Domenica, 6 febbraio 2011
Perchè il mondo è vedovo? Quando il mondo è vedovo? Nel libro (se nel
frattempo non soccorre la memoria) si rinviene un exergo della Rosselli
di Variazioni belliche (anche solo dagli exerga si potrebbe
costruire una piccola biblioteca ideale di Turroni). Certo: il mondo,
come ciascuno di noi, è vedovo quando manca l'altro, la compiutezza, la
realizzazione dell'identità; ma lo è anche quando il male, l'assassino,
il distruttore "cammina ancora" e questo mondo contemporaneo, è già, quasi preventivamente, vedovato dalla ingiustizia degli uomini.
Libro epico, questo di Paola Turroni, come giustamente nota Bertoni nella sua nota. Intanto per come dice, per il suo linguaggio, linguaggio semplice, "povero", quindi dei poveri.
Un linguaggio che supera agevolmente certi falsi problemi di poesia in
prosa e viceversa. Non c'è assolutamente niente di artefatto o ermetico
in questo linguaggio, niente di sperimentale. Niente di mimetico, no, è
proprio condivisione, emozione. La ricerca, assolutamente perseguita
perchè sostenuta da un'idea forte, è semmai centrata sulle modalità
espressive, sulle forme, sulla voce, sull'oggetto del dire, sulla comunicazione, intesa essa anche nel suo pieno valore etimologico. Se volete, anche se non ho particolare simpatia per il termine, è poesia civile (ma anche qui superando certi nostri localismi di genere). E' (e credo voglia essere) anche e più teatro, mise en scène,
rappresentazione di scenari tanto banali (nel senso harendtiano) quanto
drammaticamente e insensatamente ripetitivi (e non è un caso che la
guerra, protagonista principale, si svolga sempre - come banalmente si
suol dire - su un teatro). E naturalmente questa è guerra di
effetti collaterali, è querra residuale, la peggiore, quella fatta delle
mine lasciate indietro, è quella subìta, la guerra dei poveracci, il
motore di molte migrazioni, forse proprio quelle che si infrangono sui
nostri scogli. E' anche, naturalmente, la guerra di tutti i giorni,
la guerra della fame, della sopravvivenza pura, del futuro improbabile o
negato. E anche la guerra dell'ovunque, nei molti luoghi di questo
libro, luoghi non nominati, forse Tehran, forse Sarajevo, forse la
Palestina o la Cina, forse qualche baracca dietro casa nostra. Che
importa dove, è la globalizzazione della miseria o dell'espropriazione,
il non-luogo del dolore.
Lavoro meditato, architettonicamente robusto, il libro è organizzato in cori (che col pensiero rimandano alle attività performative di Turroni); direzioni di
una rosa dei venti insieme geopolitica e sentimentale al cui centro c'è
un occidente un pò attonito e un pò cinico ("speriamo che non scoppi la
guerra proprio adesso / ho l'aereo tra due giorni"); valichi,
che non sono solo luoghi fisici, ponti, sbarre, campi di raccolta, ma
anche confini dell'anima, ostacoli da saltare, frontiere dell'umano
disconosciuto; e un funerale, sigillo del libro
(ma non termine della Storia, quella ricorsiva e terribile), luogo
memoriale ("i morti sono vivi e ci raccontano / la frana della sera"),
lamentazione quasi classica affidata, come il resto della narrazione,
alle donne. Le donne (e i bambini) sono centrali in questo libro. Gli
uomini, sembra di capire, sono altrove. Forse a combattere, forse
emigrati, forse morti in qualche luogo, spesso dall'altra parte, quella
dei carnefici ("dall'altra parte i soldati - non gli uomini", cosa ben
diversa). Donne e bambini come voci individuali senza nome e come voce
collettiva di "un qualunque 'io' nostro contemporaneo e primomondista"
(Bertoni), espressa con un tono che è tanto più denunciante quanto più è
nella narrazione pacato (ma non rassegnato), quasi tolstoiano. ...Le
donne, i bambini, "metà di una parte strappata, voluta, voltata", ciò che resta quando il mondo è vedovo.
Paola Turroni - Il mondo è vedovo, ed. Carta Bianca, Bazzano 2010, collana Poesia contemporanea, nota critica di Alberto Bertoni
loro che camminano
Camminano e arrivano alla fonte, tra le bestie del pastore hanno sete.
Lui guarda senza domandare - non vuole sapere le bestie hanno sete.
Si danno il cambio. Poca acqua, senza spingere solo un sorso, il caldo ha asciugato la rabbia.
Un sorso a riparare i ricordi perché non l' indurisca la sete l'assenza 0 lo scambio continuo dei morti.
Lui tiene il bastone in punta, appoggia le spalle lo tiene in punta per muovere i sassi e ritrovare la strada.
***
loro che camminano
Camminano, un cucchiaio d’oro questo grano uno specchio di sole per allontanare il volo impara il destino dei semi, quanto denaro manca a compierli tutti.
Le curve dei campi assomigliano a una donna i contadini gettano i semi, i grani sono figli sconosciuti che danno vita al monclo - a volte c`é il terzo campo, per il pasto del bestiame.
Questa carne della terra é calda e lenta il solco dell’aratro prepara l’attesa al parto.
***
C'è una cantilena da queste parti - per chi parla della diga quanto è lunga, quanto è alta, ventisei turbine diciottomila megawatt, tuttal’acqua che sarà.
Cantiamo - mentre lavoriamo ognuno canta cosa di suo la diga inghiottirà.
L'orto di bambù dietro il villaggio, i sacchi di riso nelle stalle, la veranda con la sedia nel punto del sole nel bar il tè pronto sotto il bancone, il negozio di ombrelli e la friggitoria, il camion della scuola, le bancarelle improvvisate nel cantiere, qualche animale da cortile, il battello che vendeva sigarette, le scarpe di tela messe ad asciugare e un bambino che chiede al nonno com’era il verde delle colline dello Yangtze.
Quelli che han gia perso la casa non lavorano piu. Aspettano che l`acqua salga, come altrove aspettano che l'acqua passi. Hanno portato sull`erba i mobili con la muffa, le pentole di ghisa, hanno messo una sedia sul bordo della strada.
La pausa dal lavoro è silenziosa, ci mettiamo in fila sul bordo della diga - il piccone tra le gambe mangiamo e parliamo di quando c'era il villaggio e con il villaggio il mercato e le mogli che facevano la spesa.
Le ossa mi escono dal petto fanno da rimbombo al fiume che passa finché passa - finché batte.
***
Si siedono sui binari con le lavagne sulle ginocchia le mani sporche di gesso - scrivete da dove viene il treno vi ricordate da dove viene ii treno?
Hanno un cuore diviso, quaicuno ha avuto un fratello hanno la pancia forata, se deglutiscono si arrendono.
Mostrano i denti restanti e magliette con scritto safari beach la scuola qui é stare vicini, non avere paura non avere paura, aimeno.
Cancellano le lavagne con le mani - poi scrivono il nome e da dove veniva il treno. Il mio amico quando è arrivato disegnava solo col nero, sono state le botte ad uccidere gli occhi ieri ha fatto un fiore arancio, dice che vuole diventare grande, che vuole diventare un uomo buono.
Io ballo, il mio vestito giallo si solleva sulle gambe balliamo, mio fratello è tornato - mio padre mi vendeva a quelli che venivano col treno erano tanti, erano grossi e svelti.
Ma ora cantiamo che mio fratello é tomato che ci siamo veduti - che ci siamo chiamati.
***
Voglio disimparare da capo e poi guardare gli occhi - da qualche parte avranno ancora gli occhi, quell'attimo attenti alla lavagna.
Forse hanno pensato al kulic mangiato la mattina o al trenino lasciato sono il letto - forse hanno pensato alla favola della regina di ghiaccio, di certo hanno chiamato madre - prima di finire in un sacchetto nero di plastica steso in fila agli altri - tutti neri e ordinati, irriconosciuti.
Il padre di chi ha ucciso gli ha detto la storia della rabbia tutti hanno ragione e tutti sono morti.
Ci sono storie lunghe intorno al fuoco e il fratello che sparisce - questa leva che trivella il fianco della guerra che non sfama, che irrisolve.
Io ti uccido - ho sentito - o mi uccido, uccido a caso e poi vediamo che succede - quale stirpe resterà nel cordoglio nazionale.
Noi annichiliti - e zitti nella gola.
Come lo guardi tu uno che urla?
***
Ho legato i pantaloni sulla testa - a sedare la frusta del sole, alleato ai militari che ai contadini non portano via la terra soltanto.
Nel viso si secca una riga al posto della bocca si seccano le ciglia a fare resistenza al pianto.
Tengo mia madre per un braccio - sputa sulla terra, baciala 0 tienila stretta in pugno.
Dalia riva li guardano arrivare - ma non stanno arrivando emergono solranto.
Avete sbagliato strada, avete sbagliato prospettiva nomi da pronunciare. Non trovano chi aspettano loro non arrivano - chiamano.
Ci sono braccia che stringono petti e braccia che cadono in mare, ci sono bambini che continuano a giocare.
Io, misera fuga, la camicia che puzza, i capelli impastati e la pancia.
Il vento solleva di peso la bandiera sulla nave dissero il nome tre volre tra i versi dei gabbiani.
Conto i centimetri di barba, come tacche sulle pareti della cella - e un occhio buono per badare l'orizzonte.
La terra tiene il sonno - é il conforto che rimane una terra orizzontale,
***
Una luce che arriva come polvere di una carovana un esodo di uomini residui, soldati contadini.
La luce viene da dentro, sorto la crosta delle ferite. La luce rimbalza nel fiume sui morti che passano, gira intorno, sale. ll buio avvolge, diluisce, discende. La luce si fa roccia - accoglie le membra vuote le facce incavate.
Spalle voltate 0 gerla fatica e sollievo, semina fiume 0 ferro cosa sono i figli?
Moritene tutti, disse non c’é distinzione nel sangue che si raggruma con la terra, fertilizza il pasto a questi animali - nonostante il pelo la puzza e i denti sembrano angeli.
Vecchie si specchiano nell’acqua si rivedono da vedove quando cercavano i morti da vecchie il tempo saccheggia.
Siamo lavoro e sudore e il loro sudore da lavare portiamo la pelle addosso il sangue dentro.
***
Guarda le braccia. Guarda le braccia del marinaio, guarda le braccia del contadino, guarda le braccia del becchino. Remare, zappare, seppellire, sono rotazioni simili e affondi. Cercano un punto questi uomini. Questi uomini adesso dormono, imprecano. Uomini assonnati e arrabbiati non vanno per mare non seminano, simulano un funerale per una fossa comune - come mettere la polvere sotto il tappeto.
Questi morti che diventano sale, non li abbiamo guardati. Dice il mito se lui si gira lei diventa di sale. Perché è lei che si deve girare, che deve guardare, che deve salvare. Queste donne che difendono la terra quando non possono più difendere gli uomini quando non possono più difendere il corpo. Queste donne che diventano terra quando non hanno piu latte e non hanno piu sangue.
Facciamoci vedove, noi, metà di una parte strappata, voluta, voltata. Facciamoci contadine, col corpo a maggese. Misuriamo la forza delle braccia, abbiamo cura della stanchezza della terra, abbondiamo i semi dell’uomo. Andiamo dentro e fuori dal fuoco, a insistere nell’inferno prove di sopportazione. Impariamo a passare, ammaestrate a gestare. A governare la pelle, Come una credenza, come un regno.
Quests parti dure di noi, i denti e le ossa, sono le uniche case possibili nella terra molle. Ogni muro diventa un costato - o una schiena. Qualcosa con cui avete a che fare, un'ernia o una costola. Qualunque cosa ne facciate dopo, una donna per esempio. Mura di una città assediata, e moli prima del mare - bordi qualunque cosa vogliate dopo, uno stato per esempio.
***
160303
Rassegna stampa, si legge a malapena il titolo “Richiamati gli ispettori dell'Onu” Seguono previsioni del tempo "Bene, dai venti di guerra passiamo ai venti di grecale ahimé le temperature si abbassano”
PAOLA TURRONI (1971) ha pubblicato ANIMALE (Fara, Rimini 2000), DUE MANI DI COLORE (Medusa, Milano 2003) con Sabrina Foschini. IL VINCOLO DEL VOLO (Raffaelli, Rimini 2003) di cui una selezione é uscita tradotta in inglese per la rivisra americana “How2". E' presente in varie antologie poetiche. Ha al suo attivo letture e performance in diverse città italiane. Suoi testi sono apparsi su diverse riviste e siti internet.
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