Giovedì, 20 settembre 2012
Una poe sia di Sylvia Plath, nella traduzione di Giovanni Giudici. Testi e autori che rileggo a volte per un bisogno di "freschezza", anche se appare difficile con temi come questo, o di una linearità sintattica e semantica, o per rispolverare vecchi ferri del mestiere, come la metafora o la similitudine, che per Aristotele erano "senza confronti la cosa più importante..., la sola che non si possa imparare, il segno della genialità". Artifizio che, per antica cultura (si pensi soltanto a Shakespeare o a Marlowe) è tanto presente nella poesia anglosassone (e tanto più nella cosiddetta confessional poetry, a cui tuttavia Giudici non vorrebbe associare la Plath), quanto ormai abbastanza desueto nella nostra. Forse perchè, come notava un critico, in esso devono coesistere sorpresa (tra i termini del confronto) e semplicità (dei medesimi). Cose che poco si conciliano con la poesia "corrucciata" e ombrosa che molti di noi oggi frequentano. (g.c.)TULIPANI
I tulipani sono troppo eccitabili, qui è inverno. Guarda com'è tutto bianco, tutto quieto e innevato. Sto imparando la pace, da me quietamente posando Come posa la luce su questi muri bianchi, questo letto,queste mani. Io non sono nessuno; non c'entro con le esplosioni. Ho dato il mio nome e i miei vestiti alle infermiere E all'anestesista la mia storia e ai chirurghi il mio corpo.
Tra guanciale e risvolto del lenzuolo han puntellata la mia testa Come un occhio tra due palpebre bianche che non si chiuderanno. Stupida pupilla, tutto deve sorbirsi. Le infermiere passano e ripassano, non disturbano, Passano come gabbiani all'entroterra nelle loro cuffie bianche, Con mani affaccendate, identiche l'una all'altra, Così che è impossibile contare quante sono.
Per loro il mio corpo è un ciottolo, vi attendono come l'acqua Tende ai ciottoli sui quali deve scorrere, gentilmente levigandoli. Mi portano il torpore nei loro lucenti aghi, mi portano il sonno. Adesso ho perduto me stessa sono stufa di fardelli - La mia ventiquattrore di pelle come un nero portapillole, Mio marito e il bambino sorridenti dalla foto di famiglia; Mi agganciano la pelle i loro sorrisi, sorridenti ami.
Ho gettato cose a mare, io cargo di trent'anni Testardamente attaccata al mio nome e indirizzo. Hanno passato una spugna sui miei affetti. Impaurita e nuda sulla verde barella plasticata Ho guardato la mia teiera, i miei portapanni, i miei libri Sparire affondando e l'acqua si è chiusa sul mio capo. Sono una monaca adesso, non sono mai stata così pura.
Io non volevo fiori, volevo solamente Giacere a palme riverse ed essere tutta vuota. Come si è liberi, liberi da non credersi. La pace è così grande che abbaglia, E non chiede nulla, un'etichetta col nome, pochi aggeggi. È il finale a cui approdano i morti; me li figuro Inghiottirselo come un'ostia da comunione.
I tulipani sono troppo rossi, mi fanno male. Anche sotto la carta li sentivo respirare Lievi, sotto la bianca fasciatura, come un bebé mostruoso. La loro rossezza parla alla mia ferita, gli risponde. E sono infidi: sembrano galleggiare, benché mi tirano giù, Sconvolgendomi con le loro lingue imprevedute e il colore, Dozzina di rossi piombi intorno al mio collo.
Nessuno mi sorvegliava, adesso sono sorvegliata. A me i tulipani si volgono e dietro me alla finestra Dove una volta al giorno si allarga e si assottiglia la luce E io mi vedo, piatta buffa ombra di pupazzo ritagliato Fra l'occhio del sole e gli occhi dei tulipani, E non ho faccia, ho voluto cancellarmi. I vividi tulipani divorano il mio ossigeno.
Prima del loro arrivo l'aria era calma abbastanza, Andava e veniva, respiro su respiro, senza trambusto. Poi loro l'hanno riempita come un gran chiasso. Adesso l'aria si rompe e vortica quale un fiume Si rompe e vortica su una macchina affondata rossa di ruggine. Concentrano la mia attenzione che era prima felice Di giocare e riposare senza impegnarsi.
Le pareti, anche loro, sembrano riscaldarsi. I tulipani dovrebbero stare in gabbia come bestie feroci; Si aprono come la bocca di un grande felino africano E io mi accorgo del mio cuore che apre e chiude La sua ampolla di rossi bocci per puro amore di me. L'acqua che assaggio è calda e salata, come il mare, E viene da un paese lontanissimo come la salute.
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Mercoledì, 22 febbraio 2006
 In questi giorni ricorre il decennale della morte di Amelia Rosselli e molti hanno pensato di celebrare l'evento, in molti modi diversi. Della Rosselli si è detto molto, a cominciare dalla sua poesia sospesa in un terreno di confine, in una continua osmosi tra due lingue e, forse, due identità. Di difficile collocazione, tanto che è stata inserita con qualche disagio nella antologia "Poeti italiani del Novecento" di P.V.Mengaldo, che, quando uscì, intendeva essere esaustiva del panorama poetico italiano giunto alla fine degli anni Settanta. In maniera un pò ellittica (in questo blog non potrebbe forse essere altrimenti) colgo qui due piccioni, riproponendo un testo di una poetessa che amo nella traduzione di un'altra poetessa ugualmente amata, che ci ha messo del suo. Entrambe sublimi, entrambe travolte dall'impossibilità di trovare infine una catarsi poetica alla tragedia dell'esistere...
MORNING SONG di Sylvia Plath
Love set you going like a fat gold watch.
The midwife slapped your footsoles, and your bald cry
took its place among the elements.
Our voices echo, magnifying your arrival. New statue.
In a drafty museum, your nakedness
shadows our safety. We stand round blankly as walls.
I'm no more your mother
than the cloud that distills a mirror to reflect its own slow
effacement at the wind's hand.
All night your moth-breath
flickers among the flat pink roses. I wake to listen:
a far sea moves in my ear.
One cry, and I stumble from bed, cow-heavy and floral
in my Victorian nightgown.
Your mouth opens clean as a cat's. The window square
whitens and swallows its dull stars. And now you try
your handful of notes;
the clear vowels rise like balloons.
CANTO DEL MATTINO
Come un grasso orologio d'oro l'amore ti mise in moto.
La levatrice schiaffeggiò le piante dei tuoi piedi, e il tuo grido pelato
prese il posto tra gli elementi.
Le nostre voci echeggiano, magnificando il tuo arrivo. Nuova statua.
In un museo percorso da correnti d'aria, la tua nudità
adombra la nostra sicurezza. Ti attorniamo vacui come mura.
Non sono più madre tua io
della nuvola che distilla uno specchio per riflettervi la sua propria lenta
cancellatura per mano del vento.
Tutta la notte il tuo fiato-di-falena
ondeggia tra le rosee lisce rose. Veglio per ascoltare:
un mare lontano muove nel mio orecchio.
Uno strillo, e dal letto incespico, pesante come una vacca e floreale
nella mia vestaglia vittoriana.
La tua bocca s'apre nitida come quella d'un gatto. Il riquadro della finestra
s'imbianca e ringoia le sue tetre stelle. E ora tu provi
un tuo trillo di note;
le chiare vocali sorgono come palloni d'aria.
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