Venerdì, 22 gennaio 2010
Pensavo che, a parte le iniziative ufficiali, i poeblogs sarebbero stati inondati di sue poesie, ieri, nel ventennale della morte di Giorgio Caproni. E invece poco o niente, per quanto ne so. Buon segno. Vuol dire la sua "marginalità" rispetto alla poesia corrente si mantiene nel tempo, e questo non può che fargli bene, mantenendo una sua specificità, e limitando ridicoli tentativi di imitazione. Del resto Caproni non è automaticamente assimilabile, nella poesia attuale trovi quasi sempre qualche montalismo o qualche petrarchismo, ma è difficile rinvenire qualcosa, che non sia risibile, che assomigli al poeta livornese. Di Caproni si è detto (sporadicamente, perchè non c'è stata un'attenzione critica approfondita nei suoi confronti) che fosse preermetico e poi ermetico, impressionista e narrativo, patetico e lieve, ma di fatto Caproni era ed è un autore sui generis, capace come pochi di immergere profonde dinamiche psicologiche in una struttura cristallina, come una roccia metamorfica. Per quanto mi riguarda, ogni volta che leggo le sue filastrocche leggiadre e musicali che spesso contengono trabocchetti di senso mi viene da pensare che il suo essere stato maestro elementare (v. qui) c'entri qualcosa. Voglio dire, che c'entri un pò con la musica, un pò con il gioco, un pò con il girotondo che malinconicamente o allegramente si fa nel cortiletto della scuola e c'entri qualcosa anche con tutti quegli artifizi (le rime, i ritmi, i metri corti) che tanto sono d'aiuto per insegnare le poesie ai bambini. Facile pensare a Zanzotto, anch'egli maestro, e al suo petèl, il gergo infantile e poetico delle sue terre, di cui lui non credeva "che fa mal ai fiói". E' questo versante della poetica di Caproni, che non è abbassamento dei toni ma accostamento ad un altro linguaggio fatto di meccanismi perfetti che lui, tuttavia, a volte si divertiva a mettere in corto circuito, ad essere incantevole. Per lui fare poesia era questo modo saldamente impiantato nella tradizione italiana e tuttavia del tutto personale, come quello, tanto per fare un accostamento, di Sandro Penna.
Ripropongo qui nella sua interezza il poemetto "Il passaggio di Enea" tratto dall'omonimo libro del 1956, accompagnato dalla nota che Bianca Maria Frabotta scrisse in occasione della morte del poeta sul n. 26 di Poesia (febbraio 1990). Per altri interventi e testi (di Bigongiari, Cucchi, Caporali) rimando a quella pubblicazione, come pure al n. 36 del gennaio 1991 (testi di G.Bertolucci, Frabotta, D'Elia)
Il passaggio d'Enea
1 - Didascalia
Fu in una casa rossa: la Casa Cantoniera. Mi ci trovai una sera di tenebra, e pareva scossa la mente da un transitare continuo, come il mare.
Sentivo foglie secche, nel buio, scricchiolare. Attraversando le stecche delle persiane, del mare avevano la luminescenza scheletri di luci rare.
Erano lampi erranti d'ammotorati viandanti. Frusciavano in me l'idea che fosse il passaggio d'Enea.
2 - Versi
A l'accent familier nons devinons le spectre.
La notte quali elastiche automobili vagano nel profondo, e con i fari accesi, deragliando sulle mobili curve sterzate a secco, di lunari vampe fanno spettrali le ramaglie e tramano di scheletri di luce i soffitti imbiancati? Fra le maglie fìtte d'un dormiveglia che conduce il sangue a sabbie di verdi e fosforiche prosciugazioni, ahi se colpisce l'occhio della mente quel transito, e a teoriche lo spinge dissennate cui il malocchio fa da deus ex machina!... Leggère di metallo e di gas, le vive piume celeri t'aggrediscono — l'acume t'aprono in petto, e il fruscio, delle vele.
T'aprono in petto le folli falene accecate di luce, e nel silenzio mortale delle molli cantilene soffici delle gomme, entri nel denso fantasma - entri nei lievi stritolii lucidi del ghiaino che gremisce le giunture dell'ossa, e in pigolii minimi penetrando ove finisce sul suo orlo la vita, là Euridice tocchi cui nebulosa e sfatta casca la palla morta di mano. E se dice il sangue che c'è amore ancora, e schianta inutilmente la tempia, oh le leghe lunghe che ti trascinano — il rumore di tenebra, in cui il battito del cuore ti ferma in petto il fruscio delle streghe.
Ti ferma in petto il richiamo d'Averno che dai banchi di scuola ti sovrasta metallurgico il senso, e in quell'eterno rombo di fibre rotolanti a un'asta assurda di chilometri, sui lidi nubescenti di latte trovi requie nell'assurdo delirio — trovi i gridi spenti in un'acqua che appanna una quiete senza umano riscontro, ed è nel raggio d'ombra che di qua penetra i pensieri che là prendono corpo, che al paesaggio di siero, lungo i campi dei Cimmeri del tuo occhio disfatto, riconosci il tuo lèmure magro (il familiare spettro della tua scienza) nel pulsare di quei pistoni nel fitto dei boschi.
Nel pulsare del sangue del tuo Enea solo nella catastrofe, cui sgalla il piede ossuto la rossa fumea bassa che arrazza il lido - Enea che in spalla un passato che crolla tenta invano dì porre in salvo, e al rullo d'un tamburo ch'è uno schianto di mura, per la mano ha ancora così gracile un futuro da non reggersi ritto. Nell'avvampo funebre d'una fuga su una rena che scotta ancora di sangue, che scampo può mai esserti il mare (la falena verde dei fari bianchi) se con lui senti di soprassalto che nel punto, d'estrema solitudine, sei giunto più esatto e incerto dei nostri anni bui?
Nel punto in cui, trascinando il fanale rosso del suo calcagno, Enea un pontile cerca che al lancinante occhio via mare possa offrire altro suolo — possa offrire al suo cuore di vedovo (di padre, di figlio — al cuore dell'ottenebrato principe d'Aquitania), olte le magre torri abolite l'imbarco sperato da chiunque non vuol piegarsi. E, con l'alba già spuntata a cancellare sul soffitto quel transito, non è certo un risveglio la luce che appare timida sulla calce — il tremolio scialbo del giorno in erba, in cui già un sole che stenta a alzarsi allontana anche in cuore di quei motori il perduto ronzio.
3 - Epilogo
Sentivo lo scricchiolio, nel buio, delle mie scarpe: sentivo quasi di talpe seppellite un rodio sul volto, ma sentivo già prossimo ventilare anche il respiro del mare.
Era una sera dì tenebra, mi pare a Pegli, o a Sestri. Avevo lasciato Genova a piedi, e freschi nel sangue i miei rancori bruciavano, come amori.
M'approssimavo al mare sentendomi annientare dal pigolio delle scarpe: sentendo già di barche al largo un odore di catrame e di notte sciacquante, ma anche sentendo già al sole, rotte, le mie costole, bianche.
Avevo raggiunto la rena, ma senza avere più lena. Forse era il peso, nei panni, dell'acqua dei miei anni.
Tornando al Passaggio d'Enea
All'alba del 22 gennaio, all'alba di un nuovo decennio che si inaugura in mezzo al frastuono di sconvolgimenti politici e sociali che sembrano epocali, è morto a Roma il poeta Giorgio Caproni. Quasi tutti i giornali all'indomani di quel triste evento hanno annunciato la sua scomparsa come la morte di un "grande" del Novecento. Si dice che la società di solito riconosce e ama ì suoi poeti solo dopo la loro morte; non è sempre vero e Giorgio Caproni da almeno vent'anni a questa parte aveva trovato, soprattutto fra i giovani, nuovi, inaspettati estimatori. Ancora nel 1965, però, in un'insospettabile rassegna critica come La poesìa italiana del Novecento di Giannì Pozzi, Giorgio Caproni era confinato fra i "dissidenti" e gli "oppositori" in una zona di palese influenza sabiana. Eppure a quell'epoca lì poeta livornese aveva già pubblicato capolavori assoluti come le Stanze della funicolare e Il seme del piangere. Una famosa antologia "di parte", come quella curata nel 1969 da Edoardo Sanguineti, Poesìa italiana del Novecento, all'opposto ne deprimeva l'originalità al punto di schierarlo forzosamente fra i poeti ermetici, ricordandolo, per dì più, quasi esclusivamente come l'autore dì Scalo dei fiorentini e I ricordi, certo trascelte come uniche punte crepuscolari di una raccolta aguzza e amaramente pariniana come il Congedo del viaggiatore cerimonioso. Di lì a dieci anni, nel 1975, Pier Vincenzo Mengaldo avrebbe compensato questo torto concedendo a Caproni un ruolo centrale fra i Poeti italiani del Novecento. Il seme del piangere, la sua innocenza stilistica, l'incanto popolare della sua invenzione sarebbero esemplari di una verità che a me pare discutibile: "alla viva partecipazione alle vicende della storia che ha caratterizzato il Caproni uomo si contrappone nel poeta un sentimento dell'esistenza e dell'umanità come innocenza originaria, sottratta alla storia". Questa opinione, nelle intenzioni di Mengaldo certo fortemente lusinghiera, nei fatti è ancora una volta insidiosa verso una poesia che è tutt'altro che liquidabile nella sua apparente semplicità, nel suo presunto intimismo, ma al contrario è quasi incomprensibile fuori dei suo complesso, anche spesso "invisibile" schermo allegorico. Anzi, non è affatto da escludere che l'attuale fortuna critica di Giorgio Caproni sia proprio da attribuire a un rinato gusto manieristico che giustifica però il ricorso alla tradizione più come luogo dì apprendistato esistenziale all'esperienza che manipolazione di strumenti puramente tecnici e metrici. Citando infatti in ordine cronologico le diverse "maniere" dell'autenticità di Giorgio Caproni si ottiene uno stupefacente e variegato ventaglio di invisibili calchi: dai bozzetti impressionistici di Pascoli, al sonetto di Tasso e di Michelangelo; dalle stanze polizianesche all'allegoria epica di Virgilio e di Dante; dalla ballata dell'eretico Cavalcanti alla canzonetta arcadica e pariniana, fino al recente "mottetto" montaliano, corroso da un'intrusione ungarettiana di pause e silenzi. La voce arcaica tràdito che deriva dal latino tradere o consegnare, da quando Giuda abbandonò Gesù nelle mani dei suoi nemici non implica forse anche il sotto-senso del tradimento? Il passato che genera il presente ha dalla sua la forza della continuità, del tempo che scorre nel suo verso e il figlio riconosce l'autorità paterna solo quando ne trasmette a sua volta il principio ai figli, imparando a dissodare il suo orto anche in funzione dell'eredità. Solo che Giorgio Caproni, a differenza di Ungaretti, da cui potrebbe aver imparato la dolce violenza della memoria anche più desueta, vive e scrive in una società senza padre, come dimostra la sua poesia più grande e, dunque, per estensione metonimica, senza Dio. Il tradimento dunque implicito nel suo rispetto per la tradizione è acefalo, spostato, reso più amaro dalla consapevolezza dì una sottrazione, di un torto subito. Ed è per questo che io vorrei offrire all'attenzione dei lettori di "Poesia" la rilettura di un poemetto lontano negli anni, ma vicinissimo, io credo, alla dura attualità dei giorni di transizione epocale che stiamo attraversando. Mi riferisco al Passaggio d'Enea, pubblicato nell'omonima raccolta del 1956, quando Giorgio Caproni intendeva affrontare, con le sue oneste armi di poeta il problema della ricostruzione della civiltà dalle rovine della guerra. Nel Passaggio d'Enea l'impossibilità di sciogliere l'aenigma dell'incertezza storica di quegli anni in un verdetto basato sull'omonimia (un significante capace di designare significati diversi ed eterogenei secondo una sola interpretazione) precipita nell'ossessione simbolista dello speculum, magistralmente rievocato nell "'assurdo delirio" della terza strofa dei Versi. Nel tema romantico-simbolista del "doppio", l'allegoria è spesso esitante; non possiede cioè quella sicumera necessaria a oltrepassare la nebbia della lettera e della rappresentazione del simbolo, ma non per questo rinuncia all'aspirazione razionale di riconvertire il mithos sul logos. Invece di ricongiungersi all'effigie paterna, come vorrebbe l'episodio del VI Libro dell'Eneide, invece di raccogliere dalla bocca di Anchise il vaticinio di una storia laica fondata però sui pilastri di un'indiscutibile ontologia, Enea, controfigura semi-sublime del Soggetto poetico, non riesce ad incontrare altri che se stesso e la sua ambiziosa prosopopea si trasforma nella eroica spedizione di Orfeo che, al massimo, potrà riconoscere in sé il fantasma della moderna poesia, quell'Euridice "cui nebulosa e sfatta casca la palla di mano" nell"'amer savoir" di cui parlava già Baudelaire, consapevole che nessun turistico voyage potrà ripristinare i fasti del Viaggio iniziatico. Nelle rovine del "passaggio" dal classicismo al simbolismo, i due grandi sistemi dell'Istituzione Poetica occidentale si specchiano l'uno nell'altro in un disincantato quanto amaro riconoscimento, e in questa allegoria "esitante" fra la verticalità ermeneutica del Senso e l'orizzontalità della Storia Giorgio Caproni ci lascia, alla fine degli Anni Cinquanta, la sua più aita testimonianza poetica e, io credo, una lezione per tutti noi.
Bianca Maria Frabotta
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