Ancora una riflessione di Elisa Castagnoli sull'arte contemporanea, che ospito volentieri nella convinzione che l'arte moderna, con le sue poetiche, offra molti spunti fecondi anche alla ricerca della poesia scritta.
Arman, Retrospettiva, Centro Pompidou, Parigi
Il “dechet” in Arman è il resto, il residuo, il lascito, l’anti-forma per eccellenza, l’inutilizzato delle nostre società attuali, lo stadio ultimo
della materia presa nella sua fase liminale di decomposizione organica. E’, ancora, quello che nel sistema industriale si pone come sur-plus, esubero,
prodotto in eccesso che satura il ciclo di produzione nell’impossibilità d’uno smaltimento. Il meccanismo gira a velocità incontrollata, genera
energia in eccesso, prolifera di un sovrappiù di materia che non riesce ad essere consumata, riassorbita, rimessa in circolo riemergendo in escrescenze
nefaste, potenzialmente pericolose, tali le cellule cancerogene, malate d’un corpo sano attaccando l’organismo in una de-compensazione lenta e
inarrestabile fino a toccare il suo punto di crisi, di non-ritorno.
Il dechet è dunque il residuo della società borghese, l’oggetto in quanto rigetto, non riparabile, usato, consumato e esecrato, implicitamente
legato al processo di rimozione, d’eliminazione dello stesso insito nella sua obbligata liquidazione.
La prima azione che si lega a questa massa di detriti organici, animali o minerali in Arman è quello del pieno, del riempimento fino al culmine,
dell’ammasso, del recupero d’oggetti in teche di vetro o in plexiglass. La decomposizione della materia nelle serie Spazzature/Accumulazioni è
arrestata, colta nel processo che la disorganizza, la de-crea, la de-costruisce nel senso d’una distruzione ma anche in quello che va al contrario
d’essa in una sorta di rovesciamento, svolta della medesima. Ricomporre é arrestare la distruzione, fissarla in una scatola trasparente dietro la quale
l’oggetto non appare più anonimo, passivo, residuo inoffensivo del meccanismo di produzione ma diventa opaco, impermeabile, refrattario allo sguardo.
Diventa “la massa critica dell’oggetto” nell’espressione di Baudrillard[1], il cui valore plastico è
re-investito, recuperato dal livello basso, nel suo isolamento in uno spazio delimitato, nel suo spostamento metaforico, moltiplicazione metonimica e
riappropriazione estetica.
La grande abbuffata
, (1970)
La massa indistinta di materia in decomposizione allo stato organico come fluttuasse in un liquido gelatinoso si ricompone in una sorta di quadro
multiforme, colorato, astratto dove si stagliano ancora dalla gelatina indistinta alcune figure e superfici: carte, cartacce, scatole, “bottiglie,
molte bottiglie di diverse forme e dimensioni in plastica o in vetro, con scritte impresse in colori vivi, violenti sopra, molta plastica, molti
imballaggi”. Involucri d’oggetti che divengono oggetti in sé, molte scatole di conserva, molte cose che, utilizzate per un certo tempo sono gettate
perché considerate desuete come, in altre teche, scarpe, collant, foulard, stralci d’abiti, sigarette, profumi. Un collage opaco nella massa liquida,
gelatinosa, tendente all’informe , stranamente colorato in chiazze bianche, argentee, verdi o arancio, diversificato in materiali, dalla plastica al
vetro, dalla carta all’alluminio. L’odore, il tatto, la saturazione sensoriale prodotta dal riempimento sono messi a distanza attraverso un
collante in resina poliestere che blocca il processo di decomposizione e trasforma una materia bassa, ignobile, immonda, immond-izia, in una
sorta di smalto brillante, fluttuante à plat sulla superficie. Le forme, nella loro corsa verso l’informe, sono imprigionate, messe in rilievo
contro il vetro trasparente, arrestate e, contemporaneamente, messe a distanza rispetto alla loro massa organica in uno sforzo d’astrazione.
Accumulazioni
“Nella ricerca del nuovo, ricerca resa necessaria dalla carenza e
dall’ esaurimento della pittura edonista e di quella gestuale d’oggi ho
in modo
cosciente esplorato il settore dei detriti, dei resti, degli
oggetti industriali rigettati, in una parola dell’inutilizzato” Presso
Schwitters più
importante del materiale é la possibilità insita nel valore
plastico dei frammenti, vale a dire il caso della loro congiunzione.
Affermo che
l’espressione dei detriti, degli oggetti possiede, invece, un
valore in sé, senza volontà d’un atto estetico che li obliteri, li
ricopra o li mascheri
nei valori d’una tela. Introduco, così, il senso d’un gesto
radicale senza remissione né rimorsi. Tra gli inutilizzati, un modo
d’espressione che
attira particolarmente la mia attenzione è l’accumulazione, vale
a dire, moltiplicare e fissare in un volume complessivo corrispondente
alla forma, al
numero e alla dimensione l’oggetto industriale nella sua
ripetizione.
“Non si tratta di decontestualizzare l’oggetto dal suo sostrato
utilitario ma, al contrario, di ri- contestualizzarlo su una superficie
resa
permeabile, densa, porosa dalla sua reduplicata presenza.”
Il lato ossessivo, ripetitivo, narcisistico, al limite
autoreferenziale della cosa nella proliferazione della medesima fa
pensare a una granulazione di
punti luminosi in una costellazione celeste, apparentemente
identici l’uno all’altro se guardati a distanza, rifrazione luminosa d’
una molteplicità
d’astri se visti al microscopio, sotto lente di ingrandimento.
L’esperienza della percezione si rende fluida, sfacettata, molteplice
nell’atto della
ripetizione, investita di diversi livelli temporali e soglie
spaziali attraverso la variante della durata.
Ammasso, detrito, abbondanza, profusione
“Il tempo non esiste, la memoria solo lo crea”. Frazionare il
suo continum rapportandosi a un tempo misurato e relativo, l’ora degli
orologi, dei
pendoli, dei cronometri, delle sveglie, dei fusi orari, è
semplicemente una convenzione. “In questa accumulazione di piccoli
universi, di galassie
prossime che considero con l’occhio del bambino e della memoria,
al di là della contingenza dell’oggetto ritrovo la vita, lo spazio e
dunque, al di là
del tempo, anche se non assoluto, il mio proprio tempo”. Le
accumulazioni, all’origine sono quelle della memoria d’infanzia, le
collezioni d’oggetti
rari in famiglia, gli armadi, gli scaffali che riempiono la
casa, l’universo composito e affascinante degli oggetti, dei mobili,
dei suppellettili
scoperti nel corso delle fiere e delle broccanti con il padre
commerciante. Poi sono i libri, i dizionari, i fogli, le pagine, tutta
la serie di
letture che accompagnano la sua giovinezza.
Le accumulazioni sono quelle dei vecchi appartamenti, delle case
stracolme d’oggetti , carte, cartoline, lettere, polvere depositata al
fondo dei
cassetti, cose dimenticate negli armadi, gli ammassi di
sopramobili, cianfrusaglie, i libri, le fotografie e tutto quello che
circoscrive il nostro spazio personale, lo delimita, lo sancisce,
lo rende non più anonimo ma abitato, singolare, presente d’una
presenza a noi stessi, testimone anche al crocevia dei nostri incontri,
impresso del marchio della nostra esistenza.
“La nostra società nutre il proprio bisogno di sicurezza con
l’istinto d’accumulazione”; bisogno d’assicurarsi, d’auto-garantirsi una
profusione, un
benessere, una saturazione materiale fino a toccare il gusto
dell’eccesso, del consumo fine a sé stesso nel puro piacere, dell’
inutile spreco per il
semplice bisogno di sentirsi cautelati, garantiti, preservati,
auto-sufficienti nel proprio microcosmo autoreferenziale.
“Non ho trovato il principio d’accumulazione, è esso stesso che
m’a trovato”, guardandosi intorno, lo si trova ovunque nella realtà. Le
vetrine dei
negozi ricreano cosmogonie in miniature d’oggetti di lusso o di
beni di consumo. E ancora, negli scaffali stracolmi di cibo dei
supermercati, nelle
catene di distribuzione di massa, nella profusione di merci a
basso costo, nella produzione seriale, nel sovra-peso dei corpi, nella
ricchezza dei
piatti, infine nelle pile di scorie, negli accumuli di residui,
rifiuti difficilmente smaltibili che gravitano ai margini delle nostre
società
industriali.
Diventa anche la percezione inquietante nel nostro mondo,
dell’invasione d’una massa di scorie tossiche, velenose, difficilmente
liquidabili,
potenzialmente distruttive come corpi estranei, nocivi
gravitanti intorno alle nostre vite.
“Con le accumulazioni spero di tradurre anche le inquietudini
sorte dalla riduzione degli spazi e delle superfici”, il restringimento
dei nostri spazi
vitali, abitabili, delle risorse prime che nutrono la terra,
dell’acqua che beviamo, dell’ossigeno che respiriamo, nei lager moderni,
l’invasione di
ferro e cemento, le nostre secrezioni industriali, le scorie
tossiche, radioattive seppellite al fondo degli oceani, potenzialmente
tumorali, i fanghi,
i liquami viscidi, oleosi che inquinano le nostre acque, i
veleni e i rifiuti ordinari, i composti organici, le vernici tossiche,
l’arsenico e il
piombo.
“Vorrei arrestare la velocità, l’esplosione, la
parcellizzazione, le particelle ricondotte al tempo, gli incidenti o gli
accidenti dove il caso è
sempre lo stesso e ancora una volta diversamente ripetuto”.
Le Accumulazioni in Arman: l’oggetto preso nel processo
di moltiplicazione può vestirsi d’un’aurea ironica, drammatica,
parodica, opprimente o
sovversiva; oppure essere semplicemente riassorbito, portato in
rilievo dalla superficie. “Ho sempre preteso che gli oggetti si
compongano da soli, per
sé stessi. La mia composizione consiste a lasciarli comporsi… Il
caso, nella misura in cui funziona su leggi universali, quella della
quantità per
esempio, non è più casuale ma diventa condizionabile. La mia
materia prima di composizione.”
Home sweet home
, è un’accumulazione asfittica di vecchie maschere d’ossigeno
costruite in metallo, maschere-simulacro del viso con tubi di plastica e
ferro gravitanti
pesantemente verso il basso. Movimento discendente tendente
all’entropia, ipostasi, ristagno di fluidi sanguinei e liquidi linfatici
nell’organismo.
La collera sale
misurata da un’accumulazione di manometri, strumenti ad alta
pressione; lancette girano al contrario, sempre più velocemente, la
temperatura interna
al sistema sale. Pressione massimale, esplosione imminente.
Misuratore di intensità: pressione interna, arteriale, venosa,
ipertensione,
ipersensibilità meccanismo lanciato a velocità folle,
sconsiderata,
raggiunge un punto di non ritorno, e li’ s’arresta al culmine, prima
di deflagrare, rovesciarsi come l’ultima goccia d’un vaso. E lì è
arrestato su un
supporto di legno e plexiglass.
Accumulazione di corni apocalittici d’avvertimento, ferri da
stilo fusi e a metà re-incollati insieme in una massa plastica fredda,
bombolette di
insetticida per dissecare insetti, bruciatori a gas, bunker,
fornellini da laboratorio, orbite e contro-orbite, toraci, braccia o
arti di bambole in stracci, manichini, materie dure, pesanti in vetro,
ferro e acciaio. Ruggine del ferro, lacerazione di stracci,
orbite tentacolari che si dis-orbitano, meccanismi che perdono le molle
allentandosi dal
centro, dis- funzionamenti di sistemi.
Colpi, collere
La collera viene dai visceri, è l’impulso degenerativo,
distruttivo, violento, è la rabbia incontrollata, è il meccanismo a
pressione che sale in
corpo. E’ un movimento caldo, feroce, rabbioso che esplode in
modo improvviso, inatteso, come tutti i movimenti delle passioni -
amore, odio, collera-
potenti, irrazionali, imprevedibili in una sorta di furore
sacro, partecipante del dionisiaco. C’è anche l’ebbrezza, l’esaltazione
del gesto
liberatorio, il furore cieco, quello dell’eccesso, della libido,
dei fluidi che salgono in corpo, scorrono, amplificano provocando una
stato di
disequilibrio, lo scompenso tangibile degli umori, un esubero
d’energia necessitante consumo in qualche modo.
Poi, c’è la
collera come la follia irrazionale dell’infanzia, quella che
esplode in un culmine di eccitazione, grida e singhiozzi; si manifesta e
si consuma in sé
come una deflagrazione, un impeto improvviso, a volte
semplicemente esplodendo nel gioco, in uno scoppio frenetico di risa,
oppure in una serie
cantilene, salti, o parole disconnesse. Esaltazione, isterismo,
fuoco di parole che volano da tutte le parti, fino ad esaurirsi ,
riassorbirsi rapido,
inatteso come era cominciato.
L’artista usa questi impulsi primordiali in varie performance
filmate, per esempio il gesto di fare a pezzi un contrabbasso al suolo (NBC Rage,
1961), oppure in Conscious vandalism (1975) l’atto di
devastare letteralmente l’interno d’un appartamento borghese
propriamente ricostruito.
“Credo che nell’azione della distruzione ci sia una
volontà d’arrestare il tempo, di sospendere gli avvenimenti
incollandoli, bloccandoli
insieme nel poliestere. Quanto rompo un oggetto faccio in modo
che i pezzi cadano in uno spazio dato, precedentemente delimitato.
Quando brucio
qualcosa arresto la combustione prima del suo consumarsi. Non é
mai un atto di distruzione totale ma ciò che mi permette di conservarla,
là dove mostro
la catastrofe. ” L’azione dei colpi, delle collere porta in sé
l’impulso degenerativo e, insieme, quello di fissare l’avvenimento “al
culmine della
catarsi” permettendo in questo modo all’azione-opera di
rappresentarlo, di renderlo manifesto. L’ impulso primordiale, il gesto o
lo slancio rabbioso,
l’irruzione incontrollata, la necessità pulsionale e
annientatrice contro la materia viene sublimata, infine, attraverso una
gestuale artistica
codificata nell’azione-performance, in Arman suggerita dalle
arti marziali.
Il colpo é movimento freddo, controllato, razionale che sembra
partire dall’analitica cubista della scomposizione dell’oggetto nello
spazio, la
proiezione all’esterno in un gesto esatto, efficace, essenziale,
nato da una concentrazione massimale d’ energia. Lo sforzo é quello di
decomporre
l’assetto finito d’un oggetto-forma_ gesto musicale, perlopiù
applicato ad archi, violino e violoncello_ gesto iconoclasta al limite,
ma controllato,
soppesato fino a parcellizzare la forma in sezioni che sono
state precedentemente definite. Applicato alla musica, all’impulso
ritmico e insieme al
lavoro di scrittura musicale, la decostruzione plastica
dell’oggetto rovescia il valore melodico della composizione . Nei Colpi
esiste ancora
una forma riconoscibile, razionalmente scomposta, l’anti-forma e
l’oggetto messi in primo piano. Dare la cosa nella sua versione
de-costruita, la
struttura percorsa da un movimento contrario di smantellamento,
l’oggetto rivoltato, rifatto a ritroso, ri-attraversato da
un moto
contrario simile a quello del partire, cambiare direzione,
divenire altro sul percorso, rivenire per altra via, essere là, ancora,
differentemente.
“Dopo il passaggio del tempo e delle tempeste recuperiamo i
relitti fluttuanti alla superficie della memoria allo stesso modo che i
pezzetti sommersi
delle nostre emozioni. Ammassiamo gli oggetti rigettati dal
mare. Il tempo distrugge, altera. Accettiamo queste distruzioni,
alterazioni del tempo e
della materia, li integriamo al nostro sistema di valori
estetici preferendo qualche volta gli oggetti tali che si presentano
oggi a quello che erano
un tempo”.
Ecole de Nice, video-performance, (1966)
Un pianoforte è messo a fuoco in una cerimonia simbolica
altamente sacrificale di fronte a un gruppo di convitati, testimoni
all’evento. Le fiamme
divorano a poco a poco il suo involucro esterno, alcol e
petrolio alla mano gettati sul legno. D’un sol colpo, l’incendio esplode
in un improvviso
bagliore; combustione di materia luminosa, un falò brucia
incandescente nella notte, in piena oscurità. Più tardi, i
detriti ancora fumanti
saranno ricoperti d’una spessa patina di plastica, liquida e
opaca, fino a fissarsi in uno stato non più di frammenti ma di lavoro
finito.
Combustione di violoncello su pannello e resina
.(1964) Qui il giallo smaltato, ocra e brillante, percorso
da aloni e chiazze slavate simili a cera che fonde al calore, domina
rinviando agli
immateriali in oro di Klein. Tutto è portato alla superficie in
un processo di sublimazione estrema dell’impulso distruttivo, nella sua
“estetizzazione” anche. Il ricorso alla resina poliestere per
fissare i detriti trasforma i residui d’oggetti in potenziali
“archeologie del futuro”.
Distruggere e creare si legano in un gioco di forze tensive,
oppositive, in un rapporto antinomico, che, tuttavia, in ragione di
tale paradosso,
libera l’oggetto spingendolo oltre le strutture usuali del senso
e della storia. L’oggetto rotto, tagliato, deformato, residuale o
recuperato come
scoria, fatto a pezzi o bruciato nelle combustioni, ritorna,
qui, ricoperto d’una patina di poliestere, acrilico o resina
nell’urgenza d’una nuova
iscrizione estetica, nella trasmutazione alchemica della sua
materia. Una sorta di alchimia si manifesta in questo momento preciso e
non un altro, come
l’atto conclusivo d’un processo che è stato attraversato nelle
sue varie fasi, plastiche o strati genealogici, fino a chiudersi in
circolo in questo
punto.
La sedia d’Ulisse
(1965) Una poltrona in stile Luigi XV viene bruciata in cima a
una catasta di rifiuti nel corso d’una combustione-performance pubblica.
Allo stadio
limite, quando solo le vestigia dell’oggetto, la struttura in
bronzo si rende ancora riconoscibile, essa acquisisce una nuova,
preziosa liminalità.
Stato di soglia, limine, metamorfosi, lo scheletro in bronzo
restando difficilmente in equilibrio sulle tre gambe si veste d’uno
smalto lucido,
delicato, in un passaggio alchemico verso una nuova genealogia
plastica. L’oggetto distrutto è sottoposto a una combustione che lo
decostruisce, lo
altera e insieme lo conserva , lo mostra e lo fa durare
differentemente.
(elisa castagnoli)
Immagini
1 La poltrona d’Ulisse, 1965
2 Chopin’ Waterloo, 1962
3 La collera sale, 1961
4 Portrait-robot d’Iris Clert, 1960
5 Frozen Civilization 2, 1972
6 Collera di violino, 1962
[1]
Cfr . Jean Baudrillard, La Trasparenza del male, Galilée, 1990
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