Si parla su vari blog, in questi giorni, di dichiarazioni di poetica. Per parte mia ritengo, al di là di un lavoro che sto elaborando sulla “verità” della poesia, che la poetica di un autore, da non confondere con una legittima dichiarazione di adesione ideologica, emerga sostanzialmente dalle cose che ha scritto (magari anni fa) e che va scrivendo (ora). Porrei l’accento proprio su questo percorso temporale, per varie ragioni: perché ha valore documentale ben più stabile delle dichiarazioni d’intenti, e sappiamo che a volte nemmeno il poeta stesso “conosce” esattamente quello che scrive; perché costringe ad un lavoro critico sia chi legge sia chi scrive e questo, se c’è abbastanza onestà intellettuale da ambo le parti, non può che essere un bene; perché evita fraintendimenti del poeta stesso tra il dire e il fare, privilegiando proprio il fare poetico nel suo divenire; perché porta alla luce il salto di potenziale (proprio in termini di energia), il differenziale poetico che si è sviluppato nel corso della vita artistica dell’autore. Naturalmente i poeti si sono sempre più o meno espressi in termini metapoetici, sia sul medium poesia, sulla tecnica, sul linguaggio, sia sull’idea, la loro idea, della poesia. Lo hanno fatto in saggi e articoli anche di grande importanza, lo hanno fatto in dichiarazioni ufficiali, come le prolusioni in occasione di qualche premio prestigioso. In un certo senso è impossibile non farlo, fa parte del mestiere, e mi rendo conto che anche queste poche righe sono in qualche modo un frammento di discorso sulla poesia. Ecco, è questo il punto: qualsiasi dichiarazione di poetica non può essere che un frammento dello specchio identitario del poeta, quello che si palesa attraverso quello che scrive; perché è da lì che emerge la visione del mondo del poeta, o meglio la sua “meditazione”, che poi è una delle ragioni della poesia….
COSE CHE RIGUARDANO ALTRI
non vedo, da questo balcone,
la mia pancia:
oltre il parapetto, sui gomiti
contusi, solo
il vuoto assolato
come d’un napalm estivo.
Aspetto gli incendi d’agosto.
Colline rosse,
la fiamma che brucia l’ossigeno,
e l’urlo dei pini disillusi.
Non c’è nessun Libro
che consoli abbastanza
questo deserto paesaggio,
niente che ci svegli
da queste anestesie,
pallide ripetizioni, omologhe
morti, indifferenze.
C’è un rombo indistinto,
sul mondo, che non cessa.
Forse una tempesta impensabile,
uno scoppio che ci rovesci gli occhi
per gli occhi i denti per i denti:
una rottura improvvisa
di questa pace di borgata
che ci sembra nostra e
nostra e nostra.
E infinita.