Ho letto per la prima volta A.J. Sinadino in una deliziosa opera (tre
volumetti in 24°) intitolata "Poeti simbolisti e liberty in Italia", uno
di quei libri che solo Vanni Scheiwiller sapeva fare (Strenna del Pesce
d'Oro 1968, 72, 73, a cura di Glauco Viazzi e V. Scheiwiller), anche se
non proprio "taschinabile", come lui amava dire. Poeta poi (o forse
prima, non ricordo) ritrovato in "Poesia Due" di Guanda, da cui ho
tratto questi testi che ho ritradotto.
Sinadino è poeta pressoché sconosciuto in Italia, o almeno dimenticato
da tempo immemorabile. Di origine greca, nato in Egitto da madre
italiana, è stato un autentico cosmopolita, capace di entrare in
contatto con le culture più stimolanti dell'epoca, subendo gli influssi
futuristi, ma anche e soprattutto simbolisti, a cominciare dal
riconosciuto maestro del simbolismo, Stéphane Mallarmé, senza perdere di
vista autori come Proust, Poe, Baudelaire, tutti citati in questi
testi (V. biografia alla fine dell'articolo). Ancora oggi la sua scrittura, a parte l'apparirci a tratti
retorica, è capace di fornire al lettore grandi suggestioni. Una poesia
misurata, controllata più di quanto appaia, ma insieme carica di una
mistica particolare, religiosa fino al sincretismo, in cui l'autore
ricerca non solo la purezza della parola ma anche la sua stessa purezza,
una poesia nella quale "il reale si lascia dai suoni, colori,
sensazioni ed emozioni raccogliere" (E. Citro) e che sembra bruciare
intensamente dall'interno, nella sua meditazione sul tempo e sulla morte. (g.c.)