Pubblico qui la terza parte delle riflessioni, non solo semiologiche ma anche linguistiche e filosofiche che Roland Barthes dedicò all’haiku nel suo noto libro “L’impero dei segni”. le altre "puntate" sono state pubblicate qui e qui
L'INCIDENTE
L'arte occidentale trasforma l'«impressione» in descrizione. Lo haiku non descrive mai: la sua arte è anti-descrittiva, nella misura in cui ogni stadio della cosa è immediatamente, caparbiamente, vittoriosamente trasformato in una fragile essenza d'apparizione: istante letteralmente « intrattenibile», in cui. la cosa, pur non essendo già altro che linguaggio, diventa parola, passa da un linguaggio ad un altro, e si costituisce come il ricordo di questo futuro, per ciò stesso anteriore. Perché, nello haiku, non è soltanto l'evento propriamente detto che prevale
Vidi la prima neve
E dimenticai quel mattino
Di lavare il mio viso
ma anche ciò che a noi sembrerebbe aver vocazione di scena dipinta, di quadretto, come molti ne esistono nella pittura giapponese, per esempio questo haiku di Shiki:
Con un toro a bordo
Una piccola imbarcazione attraversa il fiume
Sotto la pioggia della sera
diventa o meglio non è che una sorta di rilievo assoluto (cosi come si recepiscono tutte le cose, futili o meno, nel pensiero zen), una piega leggera con cui viene pinzata, con un gesto veloce, la pagina della vita, la seta del linguaggio. La descrizione, genere occidentale, ha il suo corrispettivo spirituale nella contemplazione, inventario metodico di forme di attribuzione della divinità o di episodi del racconto evangelico (in Ignazio di Loyola, l'esercizio della contemplazione è essenzialmente descrittivo); lo haiku, al contrario, è articolato su una metafisica che non ha né soggetto né Dio, analogo al Mu buddista, al satorì zen, che non s'identifica assolutamente con la discesa illuminatrice di Dio, ma piuttosto con il «risveglio di fronte all'evento», scelta della cosa come accadimento e non come sostanza, attacco a quel bordo anteriore del linguaggio che è contiguo all'opacità (del resto tutta retrospettiva, ricostruita) dell'avventura (che accade al linguaggio più ancora che non al soggetto).
La quantità, la dispersione di. haiku da un lato, la brevità, la concisione di ciascuno d'essi dall'altro, sembrano dividere, classificare all'infinito il mondo, costituire uno spazio di puri frammenti, una polvere di eventi, che nulla - per una sorta di mancanza di eredi della significazione — può né deve coagulare, comporre, dirigere, concludere. Ciò dipende dal fatto che il tempo dello haiku è senza soggetto: la lettura non ha altro io che la totalità degli altri haiku di cui quest’io, per infinite rifrazioni, non è mai altro che il luogo di lettura: secondo un'immagine proposta dalla dottrina Hua-Yen, si potrebbe dire che il corpo collettivo degli haiku è un reticolo di gemme, nel quale ciascuna gemma rispecchia tutte le altre e cosi via, all'infinito, senza che mai si possa afferrare un centro, un nucleo primario d'irradiazione (per noi l'immagine più esatta di questo rimbalzare senza impulso motore e senza arresto, questo gioco di lampi senza origine, potrebbe essere quella del dizionario, in cui una parola non si può definire che a partire da un'altra parola). In Occidente lo specchio è un oggetto per essenza narcisistico: l'uomo non concepisce lo specchio per guardarvicisi. Ma in Oriente, o per lo meno cosi sembra, lo specchio è vuoto: è il simbolo del vuoto stesso dei simboli («Lo spirito dell'uomo perfetto — dice un maestro del Tao — è come uno specchio. Non afferra nulla ma non rigetta nemmeno nulla. Riceve ma non conserva»). Lo specchio, dunque, non intercetta che altri specchi, e questa riflessione infinita è il vuoto stesso (che, lo si sa, è la forma). Così lo haiku ci fa rimemorare ciò che non ci è mai capitato; in esso noi riconosciamo una ripetizione senza origine, un evento senza causa, una memoria senza persona, una parola senza ormeggi.
Ciò che sto dicendo dello haiku, potrei dirlo benissimo anche di tutto ciò che accade mentre si viaggia in questo paese che si chiama qui il Giappone. Laggiù, infatti, nella strada, in un bar, in un negozio, in un treno, avviene sempre qualcosa. Questo qualcosa - che è, etimologicamente, un'avventura - è di ordine infinitesimale: può trattarsi di un'incongruenza d'abbigliamento, di un anacronismo di cultura, di una libertà di comportamento, di un'eccentricità di itinerario, eccetera. Inventariare questi accadimenti sarebbe un'impresa sisifea, perché non risplendono che nel momento in cui li si legge, nella scrittura vivente della strada e il turista occidentale non potrebbe spontaneamente riferirli che caricandoli del senso stesso della propria distanza: bisognerebbe appunto farne degli haiku, linguaggio che ci è negato. Ciò che si può aggiungere è che queste infime avventure (la cui accumulazione, durante tutta una giornata, provoca come una sorta di ebbrezza erotica) non hanno mai nulla di pittoresco (il pittoresco giapponese ci è indifferente, perché è distaccato da ciò che costituisce la specialità stessa del Giappone, cioè la sua modernità) né di romanzesco (non prestandosi in nulla alla chiacchiera, che ne farebbe dei racconti e delle descrizioni). Ciò che queste avventure offrono alla lettura (laggiù io non sono un visitatore, ma un lettore) è la fermezza della traccia, senza sbavature, senza margini, senza vibrazioni; tutti questi comportamenti (dal vestire al sorridere) che, presso di noi, a causa dell'inveterato narcisismo dell'occidentale non sono altro che i segni di una sicurezza tronfia, si trasformano, tra i giapponesi, nelle semplici maniere di trasmettere, di tracciare qualcosa di imprevisto nella strada: poiché la certezza e l'indipendenza del gesto non rimandano più in questo caso ad un'affermazione dell'io (a una «sufficienza») ma soltanto ad un modo grafico di esistere; di modo che lo spettacolo della strada giapponese (o più genericamente dei luoghi pubblici), stimolante come il prodotto di un'estetica secolare, in cui ogni volgarità è come decantata, non dipende mai da una teatralità (un'isteria) del corpo, ma, una volta di più, da questa scrittura alla prima, in cui l'abbozzo o il rimpianto, il tentativo e la correzione sono egualmente impossibili, perché il tratto, liberato dall'immagine presuntuosa che colui che scrive vorrebbe dare di sé, non esprime, ma, semplicemente, fa esistere. «Quando tu cammini, - sostiene un maestro zen, - accontentati di camminare; quando sei seduto, accontentati di star seduto. Ma soprattutto non esitare!»: ecco che cosa sembrano suggerirmi, a modo loro, il ragazzo in bicicletta che porta al culmine del suo braccio levato un vassoio di scodelle, oppure la giovane fanciulla che s'inchina con un gesto così profondo, cosi rituale da perdere ogni servilismo di fronte ai clienti d'un grande magazzino partiti all'assalto di una scala mobile, oppure il giocatore di pachinko che introduce, sospinge e riprende la sua pallina, con tre gesti la cui coordinazione stessa si traduce in un disegno, oppure il dandy che al caffè fa saltare, con un colpo rituale (secco e virile) l'involucro in plastica del suo tovagliolo caldo con cui si asciugherà le mani prima di bere la sua coca-cola: tutti questi «incidenti» sono la materia stessa dello haiku. (3 -continua)