Martedì, 22 gennaio 2013
Lucianna Argentino - L'ospite indocile - Passigli Editori 2012
Leggendo questo ultimo libro di Lucianna Argentino ho
dovuto cercare di capire in cosa mi suonasse "diverso" rispetto a sue
precedenti prove. Dico subito che la mia affezione per la scrittura di
Lucianna è rimasta legata, senza ombra di dubbio, a "Diario inverso" (v.
QUI),
un lavoro di innegabile rilievo. Ma ricordo anche ciò che lessi di
"Mutamento" oppure di "Verso Penuel", l'intensa spiritualità, la
vibrazione, la passione anche dolorosamente amorosa che pervadeva quei
versi. Dico tutto ciò a proposito di questo suo libro, "L'ospite
indocile", non perchè la spiritualità di Lucianna qui sia venuta meno,
ma perchè ho trovato un po' depotenziato il rigore e l'ordine
complessivo, l'organizzazione dell'ispirazione, l'idea di fondo, il
filo narrativo, forse anche lo stesso linguaggio. Diciamo che mi ha dato
meno emozioni (per quanto possa essere labile questo concetto) rispetto
a quanto ricordavo. Un libro in un certo senso destrutturato, forse
volutamente, non solo perchè non presenta divisioni in sezioni (questo
non è certo un problema) o l'indicazione al lettore di un percorso, ma
perché dà l'impressione di essere fatto di affioramenti di moti
dell'animo, di ricerca di momenti epifanici come se si aspettasse
arrivare la poesia, di piccole rivelazioni che si fanno attendere, di
presenze metafisiche nascoste in occasioni semplici, come se
semplicemente avvenissero giorno dopo giorno verso dopo verso, e fosse
la semplicità la chiave da ricercare, forse per il sopraggiungere di una
disillusione, oppure di un dubbio immanente e ontologico. Può darsi,
come suggerisce A.M. Farabbi nel risvolto, che tutto ciò, l'insieme di
questi testi anche brevissimi, costituisca un poema, il poema del "vuoto
profondo e utile", come quello dell'asola, quello - continua Farabbi -
"che abita la tua bocca, la tua poesia, la tua parola". Dobbiamo credere
che questa poesia sia abitata dal vuoto? Non lo so, onestamente. Il
vuoto può essere - concettualmente - un argomento interessante, ma anche
pericoloso. Se assumiamo il concetto, cioè che vi sia - qui - un vuoto
"buono", tutto il libro andrebbe letto come un progetto di dire e non
dire, come un diradamento dell'ordito poetico, come alleggerimento,
omissione, passaggio a uno stato volatile, etereo, in cui la poesia si
condensa nel vuoto per precipitazione, si fa parola tra interstizi. Un
vuoto in cui anche il linguaggio sembra essere attirato. Intendiamoci,
Lucianna ha una padronanza della lingua eccellente, ma è facile
registrare una sostanziale differenza con la sua produzione precedente
(basta leggere a confronto i testi di "Diario" presenti su IE, che avevo
definito compatti, concentrati e concreti), differenza che consiste, a
mio avviso, in ciò che sembra un volontario recupero di una scrittura
"ingenua" (o se vogliamo innocente: "arrivarono le campane / a siglare
l'inizio di maggio / e poi di nuovo la buona stagione..." oppure "Il
foglio è altare / su cui concelebro la vita / su cui consacro - questo è
il mio corpo / questo è il mio sangue...", o ancora "rientrano nel
chiostro serale le nubi / infilano la cruna dei campanili..."). Forse
una tensione, in questo diradamento a cui accennavo, verso una lingua
disciolta, verso un grado appena un passo più vicino allo zero della
scrittura. Ma non è un cupio dissolvi, almeno non nel senso
paolino del termine, sebbene si registri in questo libro, a mio avviso,
anche una qualche attenuazione dello spirito religioso che è sempre
stato sotteso ai lavori di Lucianna Argentino. E' semmai, appunto, la
riverberazione in questi frammenti di un dubbio (o forse molti), e a
questo proposito sarebbe certo interessante domandarsi chi possa essere
l'ospite indocile del titolo. Qualcosa/qualcuno che alberga in noi o ci è
accanto ("il nostro stare separati e contigui"), il Dio nominato più
volte, il "tu" che certo ha più di una faccia (compresa - credo - quella
di Dio medesimo), la scrittura (la parola, la poesia) così tante volte
evocata metapoeticamente nei testi, indocile magari perchè a volte
sembra "altrui" ("Scrivo di nascosto da Dio / che nella bocca voglio
parole mie..."). Insomma, un libro per certi versi discontinuo, con i
suoi alti (notevoli) e bassi, in cui come lettore (ma ammetto che può trattarsi di
una mera sensazione) mi sono un po' perso, probabilmente perché invece
altrove nel lavoro di Lucianna (e mi dispiace tirare ancora in ballo
"Diario") avevo scoperto invitanti sentieri, come "un lungo corridoio,
che ci è dato percorrere con la curiosità un po' morbosa di chi ha
trovato la porta aperta, e si addentra con passo incerto, gettando lo
sguardo nelle stanze". Ma un libro certo combattuto (anche dentro la
stessa "fonte" poetica, tra il silenzio che "a volte [...] ha la meglio" e
la scrittura "concupiscente e casta") e che probabilmente per Lucianna
era "necessario" così come è cresciuto. (g.c.)
Non so quale felicità avremmo vissuto, o quale guancia avremmo offerto all'offesa se felicità c'è stata, se c'è stata offesa. Così lo scrivo, ne faccio segno, per capire come si spiega l'albero la potatura, il papavero lo strappo i bambini il tempo e lo spazio: - dove va la notte quando è giorno? - mezz'ora è tanto o poco? O come si spiega il vuoto degli esseri che ci stanno accanto come un'assenza o il senso irsuto della vita, il suo difficile che diventa facile quando cominci ad amare.
Basta additarci, basta l'ingratitudine l'aspettarci sempre un segno e non saperlo riconoscere non saperci segno. Dammi allora almeno la capacità di dirlo con parole conosciute, semplici, quotidiane come quando chiedo il pane o un bicchiere d'acqua, ma vanno bene pure parole un po' sbagliate come Damiano quando dice «pesa un chilometro». Dammi allora la capacità di tracciare piano, giorno dopo giorno, la mappa del tuo corpo e che sia come quando l'anima viene alla superfìcie e si distende sulla pelle.
L'inchiostro scorre e si rapprende come lava fa fertile il foglio fa anse all'ansia spicca il vuoto alle cornici ai cornicioni chiede la vertigine per il salto nel pieno della vita.
Non è che l'ombra del silenzio questa parola che irrompe e sgorga necessaria come tutto il bene che in questo momento è compiuto nel basso della terra e si misura ad altezza d'uomo.
Pregano per noi di materia imperfetta di sostanza sopraffatta, bisbigliano novene in una loro lingua d'inconciliabile verità. Pregano loro già stati loro scrocifissi dal mondo.
a Sergio Pistolesi
Le voci, chiede, avranno un paradiso tutto loro? un luogo dove, riposti gli strumenti, tutte si raccolgono? Le voci, dice, sai non le parole che non sarà muto quell'altrove ricamato di speranza con fili logori e terreni. Ma la voce, sai, quel suono che non ce n'è uno uguale a un altro dov'è che va?
Scrivo di nascosto da Dio che nella bocca voglio parole mie e niente niente nel passaggio dalla fronte alle dita alla punta della penna al suo muoversi sul foglio per mio sentire altro per meditato silenzio e pulsare di tempie per il mio stare accovacciata presso lo scavo con l'angelo geometra e la sua corda a misurare quanta benedizione c'è sulla terra.
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