Martedì, 9 luglio 2013
Torno volentieri su Lorenzo Calogero e sulla sua poesia, dopo il post dello scorso Aprile (v. QUI), segnalando nel contempo che la rivista "Poesia", nel numero di Giugno 2013, dedica a Calogero un articolo, con un saggio di Amelia Rosselli e un inedito, "Avaro nel tuo pensiero" (che tuttavia A. Rosselli aveva in parte già pubblicato in "Tabula" n.3-4, Marzo 1980, e che trovate anche qui parzialmente riprodotto). La sua poesia, sviluppatasi lungo trent'anni di incessante scrittura, sempre più era andata caratterizzandosi come luogo di negazione e antitesi del reale. L'operazione calogeriana è in tal senso "totale risoluzione della biografia nel testo" (R. Jacobbi), ovvero redenzione del proprio silenzio di vita in luogo di parola, della propria sconfitta biografica in felicità creativa. Più la sua vita assume il senso della chiusura e dell'isolamento, più la sua poesia ambisce a uno statuto di assolutezza, apertura, viaggio metafisico. L'universo che essa definisce è puramente linguistico; il suo tema unico e ossessivo è il sogno, la scrittura, l'altrove, testualizzati in un complesso e per nulla arbitrario - come qualcuno ha detto - sistema di analogie e metafore. La poesia calogeriana si nega ad ogni referenzialità, tematizzando se stessa in una fitta trama di stilemi ritornanti e di simboli codificabili. "Città fantastica", "sogno", "favola", "meraviglia", "lontananza", essa si delinea in un geometrismo evanescente in continuo movimento, secondo la rappresentazione visiva dell'arabesco. Le essenze che la abitano sono "fili", "raggi", "larve", "voli", "lampi". Il suo tempo corrisponde all'effimero, all'infinitesimo ("e dell'uragano nulla resta"); tutto è "paurosa fuga", "viavai", "marea di larve". Non solo vi è negato il permanere, la traccia, la consistenza, ma anche la visibilità: solo "chi ebbe cigli chiusi e alla brezza / fu sveglio", può accedervi:
Forse sono in sonno e in sonno sonoro: una città che naviga a stormo e di là non vede nessuno (Op. poetiche, I, 344)
È un universo metafisico, abitato da suoni che deambulano in una allucinata vaganza — il movimento che ha come fine se stesso, il proprio smarrirsi:
e tremano vane le onde, le parole il tuo regno e per questa salsedine sulla siepe acquatica. (Op. poetiche, I, 379)
Le parole, i suoni, le essenze del linguaggio, sono ricondotte ad uno statuto di passaggio, non riempiono il vuoto, non incidono sul reale, sono totalmente e irredimibilmente immateriali :
Io dico che questa voce, la voce della poesia, si ripete per questi chiari spazi stellari e riempie di sé questo firmamento delle cose. (Parole del tempo, pag. 69)
Gli estri, le cose esatte le monotone cose poi, ma questo puoi estendere alle nuvole, quando, rarefatto il tempo, il vuoto è un rudere di passaggio. (Op. poetiche, II, 78)
La dolorosa separatezza di questo universo linguistico che è la poesia di Calogero, va approfondendosi nel corso della diacronia delle opere. Un libro centrale come Sogno più non ricordo, scritto dal 1956 al 1958, sancisce la perdita anche dell'ultimo referente di questa poesia, la memoria, dematerializzante ed orfica; il sogno è ormai definitivamente autopropulsivo:
Dopo la meraviglia passò simile a se stesso un misterioso accordo un ricordo. (Op. poetiche, I, 305)
A partire da Come in dittici, l'universo onirico viene ad essere simbolizzato da una evanescente figura femminile, che motiva una nuova frequenza allocutoria, un serrato e impossibile tentativo dialogico, una intensa problematica della duplicità. L'io tenta di risolversi nella scrittura, di completare la propria derealizzazione. L'ultima opera, i Quaderni di Villa Nuccia, segna l'approdo di questo processo di azzeramento del reale e ipertrofia del linguaggio, di annullamento dell'io empirico e assolutizzazione dell'io poetico:
ma forse perduto nel limo mi basta quest'aria che s'arroventa ai cirri di settembre. Con che rotondo occhio la luna mi guarda! (Op. poetiche, I, 397)
(...) Ma ora liquido non posso non posso camminare (Op.poetiche, I, 347)
Le stesse modalità della scrittura poetica calogeriana conferiscono al testo una valenza di vanificazione. La poesia di Calogero, secondo una propria ascendenza nella koiné orfica novecentesca, privilegia il livello della fonicità, tanto che spesso la selezione lessicale avviene per "verbigenerazione", ovvero per geminazione e suggestione fonetica. Ad essa sottostà anche la sintassi, tipicamente accumulativa e ridondante, ipotattica e labirintica. La stessa regola metrica viene sacrificata alle ragioni ritmiche, alla necessità di creare, attraverso allitterazioni, accenti, vuoti, onomatopee, un'area di vaganza fonetica che vanifichi ogni referenzialità. Così questo calogeriano "gioco dell'oscurità" viene ad essere semantizzato, individuato come intima necessità di una poesia di inaudita radicalità e modernità. (da una nota di Caterina Verbaro)
da Come in dittici
So come sui rami...
So come sui rami l'arancio si fa d'oro e, stringendosi languida alla vita, strana la tua presenza accanto, inabitata l'inesistenza odo. Sleghi scivoli. Non so quale certezza a l'astrattezza di visi singoli di amici si propone. Lontanamente si rompe il pane, si detergono fili d'erba. Luoghi, lunghe file di fughe fredde di tenebre divengono
Erano gli alberi del mattino
Erano gli alberi del mattino più stridenti, più odorosi della scrittura. Io li guardo liquefatto perché tace la terra o è pura. Poi si volge la sagoma dell'antico declino torbido della vita nella luna. Ruvida non ritorna indietro più una ruga. È giunta all'apparato che la sfiora. Con lugubri magie una luce è smussa, smussa quanto la siepe è dura.
La lievità commosse le cose
La lievità commosse le cose. Nell'infingardo spazio l'acredine scorre, fitto nudo nodo di gioia, e appena mosse le vene e le onde. Pure appariva tardivamente nei giardini entro una foglia una nuda sommità dell'essere a poco a poco opaca che si fa nostra e un fiato era vero uno era finto smosso dal velo della memoria in un brivido che ti ricorda.
da Quaderni di Villa Nuccia
XII
...Era la prima cosa ritrovata mobile, gentile come una banderuola o una donna che va sola, dalla gonna corta, pazza.
E non portavano un primo palpito o un sospiro le viole.
Questo lembo era rapito, rapido di sole.
XXXII
Tu eri così vicina alla quiete tua nella pace ferma cittadina che ha la sua lontananza nella nube accesa.
Sapevo umiliarmi e stare in continua attesa da quello che meglio dici da questi scarni rami, e fu una vita cortissima, una foresta vastissima quello che tu solevi additarmi; e fu umile quel che resta.
Ma si sta meglio dove la vita non è più una seta a parte e tu non potevi più obliarmi, per quello che solevi novellarmi.
E la fonte è misera: è una parte della nostra parte.
CXLI
ma mio piccolo quadrangolo, erba, rose e fiori, un tappeto è da lungi sul quadrangolo del tappeto dell'erba franata. E tu mia piccola rosa iddio. Forse volgarmente si accende questa mia vita. Tu sei insistentemente...
da Ma questo
La luna, il fiore del limone
La luna, il fiore del limone e il lume, lievi, un'incertezza de le labbra, la sabbia, la quiete della sera levigata, fosco punto in alto il paese del tuo candore e, ratta rapita al piede, precipitata ai passi, come i fari il colore dell'avvenire, la salvia. Non puoi cadere nel forte odore dei parapetti e come la malva cedere. Assopiti sono i sogni dei poeti. Il canto cieco riemerge o ti angustierai di settembre, la pallida guancia su la palpebra tanto riattesa; e scivola e lungo e glauco era il sentiero.
Il suono a l'altezza dei riquadri
Il suono a l'altezza dei riquadri e questo inarcarsi al sommo, rivolte in alto impietosite le mani. Le madri ebbero ali di sonno e volto di rugiade, concavi scarlatti veli d'aria i piani.
E questo musicale non essere quando passo, quando tocco, quando sfioro ragionevolmente rivolto alle nuvole.
Trasvola inesperta l'anima. Cave onde fluiscono da canne nella nebbia che s'annoia e, persino quando beltà nuda al suo fianco dal suo buio s'arrende, isole verdi appaiono appena presaga realtà di sogno.
In pampinee turbe
In pampinee turbe la piaggia sorridente, l'onda del sole ravvolta in purpurea effigie di schiere nascenti o nascosta, sale in voli trepidi d'aria o sconvolta.
O mutilate ombre
O mutilate ombre, denso silenzio ch'era mio dove l'erba prima della vita rara si colse, e si frastagliarono i giorni e non furono più che un pallido ritorno delle cose prime. Così fu stanca l'anima, i tuoi sorrisi immensi non specchiarono più il mio tremore, questa cosa scialba, opaca, corrosa dal mio amore che fa bianca un'ala.
da Avaro nel tuo pensiero
L'aria grigia esterreffatta
L'aria grigia esterreffatta nel solo suo volo si trattiene e non so rupe o paesaggio così prossimo alla morte come quello di essere solo nella nudità delle sue vene, nella densità della terra in cui erro da sempre. So molte cose ma con prova e con gioia. L'erba non mormora più alla triste sua radice, mossa dalla velocità aerea del sonno che dentro se stesso già si serra.
L'aria non può più muoversi o un uomo non è più solo. Sempre più dentro a se stesso innanzi a uno specchio solo informe opaco si difende.
Un astro era di puro vetro, un nastro era d'argento.
Sopra mormorii quadrati
Sopra mormorii quadrati, di onda in onda, sopra una vetta antica perduta, di gennaio, i tuoi sogni sono oggi esigui. Nubi dense appaiono e non fu più che sogno, una vanità che lievemente oscilla dentro le tue mani modiche. Un sapore esse avevano di neve che teneramente internamente brilla.
Il tempo della inumidita distanza
Il tempo della inumidita distanza dentro l'anima ignuda, sia o no un ritmo sensitivo di una danza, ora so. Sola stellante vicissitudine dei pensieri bagnati dalla grazia. Qualcosa avanza senza nome, senza speranza di essere mai lugubre o qualcosa.
Hai freddo trepido alle labbra.
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