“GRADI DI LIBERTA", sulla nostra possibilità d'essere liberi ( visto al Mambo di Bologna, Novembre 2015)
“Gradi di libertà, dove e come nasce la nostra possibilità di essere liberi”, mostra collettiva recentemente esposta al Mambo di Bologna, interroga il
concetto di libertà prima che come condizione oggettiva, politica e sociale esterna all'individuo come possibilità del pensiero, lì dove nasce e si
manifesta la nostra facoltà d’essere liberi, in primo luogo dentro la mente di ciascuno di noi, lì dove vengono prese le decisioni o gestite le scelte che
in qualche modo sanciranno, limiteranno o condizioneranno, attraverso l'esercizio del libero arbitrio, la condizione esistenziale o la consapevolezza
individuale di ciascuno a prescindere dallo statuto politico o dalle limitazioni materiali e sociali vigenti.
Ugualmente, nel percorso espositivo, il concetto di libertà non è visto come paradigma statico appartenente a una realtà storica determinata, a un
ordinamento sociale dato, allo statuto di un individuo o al modo di funzionare d’una società quanto, in primo luogo, come processo mentale, qualcosa che
avviene e si esplica nella capacità di discernere, analizzare e prendere decisioni: quell’ insieme di scelte che compongono il tessuto stesso della nostra
esperienza nel pensiero e nell’azione quotidiana. L'atto d’una mente riflessiva e razionale oppure i momenti fulminei in cui improvvise intuizioni si
realizzano e consapevolezze immediate prendono forma, dunque posizionamenti netti, decisioni di un si o di un no, di un andare o fermarsi, di un aprire o
chiudere una porta, del prendere un sentiero o un altro, dello svoltare in una direzione o proseguire.
Il paradigma dell’essere liberi o dell’affermare una condizione democratica per un popolo appare come un percorso non lineare visto in una serie di
divenire, nel realizzarsi di piani successivi di consapevolezza, di soglie e di attraversamenti che conducono a implicite metamorfosi nel pensiero e al
superamento di limiti interni a una realtà o a una soggettività. Tali passi si percorrono nella “tensione verso”, nell’ipotesi o nell’aspirazione
libertaria di un individuo o un gruppo che lotta per avvicinarsi al proprio divenire umano, libertario e democratico. E’ prima di tutto un movimento e una
pratica del pensiero al quotidiano, un divenire consapevole, “libero da” , altro rispetto una serie di condizionamenti identitari, ideologici, o
strutturali che si pongono come sbarramenti impliciti all’io e barriere occludenti al nostro vivere sociale.
Perché la libertà, sembra suggerire la mostra bolognese attraverso i percorsi incrociati d’opere d’arte, installazioni d’oggetti e video documentari nel
doppio sguardo di scienza e arte, la si acquisisce per gradi, dialetticamente scrollandosi di dosso lo stato di assoggettamento, di interiore schiavitù, di
mancata presa di potere o riscatto, di mancata affermazione della propria coscienza individuale, politica e identitaria. La si acquisisce nel mentre dell’
“essere nel pensiero e non stare ancora pensando”, ogni volta nel ricominciare a pensare, nel porsi dall’inizio quella domanda, nello scontrarsi con quell'
interrogativo posti di fronte un mondo di limiti e di idealità, di scelte individuali, immanenti all'esserci e di barriere o muraglie, fisiche e
metaforiche, materiali o spirituali apparentemente insormontabili che solo un pensiero libero da forzature o condizionamenti può ancora permettersi di
affrontare. Tale esercizio quotidiano al pensiero travalica categorie storiche e gabbie ideologiche per immergersi nel flusso vitale dell’esistenza come
movimento del pensare dentro le forze di vita, dentro i corpi e contro le manipolazioni esterne, mediatiche e dei regimi politici vigenti. Condizionamenti
a tutti i livelli sono iscritti profondamente nella nostra mente, permeano quasi la struttura molecolare delle nostre cellule, del nostro DNA dalla nascita
e nelle memorie cellulari delle generazioni precedenti. Sono anche gli schemi, le gabbie sociali, gli abiti che ci vengono messi addosso in seguito a un’educazione, al funzionamento d’una società uniformandoci in ruoli e posizionamenti, simulacri, simulazioni e
maschere. Sono infine le conseguenze che subiamo d’uno scenario politico mondiale fatto di violenti conflitti e di forze che agiscono sulle nostre vite
indirettamente, qualche volta brutalmente senza che riusciamo a rendercene conto, non potendo ne prevederle ne controllarle . La libertà è prima di tutto
uno stato in divenire del pensiero, poi uno statuto d’essere, del dirsi o volersi nel mondo, anche e soprattutto quando essa è messa in discussione, in
pericolo o in stato d’allerta, anche e soprattutto contro le manipolazioni politiche, i lavaggi del cervello mediatici, le aggressioni o le irruzioni di
forze estremiste e violente, distruttive o incontrollabili. Spazi di libertà in ogni mentre e in ogni dove, nel mondo, sono quelli aperti dallo sguardo e
nel luogo dell’infanzia, del gioco o della creazione che poi diviene movimento dell’arte, dell’azione e della lotta politica.
Come afferma una delle canzoni che compongono l’archivio interattivo visibile e udibile d’una raccolta di 100 brani popolari provenienti da diversi
contesti nel lavoro di Susan Hiller “ Die Gedanken sind frei”: "Le idee sono libere, chi può prevenirle, esse sorvolano come ombre notturne,
nessuno può conoscerle, nessun cacciatore le colpirà. Sopravvivranno. Die gedanken sind frei. Penso quel che mi pare e tutto in silenzio è come
capita. Cose che desidero e voglio, esse sopravviveranno. E se qualcuno mi getterà in un’oscura prigione sarà semplicemente fatica sprecata perché i miei
pensieri spezzeranno le barriere e abbatteranno i muri. Voglio scrollarmi di dosso per sempre la paura e mai più lamentarmi per le inferiate. In cuor mio
posso ridere e scherzare e ripetere ancora: i pensieri sono liberi”.
Vanessa Beecroft
Schiere di modelle danno vita a performance fotografate come “tableaux vivants” dove i corpi assumono sembianze di statue classiche o di manichini
inanimati. In PV26 i corpi femminili vestiti identicamente di sole calze bianche, scarpe con i tacchi alti e biancheria accuratamente scelta appaiono nella
loro demoltiplicazione distribuiti sullo spazio performativo come figure inanimate, manichini di corpi perfettamente identici ma indeterminati, svuotati,
macchinici quasi nella loro anonima ripetizione attraverso lo spazio. Invisibili, trasparenti allo sguardo appaiono volutamente fotografati come simulacri
di loro stessi, figure plastiche rivestite da una sorta di patina chirurgica di rifacimento figurale nel loro apparire attraverso l’immagine. Il corpo e il
femminile sono là volutamente esposti, interrogati o posti di fronte “all’illusione della loro presunta libertà”: manipolazione voluta dei corpi, nella
loro reificazione e riduzione a stereotipi imposti dai modelli impliciti del codice sociale. Lo scatto fotografico inevitabilmente ironizza sulla tendenza
delle figure femminili a uniformarsi come oggetti dello sguardo in una serie di metaforici travestimenti, divise o vesti ufficiali, qui parodiate
attraverso l’uso delle sole calzature e intimo bianco.
Allo stesso modo in “One year performance” (1980-81) l’artista taiwanese Tehching Hsieh attraverso una serie di azioni auto-imposte nel corso di un anno_
timbrare un cartellino una volta all’ora per 360 giorni e registrare accuratamente la propria azione performativa_ approda a un concetto di libertà
paradossale raggiunto attraverso una forma di auto-coercizione. Solo esercitando quella disciplina assoluta sul proprio corpo e privandosi parzialmente di
alcune ore notturne di sonno perviene a portare a termine la propria pratica performativa. Tale azione minimale, insignificante, ripetuta all’ennesima
potenza e protratta con ostinazione nel corso di un periodo prestabilito giunge, tuttavia, ad alterare o stravolgere i ritmi normativi di un'esistenza ed è
per l’artista scelta consapevole all’interno di quello che lui percepisce come un esiguo spazio di libertà individuale. Diventa il suo modo di iscrivere e
riaffermare tale differenza, o spazio di creazione al quotidiano paradossalmente passando attraverso la coercizione e la disciplina di un’azione
auto-imposta. Il suo modo minimale di re-inventarsi l’arte giorno per giorno elude ciò che il mondo dell’arte si aspetta che egli faccia. Decide di creare
un oggetto e un’azione performativa a partire dall’irrisorio di un’azione ripetuta con automatismo ogni giorno come il timbrare un cartellino nella gabbia
del lavoro in fabbrica. Minuscola azione, il lasso di tempo di qualche secondo, e già si iscrive la sua scelta di dire no, di affermare sé stesso in
quell’esiguo margine di libertà: “Non voglio fare ciò che il mondo dell’arte si aspetta che io faccia, questa è la mia uscita, questa la mia libertà”.
“In ogni istante il nostro cervello sceglie tra una miriade di alternative possibili o virtuali” afferma uno dei brevi video che interpongono un punto di
vista scientifico al concetto di libertà illustrato dalle opere artistiche. Tra la miriade di stimoli cui siamo soggetti ad ogni momento sulla corteccia
celebrale e tra i lobi pre-frontali del nostro cervello abbiamo la possibilità di visionare simultaneamente strade diverse nella nostra mente, sospendere
giudizi, esitare, valutare vie possibili, immaginare o rappresentare eventi del futuro, rendere espliciti i nostri pensieri attraverso il linguaggio. Tutto
ciò avviene nello spazio esiguo di pochi istanti, nello spazio in cui una decisione viene presa, un’opzione scelta e un’altra scartata, tra una
sollecitazione e una risposta all’impulso, tra uno stimolo e una reazione, l’istante che passa anche tra uno sguardo gettato sulla realtà e lo scatto d’un
obbiettivo, tra il momento dell’osservare, dell’attesa al reale e il momento decisivo in cui la fotografia viene presa e l’immagine fissata su una
pellicola. In quell’istante, sembra dirci il video, esiste e resiste, agisce o reagisce contro l’apparente opposizione della realtà il nostro primo spazio
di scelta, di libertà e d’azione individuale.