Lunedì, 4 luglio 2011
Libro interessante e maturo, questo di Davide Castiglione (Per ogni frazione,
Campanotto 2010). Partendo da alcuni punti fermi dichiarati (parentele,
ascendenze, debiti letterari sono Sereni in primis, e Ungaretti e De
Angelis e in qualche modo il mio adorato Stevens) Castiglione costruisce
una buona raccolta, in cui per una volta essere giovani e al primo
libro non è una colpa e men che mai un merito. La tradizione è
compulsata e archiviata, senza necessità né di rivoluzioni né di
restaurazioni, ma semmai con un bisogno evidente di affilare un proprio
strumento a partire da essa, facendo nel contempo vedere di essere un
ragazzo che ha studiato. E perciò giustamente Luca Stefanelli, nella
postfazione, dice che "non si ha mai, nella raccolta, l'impressione di
respirare un'aria postuma, di epigonismo". Siamo ancora, comunque, nel
lungo '900, il secolo che non finisce mai. E siamo ancora al centro di
una poetica anch'essa di lungo corso, quella in cui l'individuo accerta
la crisi, osserva la realtà (o le sue frazioni), la verbalizza e non si
àncora ad essa, perchè scorre troppo alla svelta per poterla afferrare a
pieno e caricarla affettivamente (e nemmeno ce ne possiamo distaccare,
una croce). Vorrei evitare di tirare fuori ancora il surmoderno
(Stefanelli accenna a Marc Augé e ai non luoghi, mica a sproposito), ma
la temperie è quella, e sta di fatto che l'espressione artistica,
paradossale ma vero, non scorre altrettanto velocemente, e questo è
tanto più vero per la scrittura creativa. C'è, nelle arti, una specie di
affanno, una rincorsa dei tempi. Non resta quindi che dire bene le cose con i mezzi che abbiamo, in attesa di inventarne di nuovi, o dirle meglio di altri.
Sul piano dell'espressione, in effetti Castiglione
se la cava egregiamente. Ha un solido bagaglio di artifizi, un buon
senso del ritmo e, cosa importantissima, senso del limite di leggibilità,
e anche una certa (per così dire) sensibilità spaziale dei pieni e dei
vuoti sulla pagina scritta. Non gli mancano le parole per dire, il
ventaglio lessicale è articolato e ricco, alcune invenzioni metaforiche o
corti circuiti poetici addirittura eccellenti. Interessante è il
linguaggio senza particolari torsioni, ma semmai sottrattivo, in modo da
lasciare astutamente al lettore dei "fill in the blanks" semantici. Una
modalità non nuovissima (anche qui siamo nel solco) ma comunque
efficace, perchè allarga quella indeterminatezza di cui la poesia si
nutre (anche), a beneficio di una lettura "aperta", attiva. A volte il
linguaggio si strama ulteriormente di proposito, serve da setaccio
rovesciato che filtra le emozioni, le pulsioni, le delusioni cioè i
valori primari e sentimentali, e lascia passare le scorie dell'esistere,
la constatazione di certe inutilità, declinando una sorta di raffinato
understatement emotivo di discreto effetto. Con esso Castiglione cuce le
sue frazioni, siano esse brani di vissuto, bozzetti dal vero,
dichiarazioni di fallimenti, visioni del vento, ma sempre brani di
realtà (non c'è sogno, nè simboli), senza però minimalismi (se non altro
per la densità della parola a cui accennavo) e con una interessante
collocazione dell'autore rispetto al descritto, come se fosse un "io"
immediatamente al di fuori del cerchio degli accadimenti, a volte un
interessato osservatore esterno, a volte uno che attraversa come un
passante l'area poetica per poi lasciarsela accaduta alle spalle. Se la
narrazione è per forza di cose (per l'età, il vissuto dell'autore)
episodica, frammentaria, la compattezza complessiva del libro non ne
risente affatto, perchè appunto il giusto strumento stilistico c'è e il
livello estetico è quasi sempre costante. Se è vero, come mi pare di
aver letto da qualche parte, che il libro è frutto di un lavoro di
qualche anno, sarebbe interessante osservare Davide alle prese con
qualcosa di più "progettato". Staremo a vedere. Intanto leggiamo qualcuna delle sue poesie.
C'è un passare di gente, di visi in vetrina e sotto i portici l'arco più basso delle labbra.
Non è l'inverno ad abbottonarla, mi convinco, se i cappotti stringono i gesti a farli simili a un viale senza deviazioni;
sarà la paura di urtarsi pari al desiderio di urtarsi, sui marciapiedi un vestirsi a sorriso che più eccede e più lascia
nudi: così, per non sentirci assenza o incrocio mancato, gente a passarsi in mezzo, in vetrina, a passare, a non conoscersi.
SE ANCHE QUESTO È VIAGGIO
Smarrita, tra viali che non cercano un mare genovese, con te stessa ti apparti in un chiaroscuro di carruggi. Pochi sguardi, e il mio ti insegue fra malfamati e miraggi africani, piccola che trasfiguri stanze in sfondi di viaggi, che cambi mediocrità in malinconia.
Ora c'è tutto un castello da fare, un divano in vantaggio sul poco spazio e nessuno mai che viene e lo porta via.
Io ti ascolto, chiedo quale turbine ti ha lasciata divisa.
Valicherai queste sedute, in mare non saremo barche ma un'onda sola, armonia tornata ignara delle parole.
Me lo ripeto; e se il vento se stanotte il vento è presente più di noi
c'è un muro d'archi, affondato nella terra ai margini di Pavia; ricordi? con te mi sono promesso d'oltrepassarlo, se anche questo è viaggio.
DISSOCIATA
I
E' un prato, l'acqua verde del Po lungo l'insonnia olimpica di Torino, e alberi in fioritura le fontane alzate per l'evento. (Sulla banchina, fra i turisti, c'è cicaleccio di hamburger che friggono, di immondizie non rimosse).
Eri, gioco d'accordi, una solitudine con sguardi sul bitume e feritoie nessuna; ero là a sostenerti, teso a un letto negato dal flusso in paralisi... ... prato acqua verde...
«ma che stai sparando?».
Così, leggere, indisturbate per un soffio, le ombre definite nei miei pressi buttano voci, giù in gola e a piombo me le spingono.
E' che il prato è prato il fiume è fiume l'accordo è dissociare per voi (ma l'ho omesso ho sparato a salve abortito la risacca sul fondale).
II
Lo dice così il suo unificarsi, l'incomprensione della riva: da coro non corale. È troppo integralmente altra l'unità che può comporre l'infinito variare in una sola voce.
Ti si vorrebbe radice, terra musicata, verbo coniugato alla terra e invece ti svesti in un dissidio inerte, poesia; e io troppo presto sono dalla parte loro, da una parte comunque.
SENSI DELLA PIAZZA
I
Il vento, se fa tanto, lascia che i panni oscillino, mai imparata l'urgenza di tenersi o andare. Come i loro, ammansiti dal sole (perché c'è, è un fatto), sono i toni di un contrasto dalla strada, da una finestra, scivolati alla veranda dove siedo. Un foglio diviene semplicemente aeroplano, a lanciarlo quasi docile giunge a chi si vuole; nel soggiorno, senza identità o concordanza aprire un giornale è lo stesso che accendere il televisore: la cronaca non ferma la forchetta a mezz'aria, il fuori del fuori si fa soffio - fino a schiacciare.
NOTTE DI FESTA
I
E' tanto stare con la cenere attorno, stasera; e forzarsi a derivarla da una sigaretta - la via più facile era andata persa a Pavia coi suoi vicoli a incuriosire e poi scaraventarci in ciò che già si conosceva: da immisterirsi a immiserirsi, in un attimo.
II
Una specie inestinta di cenere. L'avevo addosso come una mossa maldestra, la loro, lì, insieme, a grappoli, a cantare.
Perciò cantino, che canto. È un venirsi meno, ma alla fine grazie per avermi orientato a me: non sentirsi più soli, e da così tanto, a volte spaventa come qui rispuntare comunque sempre e comunque sul Corso.
CONGEDO
Quasi dovessero animarsi, non ho risparmiato di una carezza ringhiere e corrimani, le spine dorsali di supporto per chi invecchia di tenerezza lasciando un luogo.
Ecco, ci si fa sentimentali per poco (ma per poco) solo osservassi che la loro costituzione è robusta, di vertebre incorruttibili ma illiberale verso, per dirne una, i monchi o i nani.
Non basta, e avanza pietà a prezzo basso.
Si sono visti musei gratuitamente, collezioni private cui seguiranno le proprie: asciugamani con rughe impresse dai corpi, bottiglie, abbracci, me sul punto di cambiarli con un mio qualcosa che non saprei.
Via i numeri recenti già vecchi ora che domani smette di valere un giorno; ora che, inflazionato, pretende ad anticiparlo un indeterminativo.
Ci si fa sentimentali, e l'esempio è della cabina da cui si stenterà - e non sarà dei codici la colpa - a dire «soy yo, hace cuànto tiempo».
INTESA
Centro vuoto, uscendo dall'aula. L'estate si dice avanti, e mente: gli edifici non si tramutano, l'afa è apprendista - non beffa.
Piante mezzo essiccate e tra queste un guizzo, modesto, fogliame sul castano (più lungo il settembre scorso, giù sul visino e sul maglione bianco... poi il taglio e il buffo messaggio la corsa il bus la febbre il Broletto il muro il secondo messaggio il pianto la panca e «c'è intesa, tra noi»: la frase).
Tredici e trenta. Questa fame fa muovere alla mensa soltanto. L'altra era di te, per te. È ora sepolta in una parentesi persa, pulsante un periodo... e tu,e te, te che da un realissimo, da un irreale angolo mi avvicini avanzi di focaccia, da un sacchetto di carta.
Allora oltre i messaggi i referenti oltre la corsa l'ansimo oltre il bus la carreggiata oltre la febbre il guarire oltre il Broletto tavoli oltre il muro sterpaglie oltre il pianto scie di sale oltre la panca stare seduti oltre la frase la sua grammatica, o un suono nell'aria.
DALLE DITA ALLA MANO
In un punto che poteva essere se stesso o un altro, cinque uccelli alla finestra. Erano al suo interno, ingessati, distinti da una luce chirurgica (la mia sintesi è stata sono nati museo per non morire - l'ossessione con cui pesavo il mio scrivere).
Lì hai liberato dalle mie dita la mano e con uno scatto migrato quelle penne da un pianterreno a un ricordo vivente. Mica a una memoria di magnesio. Da un interno si può rifare una strada, respirarla e come, respirandola, l'aria si realizza
ora c'è un piccolo stormo e non c'è sintesi mia né di foto che tenga, ma un gesto dove gli occhi (di chi?) si vedono giovani e non distinguono.
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Tracciato: Ott 13, 05:46
Tracciato: Ott 13, 05:46
Tracciato: Ott 13, 05:56
Tracciato: Ott 13, 05:56
Tracciato: Feb 23, 09:37