Simone Maria Bonin - Tratti primi - Arcipelago Itaca Ed., 2017
Come ho detto altre volte, non è sempre agevole parlare di un'opera prima.
Si rischia di essere troppo condiscendenti o troppo severi. Ma può essere
utile. E' pur vero, intanto, che un'opera prima non è mai tale, non spunta
dal nulla in una notte come un fungo prataiolo. Immagino che anche nel caso
di Bonin questi Tratti primi siano frutto di una scelta di prove
precedenti, di elezioni e rifiuti operati su un lavoro di scrittura, per
quanto relativamente breve esso possa essere stato (l'autore è del 1993).
Un libro che ha vinto, per l'inedito, la seconda edizione del Premio
indetto da Arcipelago Itaca.
In questo tipo di letture l'interesse principale, a mio avviso, sta nel
cercare di capire l'aria che tira, cos'è che importa mettere in poesia ad
un giovane, pur nella convinzione (mia) che il dato generazionale non
costituisca affatto una categoria critica, ma solo una prospettiva per così
dire sociologica. E quindi, di cosa parla Bonin nella sua raccolta? Del
mondo, naturalmente, e della realtà, almeno come percepibile ai suoi occhi.
Si tratta, citando la motivazione del premio, di "un approssimarsi inquieto
ad una realtà che costantemente sfugge". Se ci si limita a questo siamo nel
pieno del secolo breve (ma per Sanguineti interminabile), e si parla ancora
dell'ambito della incomprensibilità del mondo e della sua descrizione, e
della crisi dell'uomo di fronte ad esso. Un tema a cui anche molti giovani
poeti non sfuggono, testimoniando un disagio che però non può essere che presagito, o, nella peggiore delle ipotesi, raccolto,
come se l'esperienza soggettiva (per forza di cose limitata) si mischiasse
ad una percezione non degli eventi ma della narrazione (magari
anche letteraria) dei medesimi, di uno stream poetico. Almeno la
prima parte della raccolta (diciamo le sezioni Vicoli ciechi, PTSD, Biopsie) mi pare che si muova in questo
senso, identificando lo sfuggire della realtà (che però è cosa diversa dal
reale, ma lasciamo perdere) nella indeterminatezza degli oggetti poetici e
della loro messa a fuoco, dei "luoghi" esistenziali, delle cose che appunto si osservano nell'approssimarsi.
Se questi caratteri sono esatti, mi pare che siamo su un terreno di
ermetismo "riformato", in chiave moderna se volete. Da questo punto di
vista mi sembra emblematico un testo come il seguente:
Sei parole senza nome, senza
soluzione
impara la posizione del corpo
le cose
non torneranno più
in cui al lettore non è offerto alcun appiglio, tranne la pura suggestione
di un ammonimento che l'autore dà a sé stesso (il tu non mi pare
riferito a qualcun altro) riguardo, forse, al tempo che scorre in maniera
inesorabile, partendo da qualcosa (sei parole) di determinatamente
indeterminato. Non sappiamo altro, e comunque sappiamo molto meno di quello
che certo sa l'autore, un atteggiamento orfico poco "transitivo".
Un altro esempio può essere quello di Illogiche II, che troviamo
prima:
II
Qualunque cosa fosse
l’ho sotterrata in un fosso
ho fatto un cerchio nell’aria
e ho scagliato d’impulso il sasso
un movimento d’elastico e il corpo
si fa molla - lontano, dicevo, va lontano
“Tanto poi sbuco fra le dita della tua mano”.
Qui l'indeterminatezza è concentrata in quel "cosa" (parente delle "cose"
del testo precedente) che però, pur essendo lapidario e testimoniato
dall'autore nel suo essere inconoscibile, ignoto e, forse, ignorato,
ingenera nel lettore l'immagine di un fatto, un evento, una esperienza o
chissà cos'altro che viene superato, gettato dietro le spalle, tanto poi
qualcuno (come dimostra la forma dialogica virgolettata) ritorna, riemerge
come in un frame, anche tra le dita della mano che tenta di impedirne la
visione. Non si sa se questo fatto sia un bene o un male, il mistero
rimane, in questo testo, ma certo il lettore riscuote qualche guadagno in
termini evocativi.
Qual è il problema delle "cose"? Di per sé nessuno, anzi le "cose" hanno
sempre avuto la loro dignità, in Montale tanto per dire, nella cosiddetta
linea lombarda, in autori come Sereni, Cattafi, Balestrini e diversi altri.
In questo discorso servono solo come marcatori (ma ce ne sarebbero altri)
di una tendenza più generale a far scomparire la realtà, anzi a nemmeno
identificarla, "conoscerla", nascondendo questa riduzione minimalista sotto
il tappeto della genericità di un sostantivo come "cose" (o analoghi), come
ha cercato di dimostrare Davide Castiglione in un suo saggio di qualche
anno fa, intitolato appunto "Le cose, le cose, le cose - Svuotamento e
stallo nella poesia recente". Insomma si tratta di vedere se certa
indeterminatezza (non tanto in Bonin quanto in molta della poesia giovane
attuale) è emblema di poesia che ha il suo proprio "essere nulla e tutto" a
cui ancora la motivazione del premio fa riferimento (ma rovesciando qui la
connotazione positiva della motivazione stessa). Non è un caso che facciano
parziale eccezione i testi della interessante sottosezione Voyages
, nella quale il riferimento quasi onirico ad elementi naturali (mare,
monti, onde, acqua, alberi) danno al dettato una forza di correlatività tra
interno e esterno, tra percezione e realizzazione.
Certo, quelli che ho preso in esame sono due casi forse estremi. In effetti
essi evidenziano la differenza che esiste all'interno di questo libro tra
una prima parte, quella rappresentata dalle sezioni prima indicate, ed una
seconda, costituita principalmente dalla sezione eponima Tratti primi, che a me pare di ben altra e miglior stoffa. In
quella prima parte, come si è cercato di vedere, il registro è di una
voluta opacità monologante, che mi pare rispondere ad una interiorità tanto
privata da risultare talvolta misterica; in questa altra lo sguardo
dell'autore è decisamente rivolto all'esterno, in relazione con un mondo
più vasto, anche storicaménte e geograficamente più distante, abitato da altri. Un mondo identificabile e concreto pur nella sua metaforica
valenza di habitat, di luogo diffuso dell'esistenza, ma anche come
territorio da attraversare, campo di analisi, elaborazione di frammenti e
visioni proprie o altrui, come in autentici scatti fotografici. Qui
troviamo il viaggio, che è conoscenza e realizzazione, come la Timisoara in
cui riecheggia una Storia, come la rivoluzione rumena dell'89, che per
l'autore (che ricordo è del 93) non può tuttavia che essere una esperienza
per così dire "ricostruita", postideologica, qualcosa che le ultime
generazioni devono ricomporre; troviamo l'esercizio lirico/elegiaco di una
parafrasi, di una reinvenzione narrativa di storie che l'immagine
fotografica ha fermato, come la serie di testi dedicati a Edward Sheriff
Curtis, fotografo degli Indiani d'America, tutti molto interessanti, pregni di voglia di esserci; oppure
il resoconto, anche questo interessante e ben scritto, di impressioni,
note, suggestioni, meditazioni raccolte durante un viaggio o soggiorno in
Danimarca, caratterizzato da un punto di osservazione laterale ma acuto, di
un autore volutamente defilato, che percorre i luoghi con pensosa
leggerezza e partecipazione.
Non voglio asserire che questa concretezza sia un valore in sé, né che lo
sia per chiunque, e nemmeno contrapporla ad una ricerca interiore, ma è
dove il reale, non tanto evocato quanto varie volte nominato
direttamente nei versi, si raggruma ed affiora fornendo corpo, consistenza
materica e colore al testo.
Direi allora che queste sottosezioni di Tratti primi ( Timisoara, fotografie di E.S. Curtis e Denmark), decisamente
superiori alle precedenti, sono la parte migliore del libro in cui tra
l'altro riesce ad emergere anche un accento lirico capace di prendere fiato
ed espandersi, evitando sempre bene segnali troppo elegiaci o decadenti. E'
quindi in questa direzione, di realizzazione (termine qui
appropriato) del mondo, di aderenza al visibile che Bonin, anche
in relazione alle qualità della sua scrittura, a mio avviso dovrebbe
andare. (g. cerrai)