A dispetto della giovanissima età – è appena diciottenne – risale proprio a questi anni l’assidua corrispondenza con uno dei maggiori poeti stranieri
dell’epoca, l’irlandese William Butler Yeats, sulla scorta dei comuni interessi esoterici e filosofici. Addirittura Yeats scrive a Piccolo anche dopo
aver ricevuto il Nobel (1923), segno di una reciproca stima non aleatoria. Forse risalgono a questo periodo le prime composizioni in versi, rafforzate
dal corposo rapporto con questo primo modello di riferimento dal valore assoluto. Un esempio potrebbe essere la poesia La torre, ispirata a My house di Yeats, tratta appunto dalla raccolta The tower («
Propizia l’aria fra quelle mura/ alte agli incanti: dalle finestre/ adito, il giorno, a colli, pianura,/ spazi prativi, erte ginestre;// torre la
chiamava, e la scala/ e l’ombra che si piega sul gradino/ innanzi a chi sale…// E dall’interno al suo sguardo la rosa/ bianca che poggia su la
ringhiera…// La stanza appesa all’arbitrio/ dei colori, alle udienze dell’aure…// ove al segno del libro risponde/ l’astro
»; e Yeats: «
Un ponte antico, e una più antica torre,/ una cascina al riparo del suo muro,/ un acro di terra petrosa/ dove la rosa simbolica può erompere in
fiore…/ Una scala a chiocciola, una camera dalla volta di pietra…/ una candela e una pagina scritta
».). La torre è l’emblema della scalata impossibile alla conoscenza, mito caro agli spasimi esoterici del giovanissimo poeta, influenzato non poco
dalla concezione mistico-filosofica yeatsiana di Per amica silentia lunae e di A vision, nonché dalle velleità occultistiche del fratello
maggiore Casimiro, grande appassionato di spiritismo.
Qualche anno più tardi (1928) ecco profilarsi l’evento che sconvolgerà per sempre le vite della sua famiglia: il padre, evidentemente incallito
‘sciupafemmine’, già da qualche tempo scappato a Sanremo con una giovane ballerina e morboso amante anche del gioco d’azzardo, muore lasciando in
grossi guai finanziarî la moglie (i debiti di gioco accumulati nel corso del tempo sono talmente ingenti da costringere il Banco di Sicilia ad
ipotecare addirittura il palazzo palermitano ad una cifra per i tempi astronomica, circa tre milioni di lire!). La madre e i tre figli sono costretti
ad andare via da Palermo e rifugiarsi in una villetta di campagna a Capo d’Orlando, nel messinese, situata su un promontorio circondato dai fittissimi
boschi nebroidei, che domina la costa a perdita d’occhio, proprio di fronte alle meravigliose isole Eolie. Non più feste sfarzose, balli, ricevimenti,
non più la vita mondana d’un tempo, si chiude il sipario sullo sfarzo di una Palermo ottocentesca ormai «sulla soglia della definitiva scomparsa»; il
‘secondo atto’ discopre una scenografia quasi conventuale da cui i tre fratelli e la madre non usciranno fino alla morte. In compenso la lussureggiante
campagna orlandina offre scorci fascinosi alla rinnovata fantasia del poeta, spazi sereni, passeggiate lungo viali alberati sotto cadenti pergolati di
glicine, fatte di profonde riflessioni che acuiscono il carattere già pensoso e melanconico di Piccolo.
Dovranno trascorrere ancora una ventina d’anni perché il poeta decida per così dire di uscire allo scoperto, ‘istigato’ dalle battute all’arsenico del
cugino Tomasi («dalle ceneri della madre nasce un poeta!») che, avendo letto alcuni versi, vorrebbe testare le aspirazioni liriche di Lucio,
anche se sotto questa scorza amaramente ironica si celano personali palpiti di un’idea di romanzo covata nel segreto, da cui nascerà presto quel
capolavoro che è Il Gattopardo. Piccolo, adesso libero anche da condizionamenti materni che gli imponevano una certa ritrosia – Teresa morirà
nel 1953 – fa stampare allora una plaquette, a cui darà il titolo di 9 Liriche, ad un tipografo di paese in sole sessanta copie
dai «caratteri frusti e poco leggibili la cui veste tipografica non era migliore di quella dei Canti orfici di Dino Campana», come terrà a
sottolineare tempo dopo il futuro ‘padrino’ Eugenio Montale nella prefazione ai Canti barocchi il quale, avendo ricevuto il librettino con un
errore di affrancatura, è costretto suo malgrado (da buon ligure) a dover pagare le arcinote 180 lire di sovrattassa. L’autore di Ossi di seppia
, con sua immensa sorpresa, vi legge però un poeta già stilisticamente maturo e musicalmente ineccepibile, che compendia nelle sue liriche il
ritmo incalzante d’un continuo ‘andante’ costruito con l’uso ossessivo di rime interne, di paronomasie, di studiati adescamenti fonici fatti di
allitterazioni ed assonanze e coll’accumulo inesausto di elementi che, in questo vorticismo sinuoso, trasfigurano in simboli ontologici.
Vi si riscontra anche quella straordinaria attitudine a piegare le ‘naturazioni’ ad una personale riflessione sul piano cosmico-metafisico (in questa
lirica Piccolo pensa ad esempio agli studi einsteiniani sulla relatività che rende mutabili anche le categorie di spazio e tempo, per molti secoli
ritenute le sole fisse nell’armonia dell’universo; si pensi anche ai versi: Ma vedi come il tempo, il tempo/ uguale non è/ vedi come precipita o rallenta…). Montale si convince di essere davanti ad una giovanissima
figura a cui è possibile attribuire il motivo husserliano della «contraddizione fra un universo mutevole ma concreto, reale, ed un io assoluto eppure
irreale perché privo di concretezza» e vuole presentarlo al meeting letterario di San Pellegrino Terme che Giuseppe Ravegnani stava organizzando
per quella stessa estate del 1954, dove sette poeti ‘laureati’ introducevano altrettanti esordienti; impercettibile inconveniente: il giovanissimo e
sconosciuto poeta siciliano si rivela in realtà un estroso cinquantenne dall’aria trasognata, di soli cinque anni più giovane del suo presentatore!
Lucio Piccolo al convegno bergamasco è accompagnato dal cugino Giuseppe Tomasi e da un corpulento campiere, più simile ad un’odierna bodyguard
che ad un contadino, personaggio quest’ultimo destante nei presenti un misto di risibilità e terrore, il vestiario ottocentesco dei tre fa il resto! In
poche parole Lucio Piccolo diventa l’attrazione di tutto il convegno: questo episodio resterà talmente impresso nell’immaginario della critica da
condizionare ogni futura catalogazione quale ‘personaggio’ ad ogni costo; la poesia di non facile interpretazione, dato il celato simbolismo ed una
certa propensione all’arcaicità del linguaggio, darà la mazzata finale, relegando a tutt’oggi Lucio Piccolo in una nicchia che solo da poco tempo si
sta cercando realmente di scalfire. Durante il viaggio di ritorno in treno il «mostro» (appellativo coniato da Piccolo per Tomasi, ritenuto già da
allora un vero mostro di cultura) confesserà al cugino di voler scrivere il romanzo pensato da molto tempo e mai fissato sulla pagina, immaginato in
una Palermo barocca e morente: - «Lucio voglio darti una lezione: scriverò un romanzo che avrà più successo delle tue liriche!», e mai profezia
si rivelò più esatta. Giuseppe Tomasi in soli quattro anni scrive, oltre al Gattopardo, anche le Lezioni d’inglese, I ricordi d’infanzia
(poi intitolati I racconti), Lighea: un vero vulcano in ebollizione, «punto sul vivo» dal successo del cugino al convegno dell’estate
precedente.
Lucio Piccolo spesso provoca il cugino durante le telefonate tra Palermo e Capo d’Orlando: - «Mostro, quando vieni a sciacquare i panni in Vina?
»; il nostro poeta alludeva con sottile ed arguta ironia al fatto che spesso Lampedusa gli proponesse la pagina scritta ‘a caldo’, per saggiarne
impressioni ed eventuali proposte di modifica, paragonando inoltre il nascente Gattopardo al torrentello che scorre ai piedi della villa di
famiglia: invero poca cosa nei confronti dell’impetuoso Arno rappresentato dall’immediata pietra di paragone, ovvero I Promessi sposi!
Lucio in realtà è amareggiato perché, leggendo le pagine del cugino, si accorge che non si contano i riferimenti a certi passi delle sue liriche (in
effetti sono numerosissimi i termini che Tomasi riprende dalle poesie di Piccolo, non volendo considerare molte ambientazioni che caratterizzano i Canti barocchi e non solo: la battuta di caccia con Ciccio Tumeo riprende molti passi del poemetto Caccia, che in Piccolo
simboleggia una vana ricerca; certe scenografie delle chiese barocche sembrano riprese palesi di Oratorio di Valverde e Andavano già lontane; la scena dell’innamoramento e dell’inseguimento di Tancredi e Angelica per i maestosi e oscuri corridoi del palazzo pare
la vistosa versione in prosa del nascente Gioco a nascondere piccoliano; è impossibile in linea generale calcolare le ‘riprese’ tomasiane della
poesia del Nostro, fatto che nessun critico prima ad ora ha avuto il coraggio intellettuale di sviscerare!).
Dopo l’arcinoto rifiuto di Vittorini il romanzo viene pubblicato nel 1958, dunque solo dopo la morte di Lampedusa per un tumore ai polmoni d’accanito
fumatore; Lucio Piccolo spinge lo scritto con varie lettere sulla scia della tremenda perdita dell’amato cugino e da qui inizierà una vera e propria
fase d’ombra per il poeta, oscurato dall’inatteso e sconvolgente successo del romanzo tomasiano: i critici, ma soprattutto i giornalisti, lo cercano
per intervistarlo, ma solo per il gusto non troppo celato di svelare particolari succulenti sul cugino principe, in pochi si occuperanno realmente
della sua straordinaria poesia.
I Canti barocchi del cavaliere di Calanovella sono strutturati come una vera e propria armonia in quattro quarti, dove ognuna delle poesie
simboleggia un elemento naturale, nonché una stagione dell’anno (in cui si intravede anche una parte del giorno) e ancora una fase dell’esistenza. La
prima, Oratorio di Valverde, è un esordio primaverile con le terre in fiore, alba d’una fanciullezza spensierata e innocente: «
Ferma il volo Aurora opulenta/ di frutto, di fiore,/ balzata da rive vicine/ diffondi ancora tremore/ di conchiglie, di luci marine/ – a larghe
onde di campane tessuta/ venivi, dai fili di memorie, dai risvegli infantili –
».
La meridiana
è improntata sul movimento distruttivo e rigenerante delle acque, maturità della vita che contempla la pienezza della natura, il rigoglio estremo
delle cose: «
Guarda l’acqua inesplicabile:/ contrafforte, torre, soglio/ di granito, piuma, ramo, ala, pupilla,/ tutto spezza, scioglie, immilla;/ nell’ansiosa
flessione/ quello ch’era pietra, massa di bastione,/ è gorgo fatuo che passa…/ Guarda l’acqua inesplicabile:/ al suo tocco l’Universo è labile.
»; qui il poeta prelude ad un’ineluttabile fine del ciclo vitale, raffigurata dal vento «
…ed alle siepi del mondo/ passa il brivido di fulgore/ fende l’immane distesa celeste,/ vibra, smuore, tace,/ vento senza presa e silenzio.// Ma se
il fugace è sgomento/ l’eterno è terrore.
»; elemento richiamato poi nel terzo canto, ovvero Scirocco. L’infuocato vento sud-orientale diviene emblema dell’invecchiamento, visto
splendidamente come un esercito moresco in marcia che spazza tutto ciò che incontra davanti al proprio cammino: «
E sovra i monti, lontano sugli orizzonti/ è lunga striscia color zafferano:/ irrompe la torma moresca dei venti,/ d’assalto prende le porte
grandi…/ polloni brucia, di virgulti fa sterpi,/ in tromba cangia androni,/ piomba su le crescenze incerte/ dei giardini, ghermisce le foglie
deserte/ e i gelsomini puerili…// Ma quando ad occidente chiude l’ale/ d’incendio il selvaggio pontificale/ e l’ultima gora rossa si sfalda/ d’ogni
lato sale la notte calda in agguato.
». In questi versi il discorso, intriso d’una violenza pittorica ineguagliata, viene a diluirsi nella prefigurazione notturna che schiude
simbolicamente il calmo abbraccio della morte. La notte è la fase conclusiva, l’annullamento nell’oblio, il sereno amplesso con la memoria: «
La notte si fa dolce talvolta,/ se dalla cerchia oscura/ dei monti non leva alito di frescura…// soffia in vene vive volti già cenere, parole
àfone…/ muove la girandola d’ombre…// Riverberi d’echi, frantumi, memorie insaziate,/ riflusso di vita svanita che trabocca/ dall’urna del Tempo,
la nemica clessidra che spezza,/ è bocca d’aria che cerca bacio, ira,/ è mano di vento che vuole carezza.
».
Insomma il lirismo piccoliano è pregno di tutto un mondo agreste ormai evanescente, se una cifra ombrosa esiste è quella del richiamo alla memoria di
tempi e volti trascorsi: sotto all’involuta scorza del personaggio si cela un poeta da riscoprire, per far risuonare di nuovo altissime note scartando,
almeno per un giorno, qualunque prosaicità!
Diego Conticello
Articolo apparso sulla rivista QuiLibri n.4, anno II, marzo-aprile 2011, pp. 26-29
Oratorio di Valverde
I
Ferma il volo Aurora opulenta
di frutto, di fiore,
balzata da rive vicine
diffondi ancora tremore
di conchiglie, di luci marine,
e le valli dove passasti alla danza
pastorale fra le ginestre
t’empirono le canestre
di folta, di verde abbondanza
- a larghe onde di campane tessuta
venivi, dai fili di memorie, dai risvegli infantili -
Traevi con te ne l’incanto
le migrabonde stagioni,
ognuna ora dona il suo vanto
e sono albicocche in festoni,
pesche, ciliege, viticci attorti,
orgoglio fragrante degli orti.
Gracile Primavera cui biancospino
punge il piede errante nel cammino
èsita, implora, non osa
turbare nel sonno la rosa.
Poi labbro che soffia seme di fuoco
la ridesta a poco a poco,
e l’Estate la coglie, la spande
in ampie volanti ghirlande.
E Autunno, Inverno che dona?
Inverno per le notti all’altare
globi di gocciole gelate tra ginepri
che la luce fa turbinare,
e i venti quando l’organo rintrona.
Fra le volute, fra gli archi che vincono gli estri
più snelli delle tastiere, pavoni, uccelli del paradiso, fagiani
bevono in conche cilestri,
la fuggitiva dell’Arca porta l’oliva
fra i melograni.
Su le mensole accanto ai messali gravati
di cuojo gli antifonarî (hanno stuoli
di rondini su occasi affocati):
schiuderanno i voli alle tortore del canto
negli albi cieli pasquali;
non muove l’Anno su cardini di firmamento
né per vie di pianeti
ma lo volge dolce e lento
cerchio di melodie.
(Ai quattro punti del Mondo
muovono Arcangeli il vento e i colori)
- ma già nel tempo
spirò dall’occidente un soffio insonne
e accende di cannelle, di cinnamomi,
di rostri porporini i cammini dell’aure
di malie d’arbusti le chiome dei venti i transiti marini.
Di là dalle Colonne
si stende la piana di spume di crespe abbaglianti,
s’erge nei fondali la mole di pomice mora,
s’alzano i re dai manti di piume
nei vortici del sole.
… oltre le volte vicino ai campanili
ove la mano dell’Evangelista
alta indice alle nubi il volo,
bianco attonito di cellette, di ballatoi,
d’intonaco nudo riflette
tutto l’aereo sospeso mattino.
Ma dove spirano raggiere ed ombre muschiate
all’interne gallerie, alle grate delle tribune
(trascorrono lucerne la notte)
ove vanto di forme gonfia ringhiere tralci campanule soffia dorate
s’affollano spicchi di volti fra garze consunti profili di lune.
Meridiana
II
Guarda l’acqua inesplicabile:
contrafforte, torre, soglio
di granito, piuma, ramo, ala, pupilla,
tutto spezza, scioglie, immilla;
nell’ansiosa flessione
quello ch’era pietra, massa di bastione,
è gorgo fatuo che passa, trillo d’iride, gorgoglio
e dilegua con la foglia avventurosa;
sogna spazi, e dove giunge lucente e molle
non è che un infinito frangersi di gocce efimere, di bolle.
Guarda l’acqua inesplicabile:
al suo tocco l’Universo è labile.
E quando hai spento la lampada ed ogni
pensiero nell’ombra senza peso affonda,
la senti che scorre leggera e profonda
e canta dietro ai tuoi sogni.
Nell’ora colma, nelle strade meridiane
(ov’è l’ombra, ai mascheroni anneriti
alle gronde scuote l’erbe l’aria marina)
rispondono le fontane,
dalla corte vicina (lasciò la notte ai muri
umidi incrostazioni di sali, costellazioni
che il raggio disperde),
dai giardini pensili ove s’ancora il verde
si librano cristallini archi
s’incontrano nell’aria incantata alle piazze
sui cavalli di spuma gelata,
s’alzano volte di suono radiante
che frange un istante e ricrea
- la tenera piovra, il fiore liquido emerge, elude
il silenzio e un àndito schiude fra il canto e il sopore;
s’aprono zone di solitudini, di trasparenze,
e il bordone poggiato al sedile riposa
e il sogno si leva…
L’ombra del cavalcavia
batte al selciato che brucia.
Ora piana ora ferma, ti guardi, ti specchi beata
in alta murata di loggia – nitore di vela – in altana
e la loggia, la cupola, la cuspide che vuole
salire più alta, sono immerse nel vento del sole;
permea l’azzurro le travature corrose,
la scala che sale alla cella, delle aperture
dei muri forati, degli archi fa sguardi sereni,
e le cavalcature riposano ai fieni falciati;
rigoglio di lantane, di muse, di calle,
ai terrapieni ove il gelso arpeggia l’ombre
ed alle balaustre scendono diffuse
le molli frane
del caprifoglio,
(dietro il cancello fra gli aranci
l’acqua nascosta ha note d’uccello)
E le montagne, le montagne l’han consumate al corale dei raggi
le rèsine, l’erbe odorose, gli aromi selvaggi.
… lancia il sole crinale cerchio
nell’idrie ove l’acqua scintilla,
e s’uno scende l’altro sale,
- armonica d’oro –
la Bilancia appena oscilla
quasi uguale.
Attendono i vegliardi;
sotto la cupola al segno rotondo
(in gemini) folgora l’ora eco di cosmi,
ed alle siepi del mondo
passa il brivido di fulgore
fende l’immane distesa celeste,
vibra, smuore, tace,
vento senza presa e silenzio.
Ma se il fugace è sgomento
l’eterno è terrore.
Scirocco
III
E sovra i monti, lontano sugli orizzonti
è lunga striscia color zafferano:
irrompe la torma moresca dei venti,
d’assalto prende le porte grandi
gli osservatori sui tetti di smalto,
batte alle facciate da mezzogiorno,
agita cortine scarlatte, pennoni sanguigni, aquiloni,
schiarite apre azzurre, cupole, forme sognate,
i pergolati scuote, le tegole vive
ove acqua di sorgive posa in orci iridati,
polloni brucia, di virgulti fra sterpi,
in tromba cangia androni,
piomba su le crescenze incerte
dei giardini, ghermisce le foglie deserte
e i gelsomini puerili – poi vien più mite
batte tamburini; fiocchi nastri…
Ma quando ad occidente chiude l’ale
d’incendio il selvaggio pontificale
e l’ultima gora rossa si sfalda
d’ogni lato sale la notte calda in agguato.
La notte
IV
La notte si fa dolce talvolta,
se dalla cerchia oscura
dei monti non leva alito di frescura
perché non sòffochi, ai muri vicini apre corimbo di canti,
sale coi rampicanti pei lunghi archi,
alle terrazze alte, ai pergolati, al traforo
dei mobili rami segna garofani d’oro,
segreti fievoli coglie ai fili d’acqua sui greti
o muove i passi stanchi
dove l’onde buje si frangono ai moli bianchi.
Subito allo schermo dei sogni
soffia in vene vive volti già cenere, parole àfone…
muove la girandola d’ombre:
sulla soglia, in alto, ognidove
vacuo vano, andito grande tende a forme,
sguardo che muove le prende,
sguardo che ferma le annulla.
Riverberi d’echi, frantumi, memorie insaziate,
riflusso di vita svanita che trabocca
dall’urna del Tempo, la nemica clessidra che spezza,
è bocca d’aria che cerca bacio, ira,
è mano di vento che vuole carezza.
Alle scale di pietra, al gradino di lavagna,
alla porta che si fende per secchezza
è solo lume l’olio quieto;
spento il rigore dei versetti a poco a poco
il buio è più denso – sembra riposo ma è febbre;
l’ombra pende al segreto
battere d’un immenso
Cuore
di
fuoco.
La seta
Fatica nostrana nei giorni involati
la seta: le veglie all’interno
tepore, le foglie del gelso brucate
dalle torpenti farfalle ai cannicci.
Sospesa alla trave la falce
d’incanto, il crescente
e l’aria grave di fiati rurali,
d’attesa – poi girano i fusi, le spole, la grana…
ma se la prendi con mano
che un poco trema
e la spieghi e la stendi
è una fontana nel vento e nel sole.
Plumelia
L’arbusto che fu salvo dalla guazza
dell’invernata scialba
sul davanzale innanzi al monte
crespo di pini e rupi – più tardi, tempo
d’estate, entra l’aria pastorale
e le rapisce il fresco la creta
grave di fonte – nelle notti
di polvere e calura
ventosa, quando non ha più voce
il canale riverso, smania
la fiamma del fanale
nel carcere di vetro e l’apertura
sconnessa – la plumelia bianca
e avorio, il fiore
serbato a gusci d’uovo su lo stecco,
lascia che lo prenda
furia sitibonda
di raffica cui manca
dono di pioggia,
pure il rovo ebbe le sue piegature
di dolcezza, anche il pruno il suo candore.
Mobile universo di folate
Mobile universo di folate
di raggi, d’ore senza colore, di perenni
transiti, di sfarzo
di nubi: un attimo ed ecco mutate
splendon le forme, ondeggian millenni.
E l’arco della porta bassa e il gradino liso
di troppi inverni, favola sono nell’improvviso
raggiare del sole di marzo.
Voce umile e perenne
Voce umile e perenne
sommesso cantico
del dolore nei tempi,
che ovunque ci giungi
e ovunque ci tocchi,
la nostra musica è vana
troppo grave, la spezzi;
per te solo vorremmo
il balsamo ignoto, le bende…
ma sono inchiodate
dinnanzi al tuo pianto le braccia
non possiamo che darti
la preghiera e l’angoscia.