Un'opera prima è un atto di coraggio. E anche di fede. E' un outing e un'apertura di credito verso sè stessi, aspettando il credito che gli altri sono disposti a darci. E' anche un'urgenza, a volte ci si butta dentro, in maniera rapsodica, una notevole materia poetica con un certo entusiasmo e qualche ingenuità, nella convinzione, spesso legittima, che l'ispirazione possa far gioco sul lavoro di scrittura.
Il primo libro di Francesca Pellegrino ("Dimentico sempre di dare l'acqua ai sogni", Kimerik 2009) è da tutti questi punti di vista esemplare. Frutto incontestabile della passione poetica, è come la passione stessa incontrollato, e forse proprio per questo divertente. E' anche, per sua natura, discontinuo, e forse per questo non monotono. E' in qualche misura, sebbene parli anche molto di dolore personale, spensierato, e forse è questo il motivo per cui è, per così dire, spiazzante. Ti rende più di una volta perplesso nel leggerlo, ma poi ti restituisce un sapore genuino e, alla fine, per quanto tu seriosamente voglia analizzare quest'opera, ti coinvolge e, come vedremo, ti emoziona. C'è uno stile dietro tutto questo? Se c'è corrisponde a un buon grado di incoscienza, o meglio a una nonchalance pressochè assoluta verso debiti o echi o tradizioni prosodiche (i "canoni strausati" a cui allude Alfredo De Palchi in una nota). In altre parole, si tratta di una versificazione "naturale" o istintiva o addirittura gradassa, come dice sempre De Palchi.
Sì, certo, gradassa e a tratti talentuosa. Perchè se superi il senso di straniamento che danno titoli un pò bizzarri come "La felicità mi è costata una mano. E due occhi", "Gli occhi rotti fanno acqua da tutte le parti", "accad(u)e(o) e l'origine della sete" ecc.; se ignori intelligentemente certi piccoli errori o tralasci la ricerca dell'invenzione linguistica a volte non convincente ma - ammetto - quasi sempre fortemente icastica, certe ripetizioni che cercano il pathos e forse possono apparire ingenue ("doratidorati", "solasolissima", "bianca bianca", ecc.), oppure alcune chiuse apodittiche e lapidarie che danno a volte un chè di troppo (v. il finale di "Fragile"); se insomma setacci la sabbia aurifera dei testi, allora scopri una serie notevole di poesie, alcune delle quali qui trascritte, in cui la misura, la resa poetica dell'esperienza, soprattutto amorosa, la rappresentazione in versi di un mondo femminile inquieto o dubitoso, e anche, come dicevo, l'emozione (vedasi ad esempio "Ruggine" o "Aged" o la quasi perfetta "Rose") vengono generosamente offerte al lettore. Rimane da sottolineare l'evidenza che proprio questa eterogeneità di elementi, questo gettare il proprio carattere non solo nell'io lirico ma anche nelle modalità di scrittura, a mio avviso potrà costituire un fertile terreno di maturazione per la poesia di Francesca Pellegrino. Non rimane che stare fiduciosamente a vedere.
Tutto il sole senza
Questo mio
è un albero che non ha più radici.
Si sono seccate di sole e
sole da un po'
come se mi fossero state potate
entrambe le mani e
poi i piedi e
si fosse fatta di legno
anche tutta la carne.
A partire dal cuore.
Tanto che non cresce più rosa e
chi passa da qui, ormai
se ne sta soltanto di spalle.
Neanche più guarda.
E a me resta zitto
di legno storto alle labbra
questo male malato di sempre
che non ha mai potuto
saputo dire e fare e
malamore.
Ruggine
E ci sarà davvero poco da ridere
succede ogni volta con te e
le saracinesche abbassate
zitte di silenzi.
Sembra la controra delle farfalle.
Qualcuna dorme i fianchi assolati del sole
una penomhra di voci appena
e qualcuna si lascia scopare cagna
al primo fiore.
E ci sarà davvero poco
da ridere
per questo vuoto che ritrovo
vivo - travaglio di un grido che nasce
e sotto madonne che cercano il figlio.
Sarà che si perdono gli occhi
a scavare la ruggine .dagli occhi.
Aged
Non è un caso questa faccia
che cade
infinitamente piano.
L'altro ieri era uguale
ma gravava leggermente meno
verso il basso, invisibilmente
accorciandomi
un poco per volta.
Non so pensare a come
evitarlo. Che sia.
Mi arrendo alla gravita del tempo e
chissà se
l'alba smetterà di urlare
nei miei capelli.
Cose rimaste. Senza
Ho il dolore bastonato di una cagna
vuota. Senzacuore sulla faccia bianca e
l'assenza scritta su un muro. Fantasma.
E il doiore di una casa vuota
senza un coperchio che
per quanto io vada di fiato e
fiatodentro - quest'anima non appanna più
il vetro.
Respira solo il fumo nero
della notte ciminiere nerenere e
canimaschi una coda a farne
qualcosa in mezzo alle porte.
Che sembra
siano passati i ladri di qua
che è tutto buio ed ogni cosa
è rimasta. Senza.
Fragile
Alla fine
questi occhi
sono tutto ciò che resta.
Sanguinano ed io
vado col dorso della mano
che quasi non se ne accorge
nessuno.
Non vorrei mai sporcare
la camicia nuova
bianca
di queste ore bianche
stanche
che se stringo le pupille
mi sto lontana luce
stella bruciata
cenere.
Come in uno specchio
che s'inverna
freddissimo
un po' incrinato a sinistra.
Proprio sul cuore.
E per favore
non venitemi a dire
delle soglie sveglie d'attese
figlie di una foglia che cade
vergine e rossa.
Come la bocca di una puttana.
Perché la parola
fragile
mi si rompe sempre
in mezzo alle labbra
per poi andarsene
dove era prima di adesso. Fredda.
Anzi freddissima.
Róse
Ho una vela d'ebano sugli occhi
va e viene come viene il vento
mi lascia giusto intravedere
il contorno incerto delle cose
senza saperne il dolore che
fanno senzavoce - tarlo nel
legno che bruca
e la sete di rose nel vaso
la notte - senzavoce.
Tuttavia
qualche lamento s'impiglia
d'eco negli occhi
petalo infranto di niente e
quella rosa mi sento
appassita e
appassire mi sento.
Fuoritempo e dentro
La mia anima ha i calzoni corti dei ragazzini sudati
mentre biglie colorate rotolano inverni freddi
freddi dentro il cuore.
So di una mano fra i capelli. Di terra.
e di silenzi masticati per questa fame senza denti
che digiunamore e briciole. Intanto
ho dolore e carne viva e avverto da lontano
il rumore di quattro ossa arrugginite
guaire morendo - mille volte al giorno - tutto il
maletempo. Di me che i capelli crescono svelti
e cadono. Ancora prima.
Desertazioni fine corso
I passi indietro
si distinguono da tutti gli altri
- io li avverto dal respiro -
è felpato
come di pantera
nera. Non si sentono
se non col cuore.
A volte sono una parola
se non addirittura un silenzio.
Mi è capitato di sentirli
persino lontana metri e metri
dalla mia solitudine.
E mi ci sono trovata in mezzo
come schiacciata
che a stento respiravo.
I passi indietro sono quelli
che non si guardano mai le spalle.
Invero non guardano neanche davanti
semplicemente sono ciechi
e procedono con le mani
a scansare il peso del buio.
Come qui
che non è più neanche una casa
questa
ma volumetrie instabili
cui mancano le finestre
e dove le porte sono sempre
tutte chiuse, e sole.
Imperfetta Ellisse di Giacomo Cerrai, mi ospita Dimentico sempre di dare l'acqua ai sogni http://ellisse.altervista.org/index.php?/archives/340-Francesca-Pellegrino-Dimentico-sempre-di-dare-lacqua-ai-sogni.html grazie, sinceramente
Tracciato: Mar 20, 12:01
Tracciato: Lug 03, 12:20