Ricominciamo a parlare di poesia, seriamente, con un saggio di Michel Deguy, uno dei poeti e filosofi francesi di maggior spicco. Un testo di non facile presa, denso di suggestioni e riferimenti culturali e filosofici, forse un po’ troppo impegnativo per un blog, ma senz'altro importante. Se non avete tempo di leggerlo accuratamente e di meditarlo, passate oltre, vi prego...
La traduzione è mia, con il colto e fondamentale apporto dell’amico Alfredo Riponi, che ringrazio pubblicamente.
La poesia fa male?
Questa affermazione ottativa (percepisco un voto e un dubbio in questa dichiarazione) fu il titolo, l’incipit, di una causerie di Paolo Fabbri una sera alla Casa degli scrittori.Io qui cerco di svilupparla, provando anche il suo contrario, o qualche altra modalità.
E so bene che l’affermazione suona anche (in primo luogo?) come un richiamo – alla tradizione. La poesia faceva male; fece male; sapeva far male. Potrebbe farlo ancora? Il tempo dei giambi e degli epigrammi è passato. Il tempo dei Châtiments. E da Archiloco a Voltaire, a Chénier, a Hugo, fu quello il tempo più lungo. Satirica o patriottica, assassina o bellicosa, canto di battaglia, di vittoria; invito all’omicidio, all’insurrezione; peana, ritornello guerriero, libello...la poesia armata, con l’elmo, con i suoi affondi metrici e il suo scudo d’Achille; ma anche acuminata, con la sua agudezza e i suoi concetti, nel boudoir di Celimene, o la pretura o la sala delle guardie...Lo so bene; ma vado a cercare in altre direzioni: anche quella del farsi male; e quella del non far male, per questa “occupazione la più innocente” (nella traduzione, qui, di Hölderlin); quelle dell’irritazione, della crudeltà, della privazione, della abdicazione...
Irritato, crudele, ascetico, rinunciante...In quale luce si pone lo stesso“soggetto lirico”?!
Vediamo.
Dell’irritazione
La questione non è la collera del poeta, fragile psiche (può capitare). Piuttosto: è la collera che mette il poeta in azione; è l’Iliade che comincia con la collera. Chiamiamo questa una emozione. Non una sensazione; né un umore tra altri, ma una disposizione rivelatrice. nell’altra tradizione, religiosa, è lo stesso Yaveh, che si irrita e ispira la collera del profeta. Ci sono altre emozioni potenti, certo, sconvolgimenti affettivi, Stimmungen – compassione, disgusto, amore. Prendo questa, la collera, per via di Omero e Orazio. Vatum irritabile genus. Per il resto, il problema non è di sapere chi comincia, se la gallina collerica o l’uovo irritante. Ma di strappare la poesia a una psicologia di poeta, il “lirismo” alla caratteriologia. La collera è oggettiva; questo non vuol dire che si oscilla dal soggetto all’oggetto; ma che si desoggettivizza il commento. Dunque, che cosa succede? Tutto questo (mi) irrita, l’essere si mette in collera e si scuote; io sono divinamente male! Si parlerà di modo d’essere che si affaccia su come è; di disposizione onto-logica, o rivelante. L’essere diventa – ciò che è, in “sé ”.In sé per sé. Riflessione dell’Essere; auto rivelazione. La collera mette in movimento il pensiero; il quale cerca di dire quel che ne è da quello che è, con un tono corrucciato. I filosofi parlano di un “esistenziale”. Io sono collera, si diceva. Oppure: la musa irrita il poeta -suscettibile, allora, perfino di andare in collera. Poi il discredito viene meno, dalla Musa divina alla suprema Allegoria: la Collera entità in un ersatz di culto politeista della retorica, ipotiposi vagamente idolatrata, virtù iraconda. Poi alla figura generica, nel momentodella scrittura, se volete.
Della crudeltà
Il poeta sognava di uno stato vivente della lingua, mobile e fluido, in espansione e anche in continuità con il suo proprio fuori. E’ metaforicamente, secondo l’uso volgare del termine, che si parla di corpo della lingua – che non è un corpo; quando anche la vociferazione, la dizione facciano passare l’uno dentro l’altro il corpo e la lingua. Come “toccare”, smuovere, raggiungere? E siccome non si smuovono direttamente le cose, laggiù, con le frasi (“magicamente”), si tratta di turbare gli spiriti. Comunicare, voi dite? Ma non delle informazioni. No, ma il fuoco. Ora ho un bell’avere la testa e le gote in fiamme, il linguaggio non brucia, parlando di fuoco, di fiamma, di febbre. Come trasmettere il fuoco, mandare a fuoco la biblioteca? Teatro della crudeltà? Ma Artaudpoco prima della sua morte si imbatteva ancora una volta nell’enigma della comunicazione quando constatava l’inanità del gesto della sua famosa conferenza del 1947.
L’enigma è, sempre, che la parola dolore non fa male, che “tormento” non tormenta affatto; che la crudeltà non è crudele. Che a rigor di logica non c’è oscenità che attraverso l’immaginazione e per relazione: è l’immaginazione che “riferisce”. Un significante non è osceno in sé stesso, e basta scrivere “khakha” come un dio cartaginese di Flaubert per non essere scatologico. Quale è dunque questo “potere di vicinanza che le parole mantengono sulle cose”, ci chiediamo con le parole di Merleau-Ponty, modo di ricezione che dipende, lo sappiamo, in generaledalla censura? Si rischia il compiacimento un po’ troppo frettoloso; a invocare questa “continuità con il fuori”; perché è un “augurio”, un “folle desiderio”, che ci attrae perché destinato al fallimento. Il discorso filosofeggiante che noi facciamo ci permette di intenderci (più o meno) “su” Artaud, come i suoi dottori. La glossolalia, per esempio, non è una lingua poiché nessuno la parla, e noi ne possiamo parlare, e in una certa maniera “intenderla”, solo perché è circondata da ciò che non è lei, avvicinata per gradi attraverso il discorso degli altri, la discorsività generale in cui noi la ascoltiamo.
Perché Rimbaud vince sempre, è nell’empireo poetico dei giovani ancora oggi? La sua emozione, tradotta in parole che mi commuovono, mi motiverebbe a muovermi? La devozione che adduce è essa, latina, “la pastura gettata nell’abisso perennemente avido” (Dumézil, nelle sue Idées romaines), imprecazione, maledizione, addio. Un linguaggio speciale (“alchimia del verbo”?) ci farebbe effetto...Non si misura forse la forza con l’effetto?
La forza si misura da ciò che gli resiste. Essendo la resistenza socialemolto meno grande di cento anni fa, la “forza” del linguaggio poetico, Arthur o Artaud – questa forza che non dipende dalla menzione dei termini della forza – è meno capace di offendere. Essa “passa” meglio, diciamo; ma lo fa meno bene: senza incontrare la stessa resistenza; senza potere misurarsi. La poesia si estenuerebbe nel vuoto, battendosi contro i fantasmi e in particolare il suo. Forse gli manca un sostituto, e dunque un equivalente, alla fede, essa stessa finzione, nel suo speciale potere, nella sua continuità con il fuori?
Privarsi, “questo fa male”
La logica del privar-si, in generale, è all’opera anche nel fare un’opera di poesia.
Molto in generale, uno scopo non è raggiunto (o preso in carico) da un “soggetto”, qualsiasi, che a prezzo di una qualche privazione, “autolimitazione”. Privar-si, a favore di una possibilità alta, fuori portata, ne sarebbe offerto il modello dalla “castrazione”? San Paolo, Origene, il trovatore...Amputarsi, del godimento e della procreazione, per un godere e un generare altri, “spirituali”, diventati “metaforici”, di cui quelle sarebbero state “in primo luogo” la presa alla lettera, il serio il reale, e la figura (il comparente) come se la lettera dovesse dare garanzia della serietà della metafora e del suo rovesciamento “nello spirito”?
Ma io mi contento di due o tre osservazioni relative all’esperienza poetica.
E di qualche esempio.
Mallarmé, con l’aiuto di una narrazione (perché di questo si tratta, favola contenuta nel racconto di una vicenda: "Le nénuphar blanc"), ci dice: privandosi del godimento di una apparizione possibilmente “reale”, desiderata, quella d’una donna sulla sponda verde del fiume, il narratore la fa non apparire, o quasi apparire-scomparire, a favore della superiore possibilitàdi cambiamento del racconto in prosa in poema in prosa, per capire in una parabola ciò che può fare “la poesia”. La descrizione di una disavventura e della manovra di un vogatore si lascia trascrivere in una definizione dell’operazione poesia, in arte poetica. E’ la lettera per la rappresentazione dell’esistenza allegorica.
Un secondo esempio: la traduzione.
Nella traduzione (l’operazione del tradurre, termini che valgono per l’esempio precedente) la poesia si priva:
a) della sua originalità. Essa prende la sua sorgente e il suo corso in un altro. Si aliena per obbedienza, passione e “fedeltà”, per (ri)tornare a sé, alla sua possibilità: realizzare il possibile. Essa prende in prestito, fa da parassita; tutto quello che vorrete;
b) e anche dalla sua lingua. Fa la “prova dello straniero” (titolo di Berman che è, come ciascuno sa, una citazione di Hölderlin).
E così la traduzione cerca di fare poesia nella sua lingua. Imita fino al limite della “sue forze”; si ingelosisce, invidia, mima l’altro, fa-come lui, privandosi dei suoi mezzi per essere bella quanto l’altra.
Si dimostrerà che questo prestito d’origine nell’emulazione e nella simulazione regola la relazione della arti “tra loro”,indebitandosi ciascuna nei confronti dell’altra in una sortadi “antidosis (*)” e di girotondo di tutte. “La poesia non è sola”.
(*) Termine giuridico di derivazione greca, significa più o meno "dare in cambio", in senso tributario. I cittadini che non potevano partecipare alle spese dello stato potevano indicare il nome di un cittadino più ricco che potesse pagare anche per loro. E' per questo che D. parla di indebitarsi
Dell’abdicazione
I costi di manutenzione (come se il mantenente(*) fosse insieme participio presente e nome comune) dell’affare Poesia sono elevati; manutenzione di un “soggetto lirico”, caratteriale, espressivo, infatuato, superstizioso…
Alcuni di questi costi sono non soltanto incomprimibili, ma, in primo luogo, vitali: manutenzione della biblioteca (o della tradizione, se preferite) in uno stato di leggibilità, di funzionamento, di accrescimento. Manutenzione della “lingua” (delle parole della tribù, se preferite Mallarmé) in “buon uso” (nel suo uso poetico per la precisione), tenendo d’occhio i laboratori di sperimentazione ecc. Manutenzione degli utenti in uno stato di ricettività e di inventività (con l’insegnamento). E se per odio della poesia si intende odio dell’autocompiacimento dei poeti, della loro autoreferenzialità, e dei modelli diventati accademici; e amore del rischio, degli eccessi (ivi compresa l’accoglienza dello straniero attraverso le traduzioni), gusto dei rapporti proibiti o impossibili con ciò che non è o che sembra non interessare la poesia in nome del “questo non si fa”… vada per questo odio, che può anche fare male alla poesia; ma per il suo bene, come dice una locuzione popolare.
Se è per mandare la poesia alla rottamazione e rimpiazzare l’illusione dei poteri speciali della versificazione con quella delle vociferazioni idiosincrasiche o quelli del calembour, o ancora quelli della tecnica tipografica del significante, nel cambio non si guadagna.
La stenografia di una seduta di “associazione” di parole e di idee dallo psicanalista – certo terapeutica – non ne fa, anche riletta e abbellita, un poema.
Fare del male alla lingua in questo modo, che forse farebbe del bene al soggetto enunciante, non è il fine. C’è Arte poetica dove il soggetto può farsi scomparire nell’elocuzione – intendendo soggetto in due maniere: l’io della firma, che ha delegato un narratore per l’occasione (quella raccontata dal filo narrativo-tematico), e questa scomparsa avrebbe luogo a beneficio del soggetto pensante al fondo del suo “occhio vivente”; e d’altra parte soggetto è anche il tema della poesia, chiamata talvolta oggetto, mutata in apologo (parabola) di tutta l’operazione.
E perché questa ascesi. se non per il movimento di abdicazione che leggo (tra i contemporanei) in Artaud quando si disidentificaper identificarsi, sottraendo dal “sé” tutti i predicati “propri”: francese, marsigliese, europeo – e continua -, uomo contemporaneo, cristiano battezzato ecc.
Altro esempio: alla fine del libro dove Sartre si riconosce un “uomo come gli altri e che li vale tutti”. Forse – è così che lo intendo – un uomo che raggiunge proprio allora quella sembianza che Baudelaire alla fine del suo poema chiamava “fraterna”? Non è qui “il senso più puro delle parole della tribù”?
La sola credenza implicata – e che ricerca la sua energia linguistica e tropologica nel disperare di ogni altra rivelazione – sarebbe questa: credere in una possibilità della lingua dialettale di far dire al suo discorso delle cose che sono delle verità e anche, direi per sopramercato, su sé stessa.
(*) gioco di parole tra maintenir (mantenere) e maintenant (ora, adesso).
L’innocenza
Ma non è l’occupazione “più innocente di tutte”, dice Hölderlin della poesia? Non è essa innocente? Senza dubbio innocente non è inoffensivo; e un innocente può “fare male”. Comunque l’innocenza in quanto tale – indissolubilità di volontà e di bene “al di qua di” (“avanti”) la (conoscenza della) differenza bene/male – non ha parte teoricamente nel male. Cerco di scorgerne qualcosa, rapportato alla poesia dalla citazione del poeta tedesco.
Il dono è generoso, dice la locuzione.
La generosità sarebbe l’essenza del dono.
In cosa consiste (come agisce, nel donare)? Nello spezzare la relazione tra la cosa donata e il donatore. Nello scioglierla. La generosità “decisa” disgiunge, disarticola, la relazione nel gesto dello slancio, che la ri-getta. Gettar(si) al collo senza gettarsi con, è la parcella, la sottrazione del donatore. In modo che il dono sia come caduto dal cielo (altra locuzione), venuto da lontano. Che la tua coscienza ignori ciò che fa di bene (ma non di male). Un dono troppo vasto, senza provenienza, insomma; e, quindi, “del cielo”.
Come fare dono un’altra volta? Con un nuovo espediente: perché è questo che è importante; ci vuole la sorpresa per fare accettare quanto donato. Per entrare in questa questione la mia inclinazione è “ateologica”, cioè “simoniaca”; “profanare” il linguaggio della teologia per “appropriarcene”, come se la “teologia” sapesse e dovesse ora essere tradotta, apreuna via d’accesso al problema.
All’occorrenza: come profanare la “grazia” per trarne il linguaggio del dono, del senso, in estetica?
La grazia ridona. E’ il gioco con il bambino: “dammelo”, gli si dice del giocattolo o della cosa che gli diamo. Io te lo dono perché tu (me) lo (ri)doni. Non ci sarebbe regalo che in questo ritorno dello scambio. Che il “donato” dei filosofinon ci ricada addosso come “necessità”!? Ma il dono ridona.
E’ il ri che fa il dono; che dona. Ci sarebbe dono “gratuito” nel ritorno dello scambio. Il dono restituisce lo stesso (p.e. in-tanto-che e come-se) graziosamente offerto ora, come in più. Lo stesso in più? E’ la formula di Baudelaire che segue sui boulevard le orme di Constantin Guys (*), che insegue a sua volta l’apparire del mondo sulle orme del fenomeno.
Io ti dono la pioggia, il sole (San Francesco d’Assisi). Dono di fiori…dice la poesia. Dono sarebbe il poema: “io ti regalo questi versi/…/”. Te li destino, affinché tu me li (ri doni), dicendoli.
(*) Constantin Guys, pittore, che viene citato in alcune pagine dei “Passages di Parigi” di Benjamin, e al quale Baudelaire dedica un capitolo di “L’art romantique” sui dandy.
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Michel Deguy ha insegnato filosofia fino al 1968, poi letteratura francese all'Università di Parigi VIII. Ha fatto parte del comitato di lettura della casa editrice Gallimard tra il 1962 ed il 1987, dal 1990 al 1992 ha presieduto il Collège international de philosophie, di cui è membro, e dal 1992 al 1998 la Maison des écrivains. Dal 1977 è capo redattore della rivista « Poésie » e partecipa alle riviste « Critique » e « Les Temps modernes ». Nel 1998 ha ricevuto il Grand Prix national de la poésie e nel 2004 il Grand Prix de poésie de l'Académie française.
Risolutamente classica ed allo stesso tempo moderna, la scrittura sonora di Michel Deguy si caratterizza per un notevole lavoro sulla lingua, nella quale si uniscono e si mescolano pensieri filosofici e profonda cultura poetica e letteraria.
Se la luce è il linguaggio, come egli stesso afferma, essa è interna ai testi, s'irradia nell'ordito delle parole, dei sintagmi, delle frasi, delle immagini, dei versi. Il vocabolo non è provvisto di un'espressione piena, non è fermo punto di riferimento che attesti e fondi la consistenza del reale. L'esitazione, conseguente all'estrema consapevolezza che il poeta possiede, tra cosa e parola, tra cosa e immagine, tra presenza e il fatto di nominarla, dirla, interna al sentire e al fare poetico, sviluppa perifrasi e salti associativi a volte ardui ma avvincenti seppure 'legati' da amarezza, dolore, angoscia. E in ciò risiede in ultimo forse il segreto dell'opera di Michel Deguy. (Mario Benedetti)(Fonte: Wikipedia)
LA POESIA FA MALE ?
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