Basta aprire un qualsiasi giornale o sintonizzarsi su un qualsiasi canale televisivo e si registra un fenomeno, sempre più evidente, che, come un morbo
contagioso e virulento, riguarda tutti, analisti politici, giornalisti televisivi e della carta stampata, politici: una sorta di fariseismo linguistico
che impedisce loro (anche ai più impegnati e onesti) di usare i termini appropriati quando vanno a toccare argomenti particolarmente scabrosi e
personaggi pubblici con ruoli istituzionali. Per esempio, da diversi giorni è scoppiato il vibrione Ruby rubacuori: in televisione, sui giornali, sul
web non si fa che sentire o leggere tutte le imprese del nostro Presidente del Consiglio, le serate hard di Arcore, l’allegra brigata a pagamento, le
registrazioni di telefonate non certo edificanti corse nell’etere, improperi stizziti e pepati urlati nella cornetta, un impressionante traffico di
denaro a favore di questa, quella o quello, denaro spesso annotato con acribia in registri contabili degni della migliore tradizione dei mercanti
fiorentini, e tanto altro ancora. Ebbene, mentre le penne si sono esercitate nella creazione di neologismi e metafore, assonanze e figurazioni idonee a
titillare un incomprensibile ma reale compiacimento voyeuristico nel lettore-ascoltatore, raramente dal laboratorio lessicale della nostra pur
esaustiva lingua italiana sono stati attinti i lemmi appropriati. Si preferisce far ricorso a figure retoriche dell’attenuazione, velare pudicamente il
significato con slittamenti di senso ed eufemismi, sperimentare compiaciuti giochi linguistici tesi a coinvolgere il lettore-ascoltatore e perfino a
divertirlo, fin quasi a consentirgli una partecipazione attiva al bunga bunga nazionale.
Così le ragazze coinvolte nei festini, e generose delle loro grazie a pagamento, non vengono mai chiamate con il sostantivo che qualsiasi
dizionario consiglierebbe, cioè prostitute, e fino al punto che tale ipocrita e codarda omertà linguistica è arrivata a trasformarsi in censura,
concependosi addirittura l’impossibilità che il termine “prostituta” possa essere a buon diritto usato a proposito di queste gentildonne, come mi è
capitato di ascoltare nel corso di un talk show della gloriosa prima rete televisiva, cioè “Porta a porta”. Di rimando, alcuni giorni successivi,
l’ineffabile Sgarbi, ha sottolineato: “E’ evidente la strumentalizzazione che si manifesta nella insistenza con cui si chiamano prostitute tutte le
donne andate ad Arcore. E’ prostituta chi esercita un mestiere, non certo chi va a dormire o chi frequenta la casa di un uomo. Non è una prostituta ma
una donna, amante e libera di fare quello che desidera e anche di essere interessata”. Questa l’accigliata glossa lessicale del critico d’arte,
compulsato trasversalmente (non so fino a che punto poi sia corretto parlare di trasversalità) come opinionista nei vari canali televisivi, nazionali e
privati. Invece il termine cui si ricorre preferibilmente è "escort", che consente di ambiguare la realtà di riferimento, approfittando anche della
buona fede di persone poco avvertite e scarsamente attrezzate.
A mio parere, quando uno dei cosiddetti “festini” vede la partecipazione di tante fanciulle nude impegnate nell’esibire le loro grazie e nel
dispensare carezze e altro ai signori presenti, allora il vocabolario pretende che si parli di “orgia” e non di “cena” o “festino” o “discoteca” et
similia. Apro il dizionario curato da De Mauro e alla voce “orgia” leggo: "Nell'antica Grecia, cerimonia rituale misterica in onore di varie divinità,
caratterizzata da comportamenti sfrenati, manifestazioni tumultuose e dalla sospensione delle norme che regolano i rapporti sociali". E doveva essere
per primo uno straniero a usare appropriatamente la lingua italiana e a non aver paura di chiamare le cose con il loro nome. E non mi riferisco a un
umanista, bensì a
Nouriel Roubini, il massimo analista economico del mondo, che nel rivolgersi a noi italiani usa una terminologia idonea: “Siete di fronte ad accuse
di una vera e propria prostituzione
di Stato, orge con minorenni, ostruzione alla giustizia. Avete un serio problema di leadership che blocca le riforme necessarie" (
http://www.facebook.com/note.php?note_id=10150092948099756&id=291472488097
). Sempre lo Sgarbi mal tollera invece che si faccia usa del termine “orgia” e mi è stato riferito che è stato colto da una delle sue crisi furibonde
quando l’ha sentito pronunciare dalla sua interlocutrice nel corso di una puntata di Matrix.
Io non credo che s’ignori l’esistenza di questa parola, ma penso piuttosto che il termine pagano risulti impronunciabile a coloro che, pur critici,
pur all’opposizione, temono di irritare i veri poteri forti del nostro Belpaese, per cui una forma di rispetto e di pudore farisaici ammanta la nostra
lingua e costringe i vari locutori, sia pure impegnati in una qualche forma pudica di opposizione, a ricorrere a lemmi o a enunciati attenuativi.
Ovviamente neppure la Chiesa si sottrae a queste acrobazie retorico-morali così, a proposito delle abitudini del presidente del consiglio, Monsignor
Fisichella parla di "debolezza morale", eufemismo dalle braccia onnicomprensive idonee a giustificare comportamenti inammissibili e peccaminosi se
tenuti da altri, da anonimi cattolici che non ricoprano ruoli di potere politico ed economico.
Questo fenomeno mi preoccupa non tanto come cultrice della bella lingua italiana, quanto piuttosto come cittadina adusa a riflettere sui costumi
linguistici e non, poiché interpreto tale uso fumoso del lessico come segno rivelatore di un atteggiamento passivo e connivente che certamente non può
che stimolare successivi comportamenti e risposte sociali e politiche altrettanto tremebonde e inconcludenti. “Il linguaggio è azione”, ebbe a
scrivere perentoriamente lo strutturalista Tzvetan Todorov e, ancor prima, Ludwig Wittgenstein aveva altrettanto energicamente annotato: “I limiti del
mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Se è dunque vero che il linguaggio è azione, è altrettanto vero che l’uso inappropriato della lingua
conduce inevitabilmente a un’azione inappropriata, a una non-azione, se si usa un lessico distorto teso alla mitigazione consapevole e finalizzata. Se
si conviene con il Wittgenstein che i limiti del mio linguaggio coincidono con i limiti del mio mondo, allora l’attenuazione linguistica non può che
portare a una visione-rappresentazione del mondo attenuata, in cui non si distinguono più i confini tra il positivo e il negativo, tra la destra e la
sinistra, tra il lecito e l’illecito.
Tale pruderie linguistica, di cui si rivelano pericolosamente affetti i politici e gli operatori dell’informazione, sia radiotelevisiva che della
carta stampata, si fa segno linguistico di una sorta di subdola e, in alcuni casi, inconsapevole connivenza, che viene a stabilirsi tra analisti e
politici da un lato e chi deraglia dalle norme sancite dal codice etico e sociale mentre governa, decide e fa le leggi. E non a caso Di Pietro e
Travaglio, ai poli opposti del linguaggio e dello stile, gli unici che usino le parole appropriate sui fatti e misfatti di cui si parla in questi
nostri giorni, vengono considerati come pericolosi “rivoluzionari”. L’uno è visto come un rozzo utilizzatore finale della lingua italiana, l’altro come
un raffinato Robespierre dalla parola ironica ed estetizzante e, comunque, entrambi considerati come dei pericolosi sovversivi soprattutto di una norma
linguistica sempre più tentata dalla mitigazione e dallo sfumato, e per questo motivo ricacciati in un angolo e ghettizzati da una sorta di palese
disprezzo, che tuttavia cela irritazione e paura.
Anche se ritengo che nessun eufemismo, nessuna metafora potrà mai riuscire a edulcorare la realtà, penso però che un uso della lingua reticente e
allusivo serva soltanto da oppiaceo per addormentare le coscienze e le capacità inferenziali di chi legge e/o ascolta. Le parole e il loro utilizzo
inappropriato stanno edificando da anni, mattone su mattone, un codice etico e comportamentale ambiguo, elastico, tollerante e complice, che conduce
inevitabilmente alla non-azione, a quella sorta di paralisi che ha mummificato la sinistra e che ha regalato il Paese a un Presidente del Consiglio di
cui certamente non si può andar fieri, in base a quel che si sente e si legge.
Teresa Ferri