Sabato, 28 novembre 2009
Non
è agevole parlare di un libro che, in un certo senso, non c'è. Non ha
ancora forse la sua stesura definitiva, la sua struttura organica,
forse nemmeno il suo titolo, e vive nei dilemmi della sua autrice. In
questo corpo ancora in mutazione come quello di un adolescente non è
facile dire cosa venga prima e cosa dopo, attorno a quale nucleo
temporale l'ispirazione dell'autrice si sia addensata.
Ma non importa, basta incominciare a leggere. Questo libro, che per
comodità ipotizziamo di chiamare "I Compianti", nasce dalla penna di
Maria Pia Quintavalla. E nasce, come mi dice Maria Pia in un suo
messaggio, da un evento luttuoso e dalla conseguente chiusura di un
"luogo", in senso non solo metaforico ma anche fisico. So per
esperienza cosa significa, dopo la morte dell'ultimo genitore rimasto,
non solo chiudere una casa, ma anche svuotarla di cose, oggetti a cui
siamo legati, ricordi tangibili e concreti, suppellettili, insomma una
vita intera, "quel groviglio di mobili e cimeli", dice Maria Pia. Il
compianto che ne nasce è rimpianto, nella migliore delle ipotesi. E'
rimorso invece quando, nella peggiore, ci si lascia sommergere dalla
sensazione che attraversata quella soglia, fisica o metaforica che sia,
ogni comunicazione (il non detto ma soprattutto quello che avrebbe dovuto
essere detto) sia interrotta per sempre. E' questo forse il nucleo
centrale di questo libro: la radicalità degli eventi, quando la poesia
rimane un'eco, uno strascico, perchè il distacco è definitivo. Si parla
da soli, nessuno risponde, e in questo la poesia assomiglia a una
preghiera recitata contro il muro del pianto.
In
questa situazione è quello che non è stato detto o fatto, ovvero ciò
che non può più superare la soglia, che assume importanza per il poeta.
Ma è possibile dire senza legare le parole ai luoghi e a quello che i
luoghi (non solo la casa, ma anche Parma, la campagna) rappresentano
come storia, affetti, memorie? Già nella prima sezione del libro,
"Ospite in visita alla casa", si tenta una perlustrazione della scena,
una specie di inventario che è anche tentativo di fissazione dei
ricordi, in vista della chiusura definitiva del luogo. Così il poeta si
sofferma sugli oggetti già segnati dal tempo (le etichette ingiallite,
le sedie dai piedi spezzati, i biscotti larvati), li mescola ai
ricordi, ai suoni e alle voci già spenti, attraversa nel tempo
(l'irreversibile tempo/durata di Bergson) e nello spazio la casa. La presenza di chi è scomparso si è scomposta e ricomposta
in questi segnali di abbandono, in cui perfino la natura si insinua (le
edere comparse a forza nelle stanze), ed in essi è diventata
inintelligibile, di una diversa materia. E
con qualche inquietudine il poeta finisce per sentirsi e definirsi
"ospite", con quel tanto di estraneità irrimediabile che la parola
comporta. Anche
la perlustrazione della casa, il tentativo di affidare il luogo, gli
oggetti, l'inventario delle cose alla memoria tecnologica di una
cinepresa si risolve nell'illuminarli di una luce definitiva e crudele,
troppo simile a quella della fiamma della saldatrice che chiude per
sempre la bara. Ma non c'è niente che possa sostituire la memoria
personale, lo sguardo che spazia dentro e fuori la casa come un
paesaggio si fa versi di puro ricordo, quasi di colloquio con chi non
c'è più. E' lo sguardo circostante, quello che fai girare
consapevolmente per l'ultima volta (lo so, ci sono passato), che compie
l'ultima registrazione.
C'è spazio per la memoria. Tutto questo libro, vasto e articolato, è
un memoriale, come del resto tutta o quasi l'opera di Maria Pia
Quintavalla è un vasto e eroico tentativo di fissare il senso delle
cose e della vita con il mastice del pur labile ricordo. In questo non
si discosta dall'imponente mainstream (come direbbe qualcuno) della
lirica del Novecento, ma questa appartenenza non ha nulla di
manierista, non c'è citazione, né rimando. E' piuttosto il messaggio
che sceglie il suo mezzo, è scelta consapevole di stile in relazione a
quello che deve essere detto.
Nelle altre sezioni del libro (sette? otto? chi può dirlo) il percorso a ritroso nella rammemorazione, l'inventario degli episodi di vicinanza che alimentano il rimpianto si allarga. Una regressione in episodi giovanili
o meno recenti di vita affettiva, una serie di "occasioni" su cui la
percezione si è appuntata e incardinata, nella necessità, così comune
al genere umano, di non far scivolare tutto nell'oblio. Così Maria Pia
si sofferma, con testi molto belli e lirici, su un recupero memoriale
che seppur frammentato, quasi a flashes, è fortemente iconico e
coinvolgente. Si suppone in esso un fissare ormeggi a cui sia
necessario ancorarsi perchè non tutto sia perduto,
non solo il compianto però, anche le incomprensioni, i complessi, i
piccoli conti in sospeso, come nella sezione intitolata "Che cosa hai
fatto per il padre, figlia?". Questo soffermarsi, noto incidentalmente,
non ha niente di preordinato. Forse il libro stesso ha poco di
preordinato, in un certo senso. Le stesse sezioni mostrano differenze
di stile e forse di afflato, di spinta. Ci sono testi commoventi e
testi criptici, sicuramente scritti in tempi diversi, e del resto è la
stessa Maria Pia ad avvertire che le sezioni sono "poemetti", cioè una
serie di forme in sé concluse legate da un preciso filo rosso. Tuttavia
è bene dire che questo stato è anche nella natura stessa della fonte
principale di ispirazione, il lutto, la sua elaborazione, il tentativo
di riconciliare intere coordinate di fatti e memorie. E' stupefacente
quello che di vario e distante ci ritorna alla mente in queste
occasioni. Che questo tentativo possa essere vano o parzialmente
fallimentare il poeta, l'artista in genere, lo mette in conto. Ma sa
che deve essere fatto. Dice Maria Pia in uno dei testi del
libro: "Come potere trattenerti non sappiamo, / ma infine come nel
gioco della retina / ed un suono tracciato trattenuto / risuona stretto
a te / un abbraccio di conchiglie vuote". Tentiamo, sebbene ci restino.
montalianamente, poche cose scabre ed essenziali. Ma bisogna sempre
tenere presente che il ricordo è un dato esperienziale caricato di
affettività che nel tempo e nella durata mantiene uno straordinario
carattere biunivoco. come una comunicazione bidirezionale. Ed è perciò
che l'autrice afferma, in un altro brano di grande valore poetico: "Non sai che trattenerci è il tuo mestiere / mentre noi non possiamo farlo a te,
legati / a ritmi di catene sonagliere / al tempo che tintinnano
toccando terra / raspando l'aria dei bambini / che persero l'infanzia
quella nascosta". In arte in generale e nell'opera di Maria Pia Quintavalla - qui e in occasioni precedenti -, l'elaborazione
del lutto è elaborazione poetica, logos, esercizio e potestà del
linguaggio e in ciò è discrimine e separazione, ripeto, tra chi tace
per sempre e chi con il linguaggio restituisce un'immagine eidetica e
si fa messaggero dei morti, confinati però nel loro regno. In ciò è
anche, quindi, esorcismo, il ristabilimento di un diritto, il definire
il distacco e farsene una ragione, come se fosse un passaggio all'età
adulta, forse con un qualche sollievo, per quanto questo possa apparire
contraddittorio. E' la consapevolezza dell'arte di fronte all'evento,
seppure ineludibile, della morte. Quando a volte questa primazia non
funziona, il rischio è di cedere ad una illustrazione funerea e
vagamente retorica della morte stessa ("al piano basso di quel
condominio / di ossa che fu carne"), come se essa riprendesse il
sopravvento sulla rappresentazione. Se esempi in tal senso ci sono in
questo libro, non è una questione di maestria del poeta, ma un problema
di focalizzazione degli elementi costitutivi della materia poetica o
semplicemente dell'esperienza, così difficile da riordinare perchè così
drammaticamente traumatica ("se testimone fossi dell'intero, / nel
verso io potrei smorta carpire / un suono madido che afferra", dice
Maria Pia, ed è pleonastico sottolineare la bellezza di questi versi).
La stessa ragione - la focalizzazione - per cui forse,
in questo libro, da una parte la distanza seleziona il ricordo, diventa
lirica, come nella sezione "Più in là del Po", dall'altra la vicinanza
(al lutto, al dolore) spezza in altri testi, anche sul piano
sintattico, il fiato del verso.
Il tempo, si diceva. E il luogo, anche. Vorrei per chiudere dire due
parole sulla questione del luogo. Che come dicevo non è, in questo
libro, solo la casa. Come afferma il filosofo Luciano Nanni, i luoghi
non sono neutri, hanno invece "un potere formante autonomo fortissimo",
anche ovviamente culturale. In questo libro perciò c'è la casa paterna,
luogo della crescita fisica e affettiva e delle relazioni, in cui le
cose e le persone hanno valore perchè sono in quella casa
e da essa sono inverate; ma c'è anche la campagna più in là del Po,
dove "i cascinali invece i casolari erano / su sfondo antico,
soleggiati", dove il padre e la figlia passeggiavano tenendosi per
mano; e c'è, un pò alla distanza, nel paesaggio, fisico e mentale, "sullo sfondo / la città ricca in problemi e case, / natura snaturata", la città di Parma, la sua aria, la sua cultura, il Correggio e i "Compianti"
in terracotta a lui ispirati, quelli di Mazzoni, quelli di Begarelli,
che fanno da sponda e icona ispiratrice a questo bel libro (futuro) di
Maria Pia Quintavalla. Pubblico qui, rispondendo anche all'idea di unitarietà del lavoro
di M.P.Quintavalla, l'intera sezione "Ospite in visita alla casa",
anche se mi rendo conto come questo possa dare, anche rispetto a quanto
scritto, solo un'idea parziale del libro.
Compianto in terracotta, I
Ospite in visita alla casa
Si è scomposto e ricomposto ecco perché non l’ho trovato più,
nelle camole secche del bicarbonato nei vasetti bianchi di ultime etichette che essudavano ingiallite, nei biscotti con le larve che cedevano molecole nei silenzi rotti da silenzio fatto suo, nelle edere comparse a forza nelle stanze dove tentavano le selvatiche, di attorcigliarsi al poco in caffettiere senza l’alone blu di vita trattenuta scorta per la famiglia intera, sulle sedie dai piedi spezzati sulla tavola bianca nelle scarpe regalate via, ad altri vecchi nell’ordine morto dei medicinali, e non utilizzati e non scaduti
in campiture provvisorie incalcinate di sepolcro nelle stanze, lo trovai che stava andando, aperto il patto sepolcrale il varco già rinchiuso lo cercai e non lo cercai gli odori di cuscini secchi da calore bianco non più orma d’odore madido dove non si era ricomposto, il travaglio ( mise le mani che bruciavano in preghiera affannò, lottò si spense).
Cosa feci quando portai la cinepresa, recai l’ultima fiamma guizzo al posto di quell’altra l’ossidrica che chiuse il tutto, forse pensavo salutare in modo tecnologico come si portano fiori il giorno della sepoltura i giorni dopo mesi, gli anni a venire -
ma non si va volentieri al commensale se non c’è una conferma di speranza e pace.
Ora in quarantena dopo la peste i soffi il vento sento le orecchie muoversi giulive come quelle di un asinello che sorride, dai, Va’ in pace allontanati da qui, non è il momento ancora di commiatare salutarci in riso. Scappa pensando che sia vero tornerò che io risorgo alle radici, credici tu che sorge il sole come ogni sera il vespro
In stormo: dillo in di preghiera le colline si abbracciano e allontanano nel silenzio cosmico digiune ogni parola una parvenza fa preda le più belle;
andrò nel centro di quel mondo antico e vinto, più reale di un Cristo che dardeggia ridipinge i mondi a fare luce nel meriggio contemplando quel convento da sogno lui, la sera guardava col naso appiccicato alla finestra liscia traccia di fiati riprodursi dire, Guarda che bello, solo qui c’è pace.
Io, col naso fiatando riconoscere la grotta del convento la Madonna nera stupita, ridere di ogni cosa. Senza quel posto il mondo non si accende domani sarà tardi non ci verrai più: questo lo strazio di un mondo già crollato e solo perché p e r f e t t o nell’indaco del suono -
tu Piero mansueto, come docile somarello alzi le orecchie succhi il brodo ma tintogni vai adagio, poi ti arrabbi bistratti ridi giochi ai modi del burbero col cane allunghi il cappio non sapendo era lì la gola brancicata -
Fa soffrire la voce di ogni donna trascinata da un sottile padre
ma l’Edipo è una storia un po’ attempata che riporta la bambina al suo padrone, senza scarpe le assegna un solo passo quello del desiderio e del castigo.
In braccio al suo babbino la seduzione è lenta stanca, non produce (più) battito cardiaco ma dolenti note del ritiro, stracche.
La luce di cinepresa andrà ad accendere avverare l’ultima vita (oh, non diciamolo) che avanza - Correvi sulla passerella, l’anima in vista bella bianca come una cresimanda che si fa più amare:
ti applaudiremo sarà danza, intanto voci che guidano il canale nella spia luminosa chiedono grazia e acque da tagliare
per sentirti più vivo qui vicino, a consigliare di andare a pascolare di antiche passeggiate ai passi tuoi vicini o ai più lontani amati.
Aspettami tu, Piero ma anche la tua Gina che insieme fate il pane agli angeli la sera, prima di sorvegliarci con le sue preghiere.
Non conto più gli oggetti alle pareti ma sagome vive nel silenzio, alberi a festa che circondano a campana. Sarà l’impronta del tuo seguito la cena, a segnalare aria lì davanti sacralizzare di ogni chiesa le aperture finestre senza sepoltura una campagna a festa esplosa una madrid da passeggiata sempre i luoghi il mondo sapranno di noi dove nascosto
alle tende mormoravi, Siamo nati e moriremo qui, vicino a voi come una greppia un asino ed un bue e tu il Gesù convinta di parole mute di segni annosi giù nel fondo al creato come se fosse intatto il tempo il mondo. L’eterno tutto qui insepolto fresco di mondi indelebili, f u t u r i.
Un'altra intera sezione che, si presume, andrà a formare il libro, puo essere letta su LPELS (v. qui). Si tratta di "L'età moderna", una serie di testi in cui Maria Pia chiama sulla scena la sorella come coprotagonista del ricordo, così come in altre sezioni rievoca la madre, anch'essa defunta.
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