Giacomo Leronni - Le dimore dello spirito assente - Puntoacapo, 2012
Questa non è una critica e nemmeno una recensione. E' piuttosto una
serie di riflessioni di lettura che prende occasione (e l'autore mi
perdonerà) da un libro non facile, a tratti petroso e lunare, che
domanda a chi lo legge un'attenzione pressoche totale.
Un libro che guarda al cosmo insondabile della parola, o meglio a
quanto essa possa essere sondabile a piacere, senza arrivare mai -
almeno definitivamente - a una meta (cioè, spesso, a dire cosa). E'
l'etremo rammarico di ogni poeta.
Il limite della poesia sta (o molti sono convinti che stia) nella
estrema plasticità del linguaggio che usa per statuto. Qui "limite" lo
prendo nella sua accezione meno eroica. E' quello cioè in cui sbatti il
naso e ti fermi, guardandoti in giro irrelatamente, e NON quello in cui invece getti
il cuore oltre l'ostacolo e scali la montagna come Messner. E' il
limite quindi oltre il quale la parola, come un diamante su cui si tenta
l'ennesima sfaccettatura, perde la sua funzione e si sbriciola. Può
darsi che diventi rappresentazione dell'implosione dell'universo, o
della sua dissipazione entropica. E questo universo, esattamente come in
un racconto di Asimov, può essere infinitamente grande o infinitamente
piccolo, stellare o mentale. Ma la comunicazione con il lettore diventa
come quei segnali radio che arrivano dal cosmo molti anni dopo che sono
stati generati. C'è necessità di decifrare.
Leronni è abile ad esplorare i confini, il limite di cui si parlava.
Prende l'evento (termine per ora indefinito) e lo proietta sulla volta
del linguaggio, su una griglia dove egli opera una selezione (per dirla
con Jakobson) di parole, ne elude, sempre per rimanere in tema,
l'equivalenza, nonchè le ricombina in un suo personale sistema
metaforico. Per dirla in due parole, l'imperativo sembra essere
l'aggiramento della "norma", assumendo qui il termine in senso lato.
Mi sembrava di avere colto in questa poesia qualche indizio:
Lo descrivo il colore
e s'incaglia
poi di soppiatto
rientra nella norma
la tentazione di captarlo
lo incarcera
la voglia che lo addita
lo annulla
richiamo la pupilla
ritiro la tovaglia del senno
lo lascio allora
spoglio, il colore
innegabile.
A me pare che Leronni descriva bene il procedimento di come si faccia a
liberare poeticamente l'evento (colore, amore o qualsiasi altra cosa ci
ispiri) dalla gabbia delle parole. E' abbastanza superfluo parafrasare
il testo, nella sua pulita linearità, ma notiamo almeno un paio di
cose: il tentativo di afferrare l'evento, di descriverlo, il desiderio
di connotarlo dapprima fallisce, rientra nella "norma" delle parole.
Unico mezzo per sfuggire alla gabbia, secondo il poeta, è spogliare
l'evento, operandone una estrazione dell'essenza, sottraendone la
descrizione alla consuetudine, al "senno" (o forse - e qui sta
l'equilibrio sul difficile limite - al senso). L' "oggetto" diventa
innegabile, il suo "essere" si palesa univoco. E' nella potestà
dell'autore stabilire "un margine sufficiente di univocità" (Umberto
Eco). Ma l'arte (anche quella di Leronni, nei suoi testi migliori) sta
nel capire dove sia e in cosa consista questo margine, almeno quel tanto
che basta per "lasciare al lettore l'iniziativa interpretativa" (ancora
Eco). Il postfatore Massimo Morasso non è molto distante da questi
pensieri, quando parla per questo libro di "carica eversiva della
migliore poesia visionaria (...) come sospesa e trattenuta in un limbo
infralinguistico che sta a noi lettori, leggendo, di riconoscere e far
emergere in pienezza alla luce del senno". Al lettore (leggente) quindi
l'onere della prova? Morasso elude la domanda addebitando il dubbio ad
altri, al personaggio Fine Letterato che usa come controparte. Non importa. Ma il rischio di una una oscurità dell' "anima" (v. più avanti) del poeta forse permane.
Del resto Leronni molto correttamente ci ha avvertiti, nella "Dichiarazione di poetica" posta all'inizio del libro:
"Sfilano gli stracci / della verbosità // si essicca il discorso
paludato // il fasto retorico / uggiola di finitudine // la ridondanza
perde morsi. // Giacciono i fronzoli disattivati / annegano gli orpelli
// si staccano / le cornici esornative: // chi parla adesso è asciutto /
un corpo scarnificato / evaporato // nient'altro che un'anima".
Bene. Vale la pena di sottolineare, magari partendo da questi due
esempi, che Leronni non bara mai sul linguaggio. Non bluffa, non
persegue l'inusuale lessicale, non compulsa il dizionario. Il fraseggio è
quasi sempre limitato a un solo sintagma, per di più quasi sempre
"principale", cioè paratattico, e questo provoca da una parte un
pregevole effetto, compatto, ritmico, e con una sua musica interna,
dall'altra un incedere sibillino, aforistico (o forse sapienzale, come
preferisce dire il postfatore).
Due parole infine sulle poetiche di Leronni. Di una abbiamo detto, ed è
quella principale e fondante: la riduzione del linguaggio, l'
"essiccazione" del discorso, il superamento (ma fin dove?) del limite,
della "dogana" del significato (prendo il termine dal distico
stupendamente emblematico "Quando dico amore è per eludere / la dogana
del senso"), come pure del problema (egli accusa) della "meraviglia
fatta a pezzi / dalla definizione".
L'altra è quella dei "minimi spazi" ("perchè oltre questi minimi spazi /
non risuono", afferma), cioè quella che altrove ho chiamato poetica
degli interstizi, che va spesso insieme al ripiegamento espressivo,
diversa dal minimalismo degli oggetti e dei luoghi, ma piuttosto una
poesia "percettiva" orientata sui riverberi degli eventi sulla psiche. E
sull'interrogarsi, ovviamente, di come sia possibile sfuggire sulla
pagina alla ossessiva e logora verbalizzazione della mente (e forse
della cultura che ci portiamo sulle spalle).
Va invece respinta la domanda se per Leronni sia indifferente il tema,
anche "minimo", purchè serva docilmente alla sua prima poetica.
Ovviamente no: Leronni è poeta sufficientemente fine (come dimostrano degli
ottimi testi) da non trarre sé stesso nel tranello della metapoesia,
cioè del fare versi per parlare di come i versi stessi si fanno. Se la
costellazione di Leronni è oscura (un'oscurità da cui, secondo Morasso,
il poeta prende lezioni), essa è tuttavia ampiamente popolata: l'amore,
l'estetica e l'apparenza, il molteplice, "lo sguardo che vigila sul caso
[e] dispone l'ignoto in bella forma", l'inganno dei sensi, la morte
come luogo abitato, l' "altalena del mutevole". E naturalmente la natura
di cui siamo parte, qui filtrata da un pensiero analitico insonne e a
volte impietoso, da uno spirito tutt'altro che "assente". (g.c.)
Tracciato: Set 28, 18:10