere, il verde. Mentre il blu si affaccia (dopo
essersi palesato con Ponzio altrove, come vedremo) solo nella sezione
"Dell'acqua", come si conviene, ancora con la "voce" della morta.
L'acqua ha una infinità di richiami simbolici, dal battesimo salvifico
all'amnio, ma qui direi che va nel senso doppio di liquido in cui
l'allegorico cadavere si dissolve e di "scrittura che fluisce" e
riordina le "caotiche correnti che ti corrompono". E' nella sezione
"L'urna e la luna" (il cui titolo, insieme all'acqua, non a caso mi
rammenta l'Ophelia di John Everett Millais (1852), capolavoro
della pittura preraffaellita) che lo spettro dei colori decade nel
grigio, nel nero e nel bianco, catalogati rispettivamente dal cadavere,
dall'osservatore e ancora dalla morta, e riferiti con ogni evidenza alla
notte. I colori però non sono l'unico oggetto di questi "cataloghi
mantrici": ancora in "Dell'acqua" Ponzio costruisce un elenco in venti
quartine delle duecentocinquantadue differenti specie (secondo il
conteggio di Marano) di Naviculae che "produttrici insieme ad
altre diatomee di quasi un quarto dell'ossigeno che respiriamo,
costituiscono l'origine, sempre diversa e sempre uguale a sé stessa, in
rapporto alla quale la morte e la dissoluzione della materia risultano
illusorie, inessenziali" (ancora Marano). E infine, nel penultimo testo
del libro, privo di metrica, Ponzio cataloga sostanze, minerali,
composti, liquidi, essere viventi, fenomeni della natura, elementi
(circa centottanta) tutti accomunati, come rileva Marano, dalla
proprietà della trasparenza. Come se tutta l'odissea del cadavere e
della sua distruzione abbia condotto finalmente, sempre secondo Marano, a
rivedere la luce, "dall'amnio alla cromosfera". Il testo appartiene
all'ultima sezione, titolata "Agnizioni", che, come noto, rimanda
direttamente a un topos letterario, al "riconoscimento" (forse dell'
"identità" dell'allegorico cadavere), alla "svolta" nel percorso
narrativo.
Vediamo di tirare qualche somma, dopo questo lungo resoconto. Mi pare
evidente che l'impianto dell'opera è concettuale, se non ideologico,
termine sovrapponibile che usa anche Marano. E' poesia di ricerca,
certo, e Ponzio appartiene indiscutibilmente a quest'area, tanto
eterogenea quanto criticamente indefinita, e in particolare a quella
linea il cui oggetto principale se non unico è il linguaggio
"spogliato", depotenziato di parecchie delle funzioni che ad esso si
assegnano tradizionalmente (da Jakobson in poi) e messo spesso in una
condizione metalinguistica, di mezzo che indaga sul mezzo. Un
linguaggio il cui senso va ricercato "altrove", il cui carattere
evocativo è tutto "interno", nel suono che produce (spesso, come nei
cataloghi, mono-tonale come certe musiche primitive) o nella
"ossessione" che trasmette, un linguaggio che diventa emblema e icona
della criticità e della difficoltà di comprendere il mondo. Diventa
allegoria di sé stesso. E' ovvio che il libro, che offre anzi molti
spunti di interesse e di riflessione, non è riducibile a questo, ma la
lettura è anche un gioco di consonanze, e leggendo quest'opera mi sono
tornate alla mente un paio di cose. La prima riguarda un altro libro,
che ho molto apprezzato, ovvero "Serie del ritorno" di Stefano Massari
(v. QUI):
anche lì una struttura dialogica, una contemplazione e un dialogo con
la morte, anche lì segnati graficamente dall' alternanza tra corsivo e
tondo, ma con una ben diversa cognizione del dolore come componente
ineludibile dell'umano, e non solo perché c'è un "io" presente, di uno
che - come scrivevo - si è seduto sulla soglia, quella estrema. Per
sintetizzare, una diversa temperatura. Non si tratta di stabilire
confronti, del tutto inutili. Ma il ricordo mi è servito per capire
altro, ad esempio un certo senso di freddezza che il libro di
Ponzio mi ha restituito, solo a tratti mitigato nei testi in cui l'osservatore sembra interiorizzare il pensiero, rimeditare la parole della morta. Che viceversa è in pratica quella che, paradossalmente, tinge le
sue parole di qualche emotività, di qualche accento lirico, se non
elegiaco, come un rimpianto. Forse sbaglio, forse è un'impressione più da lettore che da
critico (cosa che tra l'altro non sono) ma a me pare che dall'altra
parte, dalla parte del voyeur/autore (e quindi una cosa voluta) ci sia
un osservatore fin troppo distaccato rispetto al "dramma", qualsiasi
esso metaforicamente sia. In realtà non c'è "parentela" (capiamoci, non
parlo di anagrafe) tra queste due voci, come se il vivo "ipotizzasse"
sulle cose del cadavere, come un anatomopatologo, termine che anche
Marano utilizza (e infatti quasi subito si legge, parole
dell'osservatore: "s'ingenera l'effetto di una lente / se si esamina il
perimetro: lieviti, lave / larve intorpidite dalla brina". Il perimetro,
come sa ogni amante di gialli, è la griglia che incasella la scena del
crimine). L'effetto che a me personalmente ritorna è una certa sensazione di latitanza di empatia, o meglio (l'etimo aiuta
sempre) simpateticità verso un oggetto che - a questo punto - è
post-umano, ma con poco Nietzsche. E forse è necessario che sia così,
perchè l'oggetto non è nemmeno tale, il cadavere è una pura finzione
scenica, esattamente come l'allegoria su cui ruota tutto l'intervento di
Marano. Sarà il cadavere della società, o dell'arte, o della lingua, ma
il punto è chi è l'alter di questo, con quale "dolore" compartecipa
alla tragedia. Ammetto che forse non è lecito aspettarsi queste cose da
un'opera che ho definito concettuale, in cui cioè il rapporto tra
l'autore e la sua materia è - per così dire - naturalmente
"anaffettivo", marcato dalla distanza.
E preciso anche che queste considerazioni non investono la particolare
estetica di questa opera che certamente ha il suo fascino e la sua
importanza.
L'altra cosa che mi è tornata in mente e che credo interessante, invece
riguarda l'airone de "Il giardiniere contro il becchino" di Antonio
Porta, che risale a un trentennio fa: "A questo punto, Airone / mi
frughi nel ventre / e trovi umida sabbia e / piccole uova di rettile, /
il tempo, il poema finisce / in punta di lingua (...)". Dice Niva
Lorenzini: "retto per intero sulla struttura contrappuntistica di un io /
tu che si rivela voce sdoppiata del poeta-airone protagonista delle
segmentate sequenze, mette direttamente in scena la scansione del
nascere e del morire, associandola alle aree cromatiche della
trasparenza e dell'opacità". Ecco che si torna a una serie di elementi
(sdoppiamento, colori, trasparenze, vita/morte ecc.) del libro di cui
stiamo parlando. Non so se questo è un ascendente, ma è probabile.
Curiosamente, è possibile ritrovare gli aironi, accostati a termini
tecnici cari a Ponzio, in un interessante lavoro del 2007, "Esercizi del
rischio" (v. QUI): "Isomeri – arenaria / sottile impastata con l’acqua / specchiante due flebili aironi". Questi
elementi tuttavia risultano, anche nel corpo della raccolta, per lo più
"assiepati" nei cataloghi. Che certo, d'accordo con Marano, assumono un
ruolo importante, ma possono anche apparire in qualche modo - per così
dire - "innestati".
I cataloghi, che dal punto di vista del discorso che facevamo sulla
scrittura di ricerca sono esemplari, lo sono però anche in termini di
ascendenti letterari. I quali certo esistono, e forse sono quelli nobili
che cita Marano, da Omero a Dante alla Rosselli fino ai Veda, ma tra i
quali bisogna ricercare lo stesso Ponzio. E' davvero probabile che il testo che elenca le duecentocinquantadue Naviculae sia ispirato al Catalogo delle navi
del secondo libro dell'Iliade, come osserva acutamente Marano. Ma i
"cataloghi mantrici" dei colori e degli elementi provengono direttamente
da una certa ossessione poetica che Ponzio ha espresso più volte
nell'ambito della poesia di ricerca (continuo ad usare forse
impropriamente questo termine). Anche solo limitandosi a quanto è
possibile reperire in rete, si può trovare il blu in un testo del 2013
(v. QUI), il bianco in uno del 2011 QUI,
(dove forse l'ispirazione è extraletteraria: Yves Klein, Piero Manzoni, tanto per
citare due nomi che certo Nicola conosce bene), un altro interessante
testo catalogatorio, questa volta dedicato al tempo, del 2012 (v. QUI). Tutti testi o modelli di testi che hanno trovato una ricollocazione, una rimodulazione, un "innesto" come ho detto prima, nell'opera.
Insomma un libro complesso, con non pochi spigoli, un libro che non
consente molte vie intermedie, anche per quanto riguarda il suo
apprezzamento. Uno di quei libri che se fosse al centro di un dibattito
(e non è detto che non lo sarà) sarebbe definito controverso. (g.c.)
da Anamorfosi
saprofagi, lividi, antreni.
decremento del calore
e del pH: ipostasi, fenoli
ammoniaca.
l'apparire annualmente di foglie.
poi mi sono seduta. ho aspettato.
ho aspettato che il buio
venisse da me.
traiettorie di api, metano,
autolisi.
le radici vicine s'impiantano nelle ossa.
Tarantula Nebula, ortiche
orneblenda.
iniziavano i nomi, i fenomeni
e le sembianze, — l'invisibile etc.
combustioni solari
sulle vertebre,
mentre incedi traballante tra le talpe.
penuria alla penombra, acidità
disfacimenti minuziosi delle gonadi
nel giubilo ipogeo.
immanenze boschive.
cellule alterate dalla crescita
precoce delle ife, —
dai sali che ne limitano il peso.
la dorsale del cielo ti separa
dalla luce dell'estate,
attraversandoti la schiena rosicchiata.
soffia il föhn nella tibia
forata affinandone un flauto.
non mi sentono più.
le mani hanno speso i colori
donandoli al mirto.
non mi toccano più.
testimoniano il peso del mio mutamento
brandelli di lino.
dove inizia il guard-rail.
vessilli scoloriti sul terrapieno:
due forcine di tartaruga, il rossetto
e l'eyeliner — una fiala di essenze.
l'inventario precede l'identità.
ecco la teca col ramarro, l'occipite
intarsiato.
il bosco e la nave stessa, l'aurora
d'intorno
come se veleggiasse, che tutto permea.
è avvenuto così,
umbra solis, — nonostante il quadrante
terrestre indicasse altre vite.
fasi e rifioriture oltre le frasi cancellate
da Imago picta
vicina alla stele vacilla
una debole fiamma.
ha lo stelo incurvato
dal gelo, ogni petalo inerte.
aculei inoffensivi come stelle.
schiarirà le mie unghie
annerite.
le misere ghiandole esposte
agli artigli, all'inedia dei rettili
scalderà le mie dita
ghiacciate,
ricoperte di ghiande.
imenotteri e trine
di brina oltre l'area di transito.
appunti del Cretaceo
sulle carici. Tir che tratteggiano
il margine intorno al perimetro.
era lì che accrescevi
i tuoi limiti, —
con la t-shirt che traspariva
tra gli sfagni
amalgamandosi alla nafta.
alle covate brulicanti.
nel sudario dì luce,
cosa rifiorisce
dalla morte, —
dal ragno che disegna
l'equilibrio,
il filo iridescente sull'insetto?
cosa rifiorisce
dall'involucro
che azzarda un alfabeto?
un sentiero di tortore e ortiche
lambiva il torrente.
sii come un seme — entra.
unisciti alla terra se vuoi scrivere.
l'ombra dei salici ampliava
lo spazio venando il nevischio.
il muschio appiccicato sul granito.
da Dell'acqua
nel catino di zinco sbiancato
galleggia una chiazza
oleosa, un residuo di resina.
sono accanto al pontile.
sto lavando i miei piedi
il larice specchia i suoi rami
nell'acqua increspata.
non c'è ancora nessuno.
soltanto un cielo cavo
che si stinge.
tuberi che stringono
le tube rimediandone una lingua.
manifestano la loro esuberanza.
meno chiare in luogo del porporino,
ora in cerchio, ora in linea
verso altre direzioni.
come avviene nella fasi dell'erranza.
idiomi delle cose materiali
così comparse: Sole a confine
del naufragio, — membrane,
flos aquae.
osmosi nelle assi consumate
dall'impulso ondulatorio. — cumulo
blu che deterge i tuoi lividi,
capovolgendo la sintassi.
non vale la pena di mantenere
distinzioni fra un nome e l'altro.
il mutamento è la condizione
necessaria alla persistenza,
nel tuo modo di vita.
cos 'è questo candore nella melma.
questo fiore che inganna
il cantore fuorviandone il compito ?
ti vedo dall'argine opaco
che limita l'isola, sento il sale
sugli occhi. il mio corpo imitare
la terra con nuove materie.
immobile nell'acqua della fiamma.
caotiche correnti ti corrompono
nel gelo delle chiuse, —
tra flutti che s'impastano
col nylon. con le lattine
d'alluminio i copertoni.
vibratile trasudi dai tuoi abiti
petrolio da lanterna.
e ora voli nel fresco
dei salici insieme alla Terra,
cercando di afferrare
le parole come fossero libellule.
parvenze che si specchiano
nell'acqua.
nella scrittura che fluisce.
da L'urna e la luna
lunula, valvola, tuorlo e bisillaba.
magma, cerniera, molecola
e vulva. trottola, enigma,
ghirlanda e cervice. sfera
errabonda, albedo e matrice. malva
corolla, Selene ed ovario. bussola
prua, eone e diatomea. cenere
assiolo, pupilla e bivalve. femmina
spora, albume ed aureola.
lucciola perla, clitoride e cellula. mix
di materie che culla e germoglia.
acino bocca, Navicula e arnia.
nottola, arnica, alveolo ed anello. rotta
notturna, falena e baccello. cruna,
nottambula, ovulo e specchio.
capsula, maschera, epìstola e urna.
cardine, origine, botola e iride.
ciclo, dimora, gibbosa lanterna.
pagina, sposa, vocabolo e ala. globulo,
falda, vestale e semenza.
argine, opale, placenta e scintilla.
un alone contorna i capelli
imbrattati d'argilla,
mentre anelo a parlarti
del cielo che preme sugli aceri.
sono freddi i tuoi piedi.
l'anello di ortiche intorno all'ulna
scheggiata asserisce la Luna.
la tua tela di nomi a tutela dell'urna.
da Agnizioni
spazi in tentativi di unità,
date le locuzioni, le mucose
sul muschio, — nella crescente acidità
dell'uvaspina che scompagina le ovaie.
ecco il corpo, il telaio: l'agnizione
dettata dall'aporia,
nel processo che segue.
generando all'interno altro seme, vigore
e dissidi. vere necrofanie,
se fiorisce nell'utero.
nell'olio che tornava a colare
impregnando i colori, — l'icona
residua in funzione di un nome, di un'alba
più fertile.
fonte viva nella quale si lava.
presaghe di sventura queste viscere
gettate alla rinfusa.
segni divinati da un assiolo
tramutatosi in aruspice.
...e ogni stella che transita è un grano
di sale, una chiazza di vino che origina
un nome, una semina un volto.
sull'ara circoscritta dalle ortiche.
mente che mente
e poi s'inluoga.
deriva dalla stessa ambiguità
delle parole
i suoi legami con il senso.
la sua pluralità, la privazione, —
nel cuore di dolenti geometrie
della ragione.
finiva così la stagione invernale.
la fedeltà delle sostanze.
premono il grembo allestendo un amplesso.
mi tramuto in ortica.
circostanza prevista da un modello teorico.
gusci, —genealogie dell'universo.
un cieco ti guida mostrando il dipìnto.
sorprendente scoperta della notte.
fedele alle matrici più spietate.
nella luce che cela ogni traccia.
sequenziamento del linguaggio.
buio simultaneo alla mia veglia.
trasparenza, parole, orditura.
tempo che diventa infiorescenza.
|