Domenica, 8 ottobre 2017
Fabio Orecchini - Per Os - Sigismundus Editrice, 2016
Conosco Fabio da un po', seppure alla lontana come permettono i mezzi
attuali. Lo conosco almeno dal 2011 (v.
QUI
), da quello che posso considerare, per quello che ne so, l'inizio di un
percorso poetico (ma non solo) attraverso una realtà che per lui non era
possibile accantonare o considerare come elemento illeggibile e buonanotte,
o qualcosa da aggirare "ermeticamente", come intorno a un idolo di pietra
che ci restituisce indietro l'eco dei nostri inutili lai, ancorché alti.
Almeno da Dismissioni la realtà ha una faccia precisa, si
manifesta concretamente come espressione del potere totalizzante, una
feroce sineddoche, una parte che si prende il tutto, in una lotta (di
classe? perché no?) che lascia sul terreno vittime altrettanto reali. Il
punto di caduta si realizza nei luoghi dove si condensano le dinamiche e
gli attriti tra singoli e sistema, dove la chimica e la fisica degli
scontri residuano sul campo scorie significative, e ferite. Dove i nodi
vengono al pettine. E' il lavoro, è l'ambiente, è la vita chiusa in un
cerchio produttivo/riproduttivo regolato quasi sempre da altri. E' il
cataclisma, il disastro , qualcosa cioè che in principio attiene a qualcosa
di destinale, ma che poi ricoagula rapporti asimmetrici tra singoli e
sistemi, tra colpiti e chi è chiamato a fornire una risposta. Dismissioni era, come scrivevo, il libro "di una
tragedia, anzi di una catastrofe industriale, del lavoro, della salute,
della disgregazione sociale e familiare che a quella catastrofe si
accompagna, la chiusura degli stabilimenti, il loro smantellamento e -
prima, contemporaneamente, dopo - lo smantellamento chirurgico di chi ci ha
lavorato rimettendoci i polmoni"; qui invece lo spunto di una riflessione
poetica è il sisma che ha colpito L'Aquila e il territorio circostante, non
tanto nella sua immediatezza quanto nella sua sedimentazione di strati,
fisici e morali, da cui è necessario risalire dolorosamente alla
superficie. In altre parole (quelle di Fabio), una "allegoria della crisi
antropologica e politica del contemporaneo".
Dette così le cose, potrebbe sembrare che il lavoro di Orecchini sia
ascrivibile alla vasta e indefinita categoria della poesia (o altra arte)
civile, categoria che quasi inevitabilmente porta con sé almeno due
connotazioni, una "politica" (nobile quanto rigida), e una "realistica"
(idem come sopra). A me pare, in realtà, che l'espressione artistica di
Fabio (scrittura e non solo) sia sufficientemente moderna (e forse post-)
da sfuggire a certe secche, soprattutto perché i "luoghi" di cui si diceva
sono qui eminentemente metaforici (o metonimici) ma anche - e forse qui in
maniera precipua - luoghi del linguaggio, dove il linguaggio riprende la
sua forza ove si libera da schemi per così dire "economici", legati ad una
produzione di senso di basso livello. Quindi, tuttavia, politica
lo è, ed è certo, se mi si passa un aggettivo un po' desueto, militante,
anche nel senso dello studio della materia e della ricerca "sul campo" che
sta dietro a questo lavoro. Un approccio complessivo a cui Orecchini non
può rinunciare, può solo sottoporlo a critica, rivederlo, saggiare il suo
grado di adattabilità all'oggetto della sua attenzione artistica.
Ci sono diversi livelli in quest'opera, come già nella precedente, un
lavoro non facile da descrivere. Direi che Fabio ha portato a maturazione
espressiva un formato di fruibilità multipla, per canali diversi. Anche
questo libro non è solo un libro. E' un testo, riguardo al quale
occorre tener conto della sua struttura, della sua forma grafica, della sua
lingua; è nello stesso tempo Terraemotus, una
installazione multilivello multimediale (anzi intermediale), che dopo aver
girato varie collocazioni ora è
in rete
(e quindi fruibile senza allontanarsi dal testo ma che col testo
canonicamente inteso ha un rapporto non strumentale nè di mero supporto
iconico, ma apporta semmai una somma di prospettive, la generazione di una
biosfera culturale a sua volta generativa, diversa da quella della seconda
edizione di Dismissioni, per la quale parlavo di "estensione
ipertestuale"). Come libro si affida ovviamente alla parola, anche qui a
diversi livelli. Per os è termine medico, ed è una via a doppio
senso, attraverso cui entra la medicina, esce talvolta il male, qualcosa si
installa e si espelle. "Per os, - scrive Fabio - per bocca e per
la bocca, somministrate siano le parole, le poche che restano". Questa
rarefazione delle parole mi pare che rappresenti diverse cose, tutte
importanti, che Orecchini vuole far risaltare: la perdita di parole è
perdita di potere, anche senza scomodare Foucault, perdita di voce
antagonista, delle "parole per dire"; è perdita di voce, progressiva
estinzione del fiato, lamento che proviene da sotto macerie reali e
simboliche, che si affievolisce e tuttavia non cessa di lanciare il proprio
grido di protesta, di rivendicazione di un diritto (alla vita, ad esistere,
ad essere identità rilevabile) irrinunciabile; il diradarsi delle parole
nel bianco della pagina, rappresentazione grafica, eidetica di questo
"resto" di parole, che diventa manifesto politico proprio perché,
paradossalmente, questa rarefazione non decade - anche retoricamente - a
mero slogan, cioè non si semplifica. Non parla troppo e
tuttavia dice molto, come un cieco che non vede ma vede oltre (ilTiresia di Giuliano Mesa che lo stesso Mesa recita nel Livello -2, Sismografie, della installazione). Siamo, in altre
parole, nel campo dell'epos degli sconfitti, un epos moderno.
Naturalmente il linguaggio, specie per un esploratore come Fabio, non basta
più, anzi tende a somigliare mimeticamente ad altro con cui entra in
simbiosi, che sia esso ciò che tenta di descrivere, la maceria, le scorie,
oppure i mezzi di espressione comprimari con i quali peraltro è difficile
competere, per ovvie differenze di codici. E' un'altra delle ragioni,
credo, di questa frantumazione linguistica. Tuttavia queste poche ma buone
parole, a volte lacerti, esclamazioni, ma comunque ben pesate, bastano ad
articolare un discorso efficiente ed efficace, un testo strutturato in sei
sezioni intimamente correlate: Ananke | I due mondi, ovvero
l'elemento destinale ma anche la "necessità di riconnettere", come dice
Fabio, i frammenti di un dolore profondo siano essi psichici, fisici o
mnemonici; de generare | la casa dentro, con un esergo che recita
"la verità rende ciechi, la cecità tutto più vero" (che vedremo poi a che
rimanda), una visione "esplosa", come si direbbe in termini tecnici, come
di interni visti dall'esterno, anche qui fisici e psichici, similmente a
case sventrate dal sisma, in cui da fuori si vedono suppellettili, oggetti,
intimità; per os | somministrare parole, è "il fuoco di parole che
devasta / mentre tutto d'intorno si tace", i perché senza risposta, "il
fallimento dell'immortalià / domestica di morire non senza aver pulito" e
insieme la parola gettata come una rete di salvataggio, " una vocec'è qualcuno? / che crepa nel muro / crepa"; OO | la memoria della crisi - SS | la crisi della memoria, ove -
ipotizzo - si recita il dramma degli equivoci di una memoria che da una
parte registra (la crisi, il dolore, la morte ed è - ipotizzo ancora -
memoria dei singoli, delle vittime, dei superstiti) e dall'altra è pronta,
a-criticamente, a ripercorrere i consueti circoli viziosi o errori ed è la
memoria corta collettiva (singoli compresi), istituzionale, è in ultima
analisi "[ l'assedio della Storia // sedimenta ] si dimentica";
segue Ifigenia | sequenza mancante, che sembra affrontare
l'incomprensibilità, quasi decimatoria, del sacrificio, del caso che uccide
i giovani e risparmia i vecchi, come l'anziana signora quasi centenaria di
cui raccontano le cronache, che sotto le macerie attende i soccorsi
sferruzzando il suo uncinetto e tuttavia, col recupero, avviene una "assunzione" al cielo, una rinascita, una dilazione del tempo (ed è la sezione in cui più la scrittura si
dirada, diventa pura fonazione, lamento, annotando qui che il linguaggio
continua a rarefarsi, poiché, come giusto, fa le spese del suo emittente,
il corpo medesimo, la sua crisi di elemento sempre più periferico del mondo
e della natura, perfino quando vittima che non capisce. Il linguaggio
allora diventa articolazione, gemito. Magari dovrebbe farsi bestemmia, ma
questo è un altro discorso, ci vorrebbe una dimensione del sacro che non ci
appartiene più. Del resto, come dice Giuliano Mesa in un esergo, "Non c'è
che questo andarsene dal dire"); infine a chiudere la sezione iato | apertura delle ore, che immagino il tempo sospeso, e che
pure c'è, tra la fine dell'evento e la ricomposizione di una realtà del
"dopo", "tra rimozione e rigenerazione", come fosse la contemplazione
immota della polvere che silenziosa si riposa sulle macerie.
Varrebbe la pena di accennare a quanto avviene sul versante installativo,
come è possibile vedere al link riportato. Ma credo che sia un'
esperienza
da fare direttamente, dedicandoci il tempo che ci vuole, immaginando
l'installazione come uno spazio da attraversare, dove il percorso è
verticale, ma contrario, è un diverso scavo, va verso l'alto (da Livello -2
a Livello 2), verso una uscita, l'aria, il cielo, del corpo, attraverso le
barriere fisiche, e della voce, che urta i denti quasi a spezzarli, forse
anche della ricerca di una verità non necessariamente raggiungibile, ma
sempre necessariamente perseguita. Immaginandola come un luogo fluido, a
suo modo sismico - come le sismografie (v. ancora il Livello -2
dell'installazione) di Fabio, "trascrizioni continue, che avvengono in
disgrafia autoindotta, su rulli di carta", di alcuni versi sempre di Mesa -
ma potente produttore di senso. Immaginandola insomma come un luogo del
pensiero, da cui forse proviene il testo, o a cui forse approda. (g. cerrai)
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