Giovedì, 3 luglio 2014
Michele Ortore - Buonanotte occhi di Elsa - Vydia Editore 2014
I testi chi qui pubblico sono tratti dall'ultimo libro di Michele Ortore e
rappresentano, a mio avviso, la parte più significativa e più convincente di
una raccolta, a tutti gli effetti un'opera prima, che appare talvolta
discontinua, o per lo stile o per il registro, di una discontinuità che
non è certo addebitabile soltanto al variare della materia trattata o
della ispirazione, e quindi della "tonalità" del canto, o alle semplici
eco - nella scrittura - delle letture dell'autore. Sembra piuttosto
ascrivibile a una ricerca di una originalità propria e di una voce "atta
allo scopo" (e la ricerca è sempre apprezzabile), ad una curiosità di
appassionato che svaria da Ginsberg a Fortini a Rilke alle avanguardie
nostrane passando per l'Aragon a cui allude il titolo (la Elsa è la
Triolet musa e compagna del poeta francese) e che sembra lasciare a
volte il suo persistente alone (un esempio, Si può pensare dopo le idee:
"Ci siamo sciolti al chiaro di luna / nel petrolio ostiense salato /
come teneri barbari senza domande, invasioni / da vivere, vini da bere
nei teschi; / mani e polsi e vertebre stellate / gocce di latte lungo la
schiena / e porte vuote del senso da aprire con diamanti / nelle notti
del Circo Massimo [...]", insomma, non solo Ginsberg ma forse anche
Blake, no?). Ma il problema - ammesso che sia tale - si esaurisce qui,
ed è comunque del tutto aggirabile, dato che non si tratta nemmeno di
calchi o manierismi, ma - non raramente - di un gioco ricombinatorio di
marca postmoderna (uso a malincuore questo aggettivo, talmente logoro),
forse consapevole forse no e non sempre azzeccato (ma M.G. Calandrone
nella prefazione afferma: "Ecco dunque il lavoro segreto di questa
poesia: studiare, adoperare le parole in funzione di numeri primi e
ennesime potenze e, in questo, disfarsi del senso semantico in direzione
del ben edificare, quasi che Ortore provasse e riprovasse allo scoperto
le sue formule"). Ecco, giustamente, "provando e riprovando". Ovvero il
motto della scuola galileana, ove il "riprovare" non è - solo - il
provare di nuovo, ma anche il rifiuto del non significativo, il vaglio
critico, o magari autocritico. E' nello scarto, mi sento di dire a
Michele, cioè nella consapevolezza della inefficienza o del successo di
una soluzione che il poetare, come la scienza, raggiunge la sua luce,
ben oltre il "ben edificare" che dice Calandrone. Come ben sapeva T.S.
Eliot, confidando nel suo "miglior fabbro".
Le poesie che qui ripropongo, da altro punto di vista, raggiungono bene
una compiutezza espressiva, anche originale, uno stile proprio, ma
soprattutto alcune delle qualità che a mio avviso, come ho avuto modo di
scrivere altrove, definiscono una buona poesia. Sono cioè le poesie che
più sembrano trasmettere il coinvolgimento personale, l'esperienza
sentimentale, il tempo vissuto, , l'engagement, la capacità di
comprendersi e di approfondire questa comprensione, controllarla e darle
forma, farsi tramite di interrogazioni che non riguardano - o non
riguardano più, una volta scritte - solo l'autore, l'incertezza e il
dubbio, il senso di precarietà o l'ansia della perdita che accompagnano
anche i momenti più felici ma temperati però da una solido ottimismo
della parola, della sua capacità se non di salvare il salvabile (sia
esso il bene o il semplice ricordo che non si vorrebbe vedere
dissolvere) almeno di darne una suggestiva immagine latente. Ed anche
quei testi che, allorquando manipolano una materia non strettamente
sentimentale o affettiva come un pensiero politico o sociale o il
mutevole orizzonte della natura o un moto di coscienza, lo fanno con
inventiva, con capacità di giocare su più piani di senso (v. Il cappello di Talete o Polvere di statue o Nuvole rosse in Birmania)
o quelli in cui anche i riferimenti ad altre culture o alla cronaca
vengono filtrati da una sensibilità tutta "nostrana", anche ironica,
come in In memoriam Edoardo Sanguineti. Il mondo di Ortore si
presenta vario e articolato, certo non facile e certamente con i suoi
dolori o smarrimenti, ma direi privo di quel senso di catastrofe
incombente che anima molta altra poesia di giovani. C'è in definitiva
una riserva di speranza, molto probabilmente alimentata non solo come
dicevo prima da una fede nella parola e nel suo potenziale poetico, ma
anche da un senso, molto larvatamente espresso ma presente, di futuro.
Anche nel senso di una poesia che abbia altri "tempi" (e una sua
proiezione in avanti), altre cose da dire (quelle che esplora Michele o
altre) al di là di quel costante "presente" di cui spesso mi sono
rammaricato. Una poesia in cui non c'è addio, ma semmai un arrivederci,
una "buonanotte", in cui anche il confronto con la morte non è un
rammaricato ripiegamento ma è un disvelamento, un andare oltre i
"paraventi", la possibilità di un diverso ma non meno pregnante dialogo.
In questo senso parlavo di sentimento del futuro, di una attesa
inesausta, quasi religiosa, per la quale si può scrivere a chi non c'è più (nella bella e
dolente Dead line): "Tu rimani invisibile
nel tempo, sebbene come ho detto / lo sia sempre stata, e non slacciarti
il reggiseno nel frattempo / e aspetta se c'è da aspettare, respira
quest'assenza / che ora, come una volta, abbiamo in comune". (g.c.)
da Amare i paraventi
Amare i paraventi
Forse, come in certi proverbi, l'anima è quel riflesso smerigliato, di pomeriggi avvolti in mèsse e consegnati ai tiepidi granai del ritorno, della permanenza, dell'alba rossa fra le spighe. E a volte un proverbio, anche se drenato nei vetri delle ampolle e nelle pance dei filosofi, nelle carte fragili e nei canti dimenticabili, si dimostra vero:
quando mi svegli dalla vita e guardi, sei la nuotatrice cieca che affresca nell'acqua i proverbi più veri, volti che restano costellazioni, coralli intensi oltre lo scoglio
da Favole al telefono
Dead line
Ti ho scritto un sms, anche se eri morta non mi sono chiesto se il gesto fosse eccessivamente lirico non ho consultato le lettere di rilke prima di farlo Me l'hanno detto sull'aereo eri con la gamba che ho baciato attorta sul bracciolo faceva tre giri ed era bruciata io però l'avevo baciata, l'ho baciata, la bacio io e tu e anche se sei morta ti ho scritto un sms mi dico com'era poetico che ci piacesse un gruppo che si chiamava come una fase del sonno, chissà se li senti anche ora, nightswimming, flightswimming avrai fatto mentre cadevi anzi no perché c'era la tua gamba attorta ed era l'àncora forse per tenerti ferma. Il clic dei tendini.
Dovevo essere io la tua ancora, non farti non farti partire su quei mulatti di lamiera che vogliono tenere il cielo e la terra insieme, come se nel diviso noi potessimo raccontare una storia, e invece no, si sta zitti, si spalancano le tempie e si trascina il guscio dovevi accettare le mie preghiere di silenzio, quando ti chiamavo e non sentivi e bevevi un bicchiere d'acqua. Dovevo essere lì nella mascherina del respiro l'ossigeno non sutura la gravità e la tua gamba io l'ho baciata ma poi era attorta e c'era solo lei ho scritto un sms a quello che di te è rimasto invisibile sebbene sappia che sei sempre stata tutta invisibile se ti mostravi era solo una copertura, uno spionaggio esistenziale per farmi capire meglio chi ero. Ti ho chiesto quando torni? tutto ok? manca poco? e poi mi smuovo seccato in questo marmo rimpiango quel fuoco che potevo scegliere mi avrebbe lasciato leggero e magari ieri ero in una delle nuvole e il resto invisibile di te mi sfiorava e stava di nuovo con la polvere e io senza braccia tenevo te senza gamba e invece di due metà della mela eravamo due metà morsicate ma incastrate lo stesso e così oggi non dovevo scriverti. Però se esco ti cerco, rimedio ai miei errori, o magari mi rispondi, o magari scatta quella cosa del limite degli anni e mi bruciano e allora ti scrivo un altro sms non per notizie vaghe ma per il ritrovo, l'appuntamento nei cambi di pressione che muovono il vento. Tu rimani invisibile nel tempo, sebbene come ho detto lo sia sempre stata, e non slacciarti il reggiseno nel frattempo e aspetta se c'è da aspettare, respira quest'assenza che ora, come una volta, abbiamo in comune
Il cappello di Talete
Serve molto coraggio per sfilarsi il cappello. Se solo potessi poggiarlo in mano, lasciarmi mordere dalle tiritere notturne, il fango bianco degli istinti, cantare con la querula voce dei sordi, che parlano di sé coi versi, perché non hanno imparato a difendersi parlando degli altri. Mangiami rorida di te, neve sporca e a forma di gioco. Sia sudiciume ogni parte di me, e solo allora potrò, senza ipocrisia, poggiare di nuovo il cappello in testa. Solo allora potrò donarti un Talete sporco.
Si prende cura di me
Imitare l'apertura alare di chi fra le dita stringe una rondine, dotarla di eliche, grasso o reattori, a cavallo dell'aereo degli inetti a un passo dall'asfalto salvare il suicida, e scoprire l'America, prima dei Vichinghi dare al comunismo una chance atlantica, per ritrovarsi poi nel millenovecentocinquanta con un Krusciov liberista, un'Ungheria ancora ribelle, un'Italia sempre a metà, Stakanov che sforna trade-mark, e di nuovo tutti nel freezer. Ma è questo sognare, e chi per amore comprende la morte, sono queste cose, che si prendono cura di me.
Polvere di statue
Erano mille petali infiammati: in ognuno l'espressione di un ricordo, il socchiuso sguardo delle teche quando ancora vuote si riempiono di storia di speranze veloci e inspiegate e non ancora fossili, code di rettili. Ruvidi e dolciastri, come la resina sui tronchi, quei ragazzi abolivano le pause dei giudizi, i secondi vuoti della razionalità. Conoscevano i selciati del cielo, se mentre il corteo occupava il ministero due di loro si amavano sui tetti. Statistiche e idee, giornali strappati, giornali fumati.
E la polvere delle statue, al suono di flauti invecchiati per rinascere, non si ferma, sgrana i nasi simmetrici e amputa le perfezioni di braccia e gambe,
cade nell'acqua e forse piove, lascia il corpo perfetto ed è nell'aria:
fermatevi, non toccate più il suolo e nei mille silenzi di un attimo, siate fotografie di voi vivi, un angolo piegato e Dio dietro, solo per un attimo, solo se nell'attimo.
Nuvole rosse in Birmania
Vollero pescarci, con l'amo di un airbag, il comodo addio alla partecipazione: “Arrivederci, Bandiera Rossa!”. Ma quel colore non tramonta nei pavesi e non si annoda a un paio di baffi o a un pugno chiuso, quel colore albeggia nel capriccio, nell'improvvisazione del pianista, nella ventosità di un saio indiano: il rosso è il colore del dolore, e del riscatto, e come ogni stirpe dall'inizio dei secoli, balleremo sui tacchi il controtempo di una ginestra ribelle.
Treni pontini
Il codice dei binari raccontava steso sull'agro verde esponenziale i filamenti obliqui degli acquedotti come alberi secchi di limoni come secche spore ed incapaci di vivere la resilienza senza commozione è fuori tempo questo sentimento nella folla dei glitch un pizzicato di viola
ma quando ho creduto di sognare e ho aperto invece gli occhi il rachide delle spighe traversava mosso dal vento il finestrino per un momento non ho conosciuto non ho avuto parole o tetraedri nelle idee così nella lingua di ogni nessuno le ali del frumento erano pale di mulino
sono state esattamente pale di mulino non resterà nulla ma era la mia verità del mattino vi prego non voglio chiedermi ogni volta se fosse banale ricordarla
In memoriam Edoardo Sanguineti
Scivola sulle reni chiare americane la goccia di cloro come un limo da bottiglia, si posa e cade sul legamento anteriore di una caviglia che cigola in versi, accumulati in bicchierini, rotolati in fogliettini, stravolti di bellezza così sporca da rivoltarsi immacolata, mentre sale la scaletta volge un Sutra al girasole; Allen Ginsberg; nudo come solo un comunista in America.
E la tua cravatta, rossa, da poeta d'avanguardia lucidamente lo guarda: è un attimo di infinito, composto, ma leggermente scomposto, come il tuo naso impertinente e fermo, una dottrina Breznev ospitata in viso. Accanto, il buffet: mastichi qualche dubbio, e poi un tramezzino.
“Le nostre due anime, in un corpo solo: fu questo, il miracolo di Dante!”
da Corde nel vuoto
Il punto
Perché io ti rivedrò, nell'antica abitudine che fa la luce intermittente, levata e proclive al nome: nominata e allevata come pesca ruzzolante sulle onde salate, quando l'edera schiude il colore e mastica il sole all'orizzonte. Prima che nuvole e mare formino cerchio un punto respira più a lungo e sospende la continuità, un dubbio di grillo sull'erba, grammo liso di iuta, estatica concentrazione meccanica, e vita statica, sospira un nuovo universo, sospeso il punto scomparso il cerchio si salda, il punto
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