Le parole, con il tempo, cambiano significato o escono dall'uso, diventando obsolete, o semplicemente vengono espulse dalla scena dall'imperialismo delle lingue di volta in volta dominanti. Oppure, e questo accade ogni giorno nei mass media e nella politica, si usurano per ripetizione, assumendo connotazioni negative, in altre parole "sporcandosi". Ma il compito dell'intellettuale e del poeta, come afferma Alain Jouffroy in questo saggio/racconto, è anche quello di ripulirle riportandole a nuova vita.
Alain Jouffroy - Il verbo “straniare” (*)
Io ho senza dubbio troppi amici, è un fatto: ne ho in ogni città da cui sono passato. Non appena arrivo in un paese che non conosco, dove non ho ancora avuto l’idea di passare, io incontro sempre degli uomini, delle donne che, di lì a qualche ora, forse un po’ di più, diventano degli amici. Quando riparto da questi nuovi paesi, in cui mi sono fatto nuovi amici, io li perdo di vista, ma non dimentico mai i loro volti e i loro nomi. Essi vivono allora di un’altra vita, indipendente da essi e dalle loro esistenze, nel mio proprio corpo, come se si fossero esiliati in me. Spesso, al ricordo dei loro nomi, sono le loro voci che ritornano, le loro voci che si mettono a parlare attraverso la mia. Lunga storia, che dura, si rinnova e non cessa di sorprendermi da cinquant’anni: i nomi risvegliano sempre le voci, anche quelle dei miei amici morti.
C’è una ragione a ciò: ho sempre amato i nomi propri, tutti i nomi propri: tutti i nomi di famiglia e i nomi di persona, tutti i nomi dei luoghi, delle città e dei villaggi, dei fiumi e dei laghi, delle pianure e delle montagne, i nomi delle dee e degli dei di tutte le mitologie. Mi sono, fin dalla mia infanzia, sempre serviti da guida, infallibili, nel tempo e nello spazio. Senza di essi, io non mi sarei mai così tanto attaccato alla vita e al reale. Di contro, io ho sempre sentito che, in rapporto ai nomi propri, i nomi comuni erano incerti, sospetti, e anche sporchi.Li ho scoperti uno dopo l’altro con la stessa apprensione, la stessa diffidenza, come se essi mi fossero a priori ostili, e, nel migliore dei casi, di una neutralità sgradevole. E’ dunque con circospezione che io li ho utilizzati, come se il loro uso sconsiderato potesse giocarmi dei tiri mancini, instillarmi la loro malattia, contaminarmi. Molto presto ho compreso che, per usarli senza coprirsi delle loro diverse sporcizie, bisognava dunque, prima di tutto, ripulirli. Ripulirli in maniera radicale, per estrarne i veleni segreti. Ercole è un nome innocente, luminoso. Lavoro è una parola sporca. Ulisse è un nome faro. Ritorno una parola stanca.
Ma ripulire i nomi comuni non è così facile come sembra. D’altra parte, questa pulitura, l’ho notato, non sembra necessaria a nessuno. L’idea stessa di questa pulizia dei nomi comuni non viene a nessuno. Come, in effetti, si potrebbero pulire delle parole, se è già tanto che siano riconosciute “sporche”? Nessuno sembra ricordarsi che i nomi comuni si usurano, cadono nell’obsolescenza, ciò che non accade mai con i nomi propri: né Zoroastro, né Tutankhamon, né Lao Tse hanno una ruga. Mentre “prete”, che viene dal greco “presbuteros”, che significa “anziano”, ha perduto la sua anzianità e acquistato una atemporalità molto ambigua, e “prestigio”, che viene dal latino “praestigium” (artificio, illusione), significa oggi tutto il contrario, ecc, ecc.
Non essendo le parole della tribùmai “pure”, si tratta dunque di liberarle delle loro scorie. Ho pensato a parecchie soluzioni, in particolare al mattino, nella mia stanza da bagno, sotto la doccia o nella mia piccola vasca. La stessa parola “sporcizia”mi è sembrata evidentemente abbastanza sporca, e mentre mi lavavo il corpo, sotto la doccia o nella vasca, mi sono detto che stavo pulendo simultaneamente il mio corpo e la parola sporcizia. Poco a poco, questa confusione tra la parola e la cosa che essa designa si è estesa a un numero sempre più invadente di altre parole: la parola “sapone”, che è tanto più sporca dato che sposa sia la sporcizia che la pulizia. E poi, la parola “asciugamano”, la parola “spugna”, e la parola “igienico”, più sporca di tante altre.
Uscendo un giorno dal bagno, ho prolungato questo lavoro, mentale, di pulitura dei nomi comuni. Tornato al tavolo dove mi capita di scrivere dei nomi propri e dei nomi comuni, ho pensato alla parola “inchiostro”, alla parola “sigaretta”, alla parola “fumo”, alla parola “muro”, alla parola “finestra”, alla parola “strada”, alla parola “città”, e ad altre parole, che non avevano niente a che fare con quelle. Poco a poco, tutto ciò si è allargato, per onde concentriche, ai nomi comuni del mondo intero. Tutte queste parole, contaminate proprio da ciò che si pensa esse designino, ai miei occhi non volevano più dire – contrariamente ai nomi propri – ciò che dicevano alla maggior parte della gente normale.Tutte mi si presentavano con un’aria di finzione, di maschere da vecchia commedia, di vecchi travestimenti. Ritornando così ogni mattina, o verso mezzodì, nella mia piccola stanza da bagno, io mi sono ostinato a lavare mentalmente un certo numero di parole sotto la doccia, nel lavabo o nella vasca.
Mi domandavo, per esempio, se la parola “water-closet” non fosse, in fin dei conti, più pulita della parola “toilette”, e questo tanto più se lo si riassume in queste due magnifiche maiuscole: W.C. Al limite, la parola “merda” mi sembrava più pulita di tante altre, perché implica l’iniziale imperativa “Merda!”. Chiamavo questo il mio rito di purificazione mattutina.
L’alcool a 90° sarebbe stato senza dubbio un detergente più efficace dell’acqua. Ma niente è più difficile che pulire la parola “alcool” con dell’alcool a 90°: è proprio un compito impossibile. Bisognava dunque procedere a questa pulizia sotto la doccia, nella vasca o sotto il rubinetto del lavabo. Ma la parola alcool, anche forse perché contiene quelle due “o” che hanno affascinato Apollinaire, è di una sporcizia indelebile, e io dovevo rassegnarmi a utilizzarla così com’è: di una sporcizia indelebile. Ma la maggior parte dei nomi comuni sono lavabili a piacere, ne ho lavati migliaia in cinquant’anni, cosa che mi ha permesso di scrivere pressochè tutto quello che ho voluto, e questo in maniera sempre più leggera, come se fossi riuscito a dimenticare il loro sporco fondamentale.
E io non parlo soltanto dei nomi comuni della mia lingua madre, ho pulito ugualmente un gran numero di parole inglesi, tedesche e italiane, il che mi ha procurato grandi gioie xenofile.
Col procedere così alla pulizia quotidiana di dieci o dodici nuove parole al giorno, io le spunto nei miei dizionari per non rischiare di rilavarle inutilmente prima di ordinarle in una parte nascosta della mia biblioteca, che chiamo la mia alcooloteca, come se preservassi la pulizia delle mie parole in una piccola bottiglia di alcool a 90°. Perché ciò esige tanta precauzione quanto una operazione chirurgica. Altrimenti esse si ricoprono alla svelta di polvere e ritornanoinutilizzabili. E’ perciò che continuo a mescolare tanti nomi propri tra i nomi comuni, anche se questo fa somigliare certi miei testi a degli elenchi telefonici commentati, anche in quelle serie di haiku che mi capita così sovente di scrivere, in cui la parole lavate, giustapposte a dei nomi propri, mantengono un andamento fiero, anche la parola “sporcizia” che, a conti fatti, non è più difficile da ripulire di altri nomi comuni, apparentemente meno loschi, come “tavola”, “sedia”, “bottiglia”, ecc.
Esiste un nome comune, per contro, che resiste molto più a lungo a ogni tentativo di pulizia, è la parola “straniero”. Quale che sia il numero di ore che ho consacrato a questa parola infetta nella mia stanza da bagno, essa non ha mai smesso di sputare e risputare un liquido nerastro e vischioso, particolarmente ripugnante. Lo sconsiderato impiego che se ne è fatto dappertutto ha insudiciato questa parola in una maniera più irrimediabile di altre. Si dispera di poterne venire a capo, e in tutte le lingue, tutti i dialetti, perfino quelli, così numerosi e diversi, della Nigeria. Ma ho finalmente trovato una soluzione a questo problema singolarmente insolubile. Utilizzo la parola “estraneo” (straniero), non più come un nome comune, ma come (l’infinito di) un verbo. Coniugo la parola “estraneo” (straniero) come il più raggiante dei verbi: io (e-)stranio, tu stranii, noi straniamo, ecc. O ancora: straniare la strada, straniare il cielo, straniare l’oceano e le stelle. Straniare le cose e gli esseri crea tra essi e noi una nuova distanza, come se diventassimo noi stessi un telescopio. Questo cambia tutto! D’un tratto questa parola spaventosa, questa parola infernale diventa pressochè divina – avvicina molto alla divinità e non soltanto nell’espressione, facile da inventare: “straniare la divinità”. Essa rischiara ogni cosa di una grande luce, come un faro gigantesco, che domina tutte le parole, anche i nomi propri: “straniare Gesù”, “straniare Rimbaud”, “straniare Ducasse”, straniare tutti i nomi della storia, della geografia, come quelli di tutte le mitologie: straniare Toth, straniare Eros, straniare Ulisse, ecc., ah!, questo allevia molto il peso della storia! Si respira, infine, nell’eternità ritrovata!
Questo “Dottore in niente” con cui mi capita di identificarmi si ricorda di aver imparato, molti anni addietro, che il verbo “straniare” è realmente esistito in passato, che è stato utilizzato in un altro senso da quello che io gli do. Madame De Gasparin diceva per esempio, nel 1866, nei suoi “Viaggi”: “Allorquando un abito mi strania, non è fatto per me”, et Malherbe scriveva questo: “Una piccola somma strania colui che la prende in prestito; una grossa lo rende nemico” e Marot: “Ben mi rendo conto che l’amore è di natura strana,[...] Vuole avvicinarsi quando da lui ci si strania.”
Significava dunque “allontanarsi, distaccarsi”. Littré, a cui il Dottore in niente fa riferimento qui, dice di questo verbo, nel suo Dizionario, che “bisogna incoraggiare gli sforzi contro la desuetudine delle parole degne di essere conservate”. Resuscitando questo verbo, ho dunque preso Littré in parola, ma dandogli una ben maggiore portata.
Il verbo “straniare” è diventato così il mio Salvatore. Mi ha permesso di scrivere altre cose e in tutt’altra maniera rispetto a prima. Gli riserverei perfino un culto, se fossi capace di dedicare un culto a qualcuno, cosa che Dio non voglia. Ma è la mia leva principale, che mi permette, mentre scrivo, di provare la sensazione, eccezionale, di sollevare l’universo e di agire sul destino: il mio, ma anche quello degli altri, anche quello di coloro, per quanto innumerevoli siano, che non mi leggono e, probabilmente, non mi leggeranno mai. Una cosa è scongiurare la sorte. Tutt’altra cosa è straniarla, straniare la vita e la morte.
Una sorta di grazia ne è lo splendido risultato. Benché questa grazia non permetta di dispensarsi dal lavare tutti i nomi comuni, a qualunque lingua appartengano. Ma la leva è là, a facilitare tutte le operazioni di ripulitura.
Voi mi direte che mi sono messo, per il fatto della mia scoperta della sporcizia dei nomi comuni, in una posizione poco confortevole, se non impossibile. Non avreste torto. Ma le parole sono come certe pietre, che dissimulano, basta sollevarle per constatarlo, orribili piccoli insetti, brulicanti e viscidi. In seguito mi farete notare che basta non sollevarle e continuare a camminarci sopra, come se niente fosse. Ma questo mi è letteralmente insopportabile, come la più spudorata caduta di gusto. La maggior parte dei nomi comuni nascondono qualcosa di losco. Una volta stabilita questa formula, non si può più fare come se niente fosse. Non si può più regnare innocentemente sulle parole – o allora, è che non si è veramente capito niente delle parole, dei loro strati e dei loro giacimenti, perché tutto ciò che si scrive con parole non lavate, come fa la maggior parte degli scrittori, contiene ancora i più ignobili orrori.
D’altronde è ciò che mi costerna leggendo la maggior parte dei libri che mi capitano sotto mano e che mi fanno rabbrividire di disgusto, mi ispirano una repulsione così profonda che ne ho la nausea. Rari, molto rari sono i libri scritti con parole pulite: eccezionali, perfino. Così io non leggo che libri eccezionali, che posso rileggere dieci volte, cento volte, senza mai essere offuscato dal minimo lezzo. Essi mi meravigliano per lo splendore incomparabile che ne sprigiona ed è sotto l’impulso di questo splendore che io mi sono applicato, ogni mattina, da oltre cinquant’anni, a lavare tutti i nomi comuni di tutti i dizionari che posseggo.E’ grazie a questi libri che la mia vita è ogni giorno più libera, più felice di quella di quegli infelici sporcaccioni che sono gli scrittori, tra i quali, mi dispiace doverlo dire, la maggior parte dei poeti sono lungi dall’essere più puliti degli altri. Ma Dante, Shakespeare, Rimbaud, Ducasse sono di un lindore inaudito, come pure Artaud e Michaux. Essi hanno sollevato le parole come delle pietre, le hanno lavate nei fiumi, in una vasca o un lavabo, e su queste pietre lavate hanno costruito opere che illuminano fino alle radici delle tenebre.
Ma è da quando impiego la parola “straniero” come un verbo, da quando me ne servo come di una leva, che tutto ciò che scrivo mi sembra un po’ più degno di tutto quello che amo e ammiro di più al mondo: l’estrema bontà che la bellezza nasconde. Una bontà prodigiosa, proliferante, strabiliante e contagiosa, una bontà senza alcun limite né frontiera, molto molto violenta e molto molto dolce, una bontà da levare il respiro, che libera da tutte le vecchie pastoie e da tutti i malintesi umani nei quali si impegola il novantanove per cento dell’umanità.
Ancora ieri, sbarcando in questa città di Z. in cui non ho più rimesso piede da oltre trent’anni e in cui non avevo che un solo amico, morto da tanto tempo, ho temuto qualche istante di non potermene fare di nuovi. I borghesi della città di Z. escono infatti molto raramente dalle loro dimore e, quando gli capita di passare per strada, è rasentandone i muri e abbassando gli occhi, come se soprattutto temessero di essere riconosciuti o abbordati. Per combinazione, avevo appuntamento in questa triste città con alcuni stranieri che erano qui riuniti e che mi hanno invitato a partecipare alle loro riunioni.. Ed è con questi stranieri alla città di Z., che ho parlato per la prima volta in pubblico del verbo “straniero”.
Venuti tutti da paesi arabi e tutti esiliati in altri paesi, mi hanno dato i loro nomi, che io ho annotato scrupolosamente, nel quaderno rosso in cui classifico i patronimici di tutti i miei amici, per non dimenticarli mai.. Domani, dopodomani, più tardi, quando essi si saranno di nuovo dispersi ai quattro angoli del mondo, i nomi di questi esiliati arabi mi ritorneranno in mente e io risentirò le loro voci. Potrò così, senza sforzo, raccontare le loro storie al loro posto, forse anche scrivere delle poesie al loro posto. Loro si sono già esiliati in me. Ho straniato i loro esilii, la mia vita ne è stata di nuovo trasfigurata.
Ma non avevo ancora scritto questo testo al momento del mio incontro con questi poeti arabi, che se ne sono interessati, ma non tutti erano certi che parlassi loro sinceramente. Quello che mi ha fatto decidere di scriverlo è perché se ne condivida con la lettura il senso sovversivo profondo.
E effettivamente si inseriscein tutto ciò che ho potuto scrivere sullatrasformazione del linguaggio, necessaria per la trasfigurazione e la reale trasformazione della vita vera in questo mondo. Ho infatti l’ingenuità di pensare che quello che ho scritto è stato letto, e magari riletto, dunque compreso. Ben inteso, si tratta da parte mia di una illusione grossolana, che non depone a favore della mia lucidità.
Inoltre, avendo diffuso questo testo, ho dovuto affrontare le inevitabili obiezioni della buona logica, secondo le quali non si vede come certe parole possano sporcarsi, e ancora meno come si potrebbero ripulire da questa supposta sporcizia, e, ultima obiezione, come si potrebbe cambiare un sostantivo in verbo – e per quale interesse? Ho sentito anche che non si poteva stabilire se questo testo fosse umoristico, una specie di scherzo grottesco o una vera e propria professione di fede nel mio potere di manipolazione del linguaggio. In altre parole, se fossi un commediante bislacco, o se fossi diventato folle d’orgoglio nel dare per scontate le mie forze.
Ho capito alla svelta che in altri tempi sarei stato oggetto d’un processo o sarei stato costretto a difendermi dall’accusa di trasgredire le leggi ordinarie. Ma i processi odierni non hanno sempre bisogno di tribunali per procedere a una condanna, suscettibile di far recedere il trasgressore. Nello stesso modo si sarebbe potuto accusare Rimbaud di snaturare la funzione del linguaggio col trasformare il pronome personale “io” in sostantivo nella frase “Io è un altro”. Scrivere: “Stranio lo spazio e il tempo” sembra suscitare oggi ancor più reticenze. I miei amici, inquieti, pensano senza dubbio che mantenere questa proposizione non farebbe che contribuire a rovinare la mia reputazione e, tentando di persuadermi a rinunciarvi, cercano di salvarla da un disastro.
Questa esperienza mi ha rivelato, una volta ancora, che io non intrattengo lo stesso rapporto con le parole, con l’intero linguaggio, di coloro che fanno professione di scrivere. Ci sono parole che mi rivoltano, e non solamente la parola “volklich”, ma ogni specie di parola, che mi sono vietato a lungo di scrivere, come la parola “spirito”, a cui ho sostituito la parola “pensiero”, prima di pervenire, a forza di violenta pazienza, a ripulire la parola “spirito” dal suo vecchio rimosso religioso.
Così, io devo chiarire bene la mia proposizione presso tutti quei filosofi, tutti quei semiologi e quei poeti che non accettano che si trasformi un nome comune in verbo, e questo sotto forma di quattro piccole massime:
L’uomo strania la donna per amarla più perfettamente.
Gesù ha straniato Dio col dichiarare di essere suo figlio.
Intere civiltà hanno straniato la natura inventando i loro dei.
Per conoscere la libertà libera e non dipendere più da nessuno, bisogna straniare sé stessi.
E’ così che, credendo di avere scritto una poesia più carica di senso di altre, sono diventato la mia propria sfinge. Non mi si perdonerà tanto meno che in apparenza io non abbia cambiato né faccia né identità. Esiste dunque una evidenza universale, universalmente respinta, ed è che tutti i passaporti sono falsi.
Aprile 2001
Ich IST ein Anderer
Davanti tu, sembra,giungi, Tu che non conosco,
Indelebile felicità nel celeste movimento.
Quando mi dissolvo in corpo o seme, io mi dissolvo
Nel tuo antro: la foresta ha accettato sempre
Le inondazioni ch’essa filtra in segreto e infiltra.
Per Te, la mia violenza d’una volta si trasforma
In paradiso – fin nelle piccole cose.
Perché il Sé è impuro, prefissato alla sorgente del passato,
Come il più grande naufragio, sospeso nelle menti,
Che svezza l’avvenire prima che uno solo se ne avveri.
Allora...che dai miei oblii sia sgorgata la mia parola,
Sono ancora io che sono, fin nell’ignoranza
Della memoria millenaria di tutti quelli che non sono più.
O Morte, chiaroveggente sogno: sono entrato, io vivo,
Dentro il tuo fiume inabissato. E ognuno mi riconosce.
Zurigo – Parigi 22-25 aprile 2001
(trad. G.Cerrai – ha collaborato alla trad. Alfredo Riponi)
(*) il nucleo centrale dell’articolo ruota essenzialmente intorno alla traduzione della parola (sostantivo) "étranger"= straniero, estraneo, che A.J. nel suo testo usa strumentalmente (e ideologicamente) come un verbo coniugabile, sfruttando le potenzialità, in francese, della desinenza in –er.
Alain Jouffroy (Parc Montsouris, 28 settembre 1928) è un poeta e critico d'arte francese.
Nasce da una famiglia borghese di orientamento politico Anarchico-Trozkista. Nel 1936 viene profondamente colpito dallo scandalo Stavisky, che coinvlge alcuni politici e una banca per aver spacciato valuta falsa, favoriti da diversi appoggi insospettabili. Nonostante avesse solo otto anni ne scrive il resoconto su dei quaderni per poterlo poi raccontare. La sua carriera letteraria è fortemente influenzata dalla lettura di opere di André Breton che conoscerà per caso nel 1946. Diventato membro del movimento Surrealista conosce il pittore Victor Brauner ed i poeti Stanislas Rodanski, Sarane Alexandrian, Jean-Dominique Rey e Claude Tarnaud. Più tardi diventerà amico di Henri Michaux e Francis Picabia. Negli anni 60 si afferma la sua influenza nell'arte di avanguardia segnata dall'inontro con Marcel Duchamp e l'inizio di una lunga amicizia con Daniel Pommereulle, Emilio Scanavino e Sebastian Matta. Nel 1965 è uno dei primi ad introdurre in Francia gli artisti della Pop Art, et dei poeti della Beat generation. Con le edizioni Gallimard contribuisce a far conoscere la poesia surrealista attraverso le edizioni da tasca "Poésie". È particolarmente attivo durante il Maggio Francese è in quel periodo che pubblica il poema "Trajectoire" in omaggio a Regis Debray. Si occupa anche di critica d'arte e nel 1974 pubblica Les Pré-voyants ed una raccolta di poesie Dégradation générale, nel 1978 Le Roman vécu. Allontanato dalla rivista Opus International che aveva fondato con Jean-Clarence Lambert, va a dirigere XXe Siècle dal 1974 al 1981. Si appassiona progressivamente alla cultura orientale e nel 1983 viene nominato consigliere culturale prèsso l'Ambasciata Francese a Tokyo, posto che occuperà dal 1983 à 1985. Alain Jouffroy ha ottenuto nel 2006 il premio Goncourt della Poesia per l'insieme della sua opera.
Estratto da "http://it.wikipedia.org/wiki/Alain_Jouffroy"
un'altra poesia di Jouffroy qui
JOUFFROY
Alain Jouffroy su ImperfettaEllisse: Le parole, con il tempo, cambiano significato o escono dall'uso, diventando obsolete, o semplicemente vengono espulse dalla scena dall'imperialismo delle lingue di volta in volta dominanti. Oppure, e questo accad
sono d'accordo con te, Alfredo. I tuoi suggerimenti sono stati accolti in toto, ma ci confronteremo in privato. Grazie dell'aiuto, che ho segnalato, come vedi, in fondo all'articolo. Se ti va dai un'occhiata anche a:
http://ellisse.altervista.org/index.php?/archives/186-Alain-Jouffroy-Una-poesia.html
saluti
G.
Alain Jouffroy su ImperfettaEllisse: Le parole, con il tempo, cambiano significato o escono dall'uso, diventando obsolete, o semplicemente vengono espulse dalla scena dall'imperialismo delle lingue di volta in volta dominanti. Oppure, e questo accad
Tracciato: Set 16, 22:31
Tracciato: Nov 21, 15:35