Architettura, pittura, fotografia
Il terzo giorno ho inventato sapori
ossuti come un disegno di Schiele.
Aprendo il frigorifero ho compreso
le architetture deserte del vuoto.
Sballato dalla fame, percorrendo
stradine dove gli uomini erano altri,
ho letto epigrafi straniere a iosa
scritte sotto la foto di un prodotto.
Tra i pinnacoli in cima alla città
di un duomo tardo gotico, ravvolto
in un kaftano sbiadito, ho intravisto
l'omino di Chagall, col suo violino.
Forse era meglio scendere. Incontrare
una lattina di tonno in un punto
della navata laterale, in fondo,
mi era parso possibile. Che errore.
*
Dita di dittatori duri, in fondo
dita d'amanti. Dita di mistero.
Dita che sciolgono zucchero nero
lungo strade notturne, inferno in fondo.
Dita avvinghiate al vuoto, tra lamiere
d'anni contorti, dita di bambine
stregate, dita tra un inizio e un fine.
Viscide dita viscido barbiere.
Dita del buio, tra memoria e vizio.
Dita incollate, morte in una buca.
Dita che scivolano da una nuca
a un seno, indugiano in un orifizio.
Con queste dita ho grattato le grate,
ho sgretolato mura, stretto lati,
segnato formule, estasiato Katy,
abolito estensioni illuminate.
Sopite dita d'assonnate dolly
parevano animarsi per rupie
e dollari soltanto. Tra le mie
si fermavano appena, ambigue, molli.
O ditini, ditini di bambini
che saranno domani d'assassini!
Innocenti, futuri ditalini,
liberi, instabili, esigui ditini!
*
Ho visioni di case che si sbriciolano
veloci sullo smeraldo dell'erba.
La terra miagola, infrangendo un micio,
simile a una scacchiera o a un cruciverba.
Quanto alla luna, è marcia, non ha schiena,
è una lampada da quaranta watt;
caccia sempre, e non è neppure piena;
scuce il suo albume sopra l'Ararat.
Il mare sale, come mille bare.
C'è uno zoo navigante, forse è l'arca.
Anche in questo momento, voglio amare.
Mentre annega persino la Parca.
La mia anima è vipera e giaguaro,
ma a che nuotare tra spumose spire
se insinua lingue di fuoco e curaro
tra le cosce di chi non saprei dire?
Figure oscure, chiare nella morchia
d'iride, nafta oleosa, merdaglia:
filigrane di fredda fiamma, borchia
di luce azzurro-alterno, alcool e paglia.
*
è la notte dei tempi
passa l'ornitorinco
con il suo libro di sabbah il suo labbro
di fibbia il suo stinco di santo
lo so lo so che il senso del mio amore
sa di papavero e nell'Edificio
la moda impone più metalli o carte
che vegetali o paperi
so che le torte azzurre
non soddisfano più che i necrofagi
e i numeri irrazionali
s'insinuano dentro i sarcofaghi
so di non essere in fondo
che un essere autobiografico
del resto l'alba è lontana
frulla tuttora il frigorifero
benché semivuoto
mi sporgo sulla bottiglia
travedo le mie mani a coppa
raspare le epigrafi esterne
lo so che potrei sventolare
una stupenda bandiera avvolgente
che si dice sottragga alla riva demente
i camerlenghi del giorno
*
Stremato, stento
a stare a posto: un mesto,
mesto me stesso, mastice
da cui mi stacco masticando stomaco.
Sto male, male; sto
bemolle, desto, stressato;
striscio sul lastrico,
non più ospitale, un istrice.
Strappo ostensori in incubi bistrati,
divoro ostie, cesti di corpus christi;
costi quello che costi,
mi darò in pasto ai prestiti.
Ma rospi d'ospiti, spiritati, aspidi,
avidi d'ostriche, roastbeef, toast, arrosti,
stitici, ispidi spiriti d'osti, impestano
'sto stipo d'ovest ostico ai cespiti.
*
Istante sesto
di cristallo gobain
in gòttingen; m'indario
tra vetrine di bussole e sestanti.
Ora sesta, delirio.
Il calendario non è storia,
il numero degli anni seppelliti.
Istante sesto, distante.
A sé stante,
un'assenza diffusa d'aria chiara,
tra palazzi impazziti di cristallo,
mentre fuggivo in treno ...
Solitudine vitrea, deliri
di numeri, armonie
compitate tra lunghi suoni ottusi,
fusioni d'ombre in padiglioni d'oro.
Era questo era senso era miniera?
unicità d'acque oscure,
pesci elevati, quasi cunei d'oro
che da abissi salissero alla luce.
*
Il gufo ulula,
la lupa ovula, la foresta
si dirada ai confini del silenzio,
piena di pini scuri,
giallo, topazi d'occhi, camomilla
officinale: polvere
è questo bosco, fango,
zuppa di funghi.
0 è la città che si dilata? Cresce,
come un oscuro violoncello. Cellophan
alla finestra, cielo viola, plastica
camminatura
d'animali stellari, lungo
il viale ...
Tram, trampoli, gru ... grucce, bar ... barili...
La sera, salamandra azzurra,
incendia vetri e vetrine,
occhi di bottegucce e di bagasce.
I muri, mari inviolati, si lasciano
leggere come romanzi d'amore
o propaganda stramba;
si propaga un errore mostruoso,
sghimbescia gamba d'angoscia, sghemba.
Stasera amore, gulasch, potlacht.
Il gufo cambia ramo.
O è la città che si dilata. O è l'ufo,
o il papa-giallo krakovino, kraaa ...
*
Volerai come un pazzo,
sarà già chiuso il desco ma potrai
ottenere il biglietto da un tizio
che sprizza via come un razzo, travolto
da qualche timore
e tremore, entrerai
nel teatro di vetro, troverai
un posto trasparente, dietro teste
opache, tra gente
oscillante, due griglie, alle soglie
del paradiso, un posto
indifferente ai molti che vi caddero,
percepirono il dramma,
si alzarono e furono numero, nulla,
ritorno improbabile;
e il tempo, l'assillo, il suo precipizio;
e l'intervallo, i mille screzi rotti
dei tuoi multipli umani,
percezioni tra specchi perspicui,
una sete che appanna l'irreale
pausa e ripiove
- per una lacuna di luce - nei limpidi
lidi della finzione:
maschere con la torcia,
angeli, santi, trovarobe, claque,
e nuvole appoggiate sulle quinte,
e tubi irrazionali, e tinte strane
che fanno spavento e non servono a niente.
*
quando i ricordi presero a danzare
sulle teste staccate del pallido giorno,
uno sciame d'arvicole, larve,
lamie beffarde e cellule impazzite
sottrasse alla mia mente il corpo.
io lo vidi dai tetti levarsi
e mulinare in un turbine rabido
di sradicate immagini e oggetti rapiti
per dissociarsene e pendere infine incastrato
in un verricello.
la folle girandola intanto
si trascinava dietro pulci, mutili
topi dal pelo rattoppato, bigie
creature di chiavica, stormi di gavie e locuste,
pile di libri, i crotali degli sciamani e anche un vescovo.
nelle vie dove i cani di marmo
aspettavano il morso della rogna,
osservai il suicidio dei dottori
che fu compiuto con riserbo, garbo
e consumata maestria.
il popolo moriva di peste
sotto il controllo di monatti calmi
e ben pagati, avvolti in giacche, guanti
e impermeabili, stanchi, coi colli slacciati
e la cartella sotto il braccio.
*
Così ascendendo tra i gorghi dei pini
vagavo tra le macule di scorze
nemiche al mio equilibrio ed era fango
il sentiero su cui tentavo ancora,
dimenticando le realtà connesse
a fili di sutura, colla, graffe,
colli supervisori di giraffe
oltre grate zoologiche, serpenti
acciambellati nella noia, centriche
riproduzioni di spirali spente.
Piccola la città, da questa curva:
immenso un fiore giallo, tondo il cielo.
E giungevo, travolto da turismo
d'angeli, ad anse, a slarghi, a prati d'ocra
bruciati ai piedi di rocce riverse
in pozzanghere verdi; nevicavano
occhi di foglie fragili; l'autunno
forzava i pesci a risalire, a perdersi
tra acque miste di neve; sussurravano
i boschi, attenti, meglio stare attenti.
Quante volte la sfera comatosa
e rossa tramontò nel mio taschino,
nero lago, profondo? E già crosciavano
forre di fogli di carta torrente,
ruscelli blu in cui il pesce era parola
e non avevo più ricordi, niente
da scrivere, non nonsense, non silenzi,
per la città dei lampioni assonnati.
*
La città, la trafila
di truci trabiccoli, i trespoli, i tremuli
tronchi dei trivii, i trasparenti intralci,
tronfi su proni, gazzelle su zebre,
i paesaggi pedonali,
i giapponesi di passaggio,
i sottopassi veloci, i soprusi,
il sottoproletario medio, i passi
nel buio, magonza,
coblenza, i pazzi, i duomi
rossi moltiplicati dalla pioggia,
i bar chiusi, la luna e musocco,
il dormitorio,
una grinza, puella
follemente agghindata di nulla,
la foggia (cubi scatolini case)
e per finire la mia buia stanza,
dentro cui si depositano, in notti
d'astri curcuma e curry,
i carri, i tram stratificati or mai
come in un debordante deposito: il metro,
la città, la traumana
aborticosa cupopoli, tana:
io nel pensiero me la fingo, e gongolo,
in psichi tetre di vetro, minuscolo
nano di Bruegel, dettaglio fiammingo.
*
Come uno spettro,
salirò quelle viscide
scale. Verrò da te per i gradini
ombrosi, i piani di pietra sconnessi
e lisi, poi farò cricchiare i cardini
della tua porta, a mezzo
assonnata dirai è solo il vento, è un sogno.
Penetrerò nel tuo sogno, leggero,
insidioso, girando
sempre più a fondo il pungolo d'orrore,
ti mostrerò le talpe
dagli occhi spenti che nel centro buio
dell'io scavano i luridi
gli incolmabili buchi senza sbocco,
certo, anche in te, giù, mentre
riposi: e per quel fragile
mistero entrerò lì con tutto il dolce
e l'angoscia e l'amaro del mio amore.
Uscirò dal silenzio
in un doppio silenzio lungo viali
lunari, o attenderò,
tra doppi fondi di valigia, grigio
all'alba, i gradi amari di un risveglio
che non dissiperebbe - ombra ispessita -
i perché che ti chiedi
della vita, del vento,
della mia assenza così strana, o è un sogno.
Tratto da Poesia Uno, a cura di Maurizio Cucchi e Giovanni Raboni, Guanda 1980
La foto di Dario Villa è di Antonio Ria © eredi Dario Villa fonte:www.sagarana.net
Dario Villa è nato nel 1953 a Milano, dov'è morto nel 1996. Ha collaborato a varie riviste in Italia e all'estero. Già overseas editor di ADDRESS (N.Y.), ha curato con Franco Beltrametti e Marta Pellis ARTE NANETTA (a portable museum to pocket the last decade of the millenium) e CODICE BIANCANEVE (a polyglot journal of poetry and the arts). Ha tradotto opere di narrativa e poesia dal francese e dall'inglese, tra cui Sonatas, di Basil Bunting.
Ha pubblicato Architettura Pittura Fotografia, AA.VV.(Guanda 1980), Lapsus in fabula (Società di Poesia-Lampugnani Nigri 1984), Proemi in posa (Scenario 1985), Tra le ciglia (Active in Airtime, Colchester UK 1993, con versione inglese di Tom Raworth), HAIKAI, half a century (L'impressione, 1994) , La bambola gonfiabile e altre signore (Giona 1994), Venere strapazzata dai lunatici, (Venus rudoyée par le lunatique, Aiou 1995), Abiti insolubili (Marsilio 1995), Tutte le poesie (Seniorservice Books-Feltrinelli 2001).
Altre notizie e testi sull'autore: su Blanc de ta nuque, Via delle belle donne e Sagarana