Lunedì, 24 settembre 2007
Il corpo è molto presente nella poesia del lungo Novecento, quello che non finisce mai, tanto lungo che letterariamente parlando non abbiamo la minima percezione di essere nel terzo millennio. Corpo non solo scritto, ma anche, come dire, vissuto. Se facessimo una statistica delle ricorrenze in poesia della parola "corpo" rimaremmo, ne sono sicuro, stupiti. Non solo in Italia naturalmente, mi viene in mente Bernard Noel ad esempio. Del resto, che c'è di più contemporaneo del corpo? Oggetto esibito, oggetto di consumo, veicolo commerciale, ludus e insieme res nullius, target di violenza deprivato di qualsiasi sacralità, corpus con pochi "habeas", terreno di scontro politico. Questo vuol dire che l'anima ha smesso di ammorbare i nostri climi letterari, come ebbe a dire una volta un critico? Ma certo che no. Il fatto è che, per quanto lo si voglia connotare in maniera nuova o originale, per noi poeti il corpo rimane una membrana osmotica tra il fuori, l'esterno, il mondo e quella parte di noi, sia essa l'anima o qualcos'altro, che tenta di interpretare il sensibile e l'ultrasensibile. E a volte anche prigione - "Corpo, ludibrio grigio / con le tue scarlatte voglie, / fino a quando mi imprigionerai?" (Merini) - di una psiche limitata nella sua volontà di progettare/proiettare e incapace a liberarsi.
Direi che questo vale anche, sotto certi aspetti, per Stefano Lorefice ("L'esperienza della pioggia" - Campanotto 2006). Corpo città, corpo frontiera, dice l'indice. Abitato e disabitato, un soma/edificio in cui l'anima c'è e non c'è e semmai risuonano echi di dedideri, illusioni, disillusioni, dolori. Come città, esso è percorribile, periferico, quotidiano anche come linguaggio, spesso colloquiale e piano, senza reticenze nè artifici stilistici. E come frontiera è anche ipotesi, speranza, futuro, attraversamento, esplorazione. E sguardo su un orizzonte, sebbene esso sia, come in molta poesia contemporanea tendenzialmente minimalista, un orizzonte di corto raggio, come se gli indizi della realtà fossero a portata di mano ("perchè nel freddo di questa tavola sta la nostra deriva", pag. 46; oppure "è nella mano che sta il mio confine" pag. 41). Ma del resto "alle nostre frontiere troppo spesso confuse / c'è da affacciarsi poco", pag. 54; e altrove si dice che per vedere "bisognerebbe essere lì / nel piccolo / nei pochi cenimetri" pag. 13. Vista la giovane età dell'autore, non è improprio che questo coacervo di echi si concentri, mi sembra, nell'amore, in questo "tu" referente che troviamo in moltissimi dei testi presenti nel libro, un "tu" che magari è anche plurale, estensione dello stesso poeta. E' in questo dato dell'esperienza che meglio (anzi bene) si coagula e si supera quella dicotomia di cui si parlava e il corpo poetante diventa luogo dove l'amore si esercita, si condivide, si soffre e si vive anche nelle sue espressioni somatiche: "l'amore dalle mani spezzate / senza appetito coi colpi allo stomaco / che fanno male davvero" pag. 29. E anche "i polmoni di corsa", "le ginocchia piegate, "il cuore rovesciato dentro" parlano il linguaggio amoroso, linguaggio anch'esso di corsa, come un lungo fiato per non perdere il filo e dire tutto quello che c'è da dire senza ripensamenti e magari con la paura di essere interotto, perchè non è un caso che i testi di Lorefice siano costituiti spesso da un solo lungo periodo, è proprio a causa di una concezione moderna (e narrativa) di linguaggio vicino alla velocità del pensiero e, insieme, oggetto di consumo come i colori per un pittore, che contiene in sè la pennellata, lo scarto poetico. Tuttavia anche l'amore, come il corpo, come il paesaggio urbano fatto anch'esso di "un corpo contro un altro corpo", non sono in fondo che una metafora del vivere, dell'esperienza che non solo si vive ma anche si subisce, si metabolizza per sedimentazione, si ricrea poeticamente partendo anche da un semplice "scazzo", con un procedimento che Lorefice descrive perfettamente:
dici che tutto ha una sua logica
il verso, le parole
il significato che sta nell'accumulo
io ti rispondo che c'è bisogno di ogni scazzo
per scrivere una poesia
come quando si manda a quel paese
poi, che non ci metto zucchero
voglio sentire l'amaro
comincio dal caffè
e aggiungo che no, non c'è una logica,
c'è un sedimento
un tempo che deve passare
Eppure, in quella mancanza di logica che Lorefice rivendica apparentemente a favore di una scrittura poco "meditata", c'è una consapevolezza, uno stile maturando ma già definito, perfino una strategia. Ma c'è anche spazio per uno scrivere che recupera certe eredità culturali e stilistiche, come in questa bella poesia che potrebbe ricordare Sereni o Raboni:
anche s'è estate
e dicono che arriverà più avanti, come ogni anno,
l'afa che ci spetta,
con te si vive di rincorsa
che dei giorni per far festa non sai ancora che farne
e ti agiti quando ti chiedo dove saremo
spingi giù,
inghotti un pò di quella timidezza che t'appartiene
e mi fai un gesto con le mani...
"Ma ti pare che passeremo l'estate qui..."
un'occhiata d'intesa poi, ci voltiamo verso il lago
fra noi salutare e sorridere è una parola sola
Ma è in poesie come quella che segue - assolutamente emblematica, una specie di summa poetica e metapoetica - che si incrociano le linee di forza tematiche e di ispirazione di Lorefice: il corpo e la psiche stabiliscono un rapporto semantico diretto, che dilata dal dentro, con la parola e perfino con il valore iconico della parola stessa (amore/"amore")
bisogna arrossire
che in certi momenti il dolore ti strappa gli occhi
bisona sapere arrossire
tutto qua
sfogliare le pagine
annusarne gli angoli e il sale che resta al centro,
flettere i muscoli stanchi del ristagno
e portare fuori il gesto dal braccio;
un movimento qualsiasi
con la pelle e quel che rimane del sonno,
perchè c'è la necessità di un rapporto semplice
fra la parola "poesia" e la parola "mano"
e la parola "bocca" e la parola "corpo",
un dovere comune
che non può stare nel fuori
è un dilatare dal dentro, dal più intimo amore
e "amore" è capire e sapere arrossire
che a volte il dolore te li consuma
gli occhi
E per quanto molto ci sia ancora da dire su questa poesia, credo che questo basti a giustificare qualche confortante aspettativa nei confronti del lavoro futuro di Lorefice.
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recensione di Giacomo Cerrai alla mia ultima raccolta di poesie, pigiate qui
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