Riflessioni sull'arte: il contemporaneo attraverso la scultura ceramica
Immagini libere a partire da alcune opere... (al Mic di Faenza)
Silvia Celeste Calcagno, “Interno 9, La fleur Coupée”
Un abito a fiori ricompare in diverse immagini e posture mentre parti del corpo femminile sono inquadrate sensualmente in primissimo piano frammentate o in
dettaglio: piedi o lembi di gambe nude, ginocchia o mani intrecciate, scarpe nere o tacchi alti , braccia o capelli lievemente sfiorati dall’acqua. Piccole
piastrelle ceramiche si combinano l’una all’altra nel montaggio come moduli di grès stampati a fuoco accompagnati dal sottofondo audio della voce narrante
fuori campo mentre una figura femminile è vista immergersi o avvicinarsi a una vasca da bagno. Visioni ravvicinate o a distanza, i dettagli del corpo sono
intravisti attraverso un abito di seta, leggero e svolazzante, inquadrato in immagini sfuocate come attraverso una lente opaca che distanzia, ricopre e
filtra le medesime riportandole a un’epoca indefinita del passato, a un’ambientazione vaga e a una figura a metà cancellata della memoria. Il bagno rituale
evoca l’abbandono o il riavvicinamento all’acqua, un tentativo di re-immersione o ritorno al suo elemento primario, simbolicamente inteso come un rito di
purificazione, di rinnovamento e rinascita passando attraverso una fonte quasi battesimale. L’immagine, tuttavia, resta ancorata al passato, a un’epoca
precedente quasi scandendo un’esistenza che risorge dall’oblio, che lotta come questi frammenti di memoria, come queste parti di corpo separate e infrante
per risorgere e tornare poeticamente alla vita, in dettagli, a bagliori e non fosse che per qualche istante. Una voce fuori campo ripete in una
registrazione audio, ipnoticamente all’infinito, una serie di immagini in associazione libera, totalmente aleatoria nel tentativo quasi, dice, di
“abortire” , o meglio abolire o obliare un viso. Quasi che volesse consegnare all’oblio la sua immagine semi-sbiadita e insieme avvolgere quell’oblio in un
grido disperante, riempito di rabbia e di ardore, malgrado la rivolta, verso la vita: “su un ritratto sbiadito, su una danza inadeguata, su uno sguardo
rubato, su un sorriso forzato, su una fiamma interrotta, su un livido viola, su una folla impazzita io abortirò il tuo viso”afferma la voce fuori campo;
“su un tappeto di pietra, su un cuscino macchiato, su una tenda strappata, su una foto ingiallita , sul coraggio di una scelta, su un gesto mancato, su un
grido taciuto io abortirò il tuo viso”. “Sul disordine del quotidiano, su un tappeto arrotolato, su labbra disegnate, su una sedia barocca, su un ritratto
schermito, su un volto invasivo io griderò alla vita”. “Su una domenica imperfetta, su una rosa dissecata, su un mare impazzito, su uno stivale borchiato,
sulla costanza d’una promessa io griderò alla vita” afferma il monologare della voce mentre una serie di immagini scorrono, disconnesse e insieme
emotivamente investite d’una soggettività impersonale, d’una fragilità esposta, resa tangibile per quanto celata tra le righe nel montaggio delle minuscole
fototessere.