Gianmario Lucini - Canto dei bambini perduti – CFR Edizioni, 2013 (disegni di Giacomo Cuttone)
Canto dei bambini perduti
di Gianmario Lucini è una nenia d’amore infinita in cui i lettori/spettatori partecipano a un prolungato raggio di vita e di morte in tutte le dinamiche
sociali e intellettuali che il poeta sa, con ebbrezza elastica ed empatica, evidenziare nei molteplici drammi umani: la disperazione e lo scandalo del
sopruso, il silenzio del dolore impietoso della perdita, lo sgomento cosmico di fronte alla torturata coscienza etica sempre in crisi e in bilico rispetto
al nichilismo del sistema. Lucini mette in scena il rimosso, le condizioni estreme, le ombre adornate del lutto che prendono voce, musica, movenze e
silenzi: i personaggi acquisiscono volti, nomi, sembianze che, l’esperienza visionaria di Giacomo Cuttone, sgola e tocca, incarnando e attestando, sia i
personaggi concettuali che quelli emozionali. I bambini perduti ritornano in tutto il loro simbolismo sovrabbondando in modo quasi esilarante;
corpi che in qualche modo hanno bisogno di gridare e invocare, mettere in ansia, sussurrare, ma, soprattutto, ricordare la bellezza della loro semplicità ( Una terribile bellezza è nata – William Butler Yeats), la loro fiducia estrema con cui sono stati immediati e presenti in questo mondo. Ci sono
appartenuti così, terribilmente intensi e luminosi, senza interferenze o filtri. Adesso, in questa sceneggiatura teatrale, ossuta e a volte gonfia di
tormento, terribilmente grigia (G. Cuttone disegna in bianco e nero) l’autore ci pone di fronte a mille domande, a mille cantilene. Siamo riallacciati alla
traccia, alla parte che viene lesa, negata: capirne i meccanismi perversi, le sostanze intime, la malattia sociale originaria, il perché della formazione
familiare marcia, far riemergere la struttura primaria, risalire al detto, al non detto, al ridetto, ricostruire la parte, rimettere in scena i dialoghi,
le paure, le forme postume. Gli equilibri sono precari, i miracoli non avvengono, le preghiere assumono forme laiche, emorragiche, diventano
denunce/rinunce. Il mondo non è più apparenza, ma forza autoriflessiva, visibilità, scoperta della luminosità e del buio su cui si muove l’impresa
dell’incorporeo nel corporeo. È un dono fertile: la poesia si veste di umanità, vuole superare la spoliazione della tragicità nel suo profondo, in modo
estremo e autentico, riemergendo dalla stessa eco, dalla stessa vita, dal sorriso compiuto di un bambino, dall’armonia che la sua bellezza ci insegna. (rita pacilio)