Mercoledì, 26 aprile 2017
Una vena più malinconica, rispetto alle cinquantasei cozze di cui h o già parlato (v. QUI),
in queste poesie inedite del Corsi, che forse troveranno una
pubblicazione, forse non hanno ancora nemmeno una forma o un titolo
definitivi. Parlo di malinconia tanto per attaccare il discorso, ma la
questione come sappiamo non è mai così semplice, perché il Corsi non è
un uomo semplice e non figura nelle antologie del cuore o delle fragole.
Certo, c'è in fondo una consapevolezza del tutto anagrafica, del tempo
che passa, delle realizzazioni dell'io che si fanno sempre più diradate,
forse conseguenza dell'inevitabile "piombare nel compound mezza
età". Della componente narcisistica della poesia, in genere, non se ne è
parlato mai granché, ma esiste ed ha la sua rilevanza, semplicemente
perché in fondo non si parla che di se stessi, della propria esistenza
in vita. Bisogna vedere come, e con quale contorno. Qui ad esempio l'io
c'è ma non è detto che sia smaccatamente lirico, centripeto e centrale.
Anzi a volte assomiglia a un sasso gettato in uno stagno a smuovere un
po' le acque, a deformare e mettere un po' in burletta il volto che vi è
riflesso. Roberto ha abbastanza ironia e senso della misura per fare
questo, anche perché si sente (giustamente) forte di una cultura che
affiora ad ogni passo, che è fatta di musica e buone letture (e magari
di un po' di barely legal, why not?) e che gli serve per
setacciare da una parte e nobilitare dall'altra un senso della vita che è
consapevolmente edonistico (quasi come il "guardare la storia dentro un
agio") e insieme venato da un tragico ineludibile perché legato allo
scorrere del tempo. Per cui si capisce che a dire malinconia si fa
presto, ma va da sé che questo, ammesso che sia vero, non spiega poi
molto.
Mi pare che qui la domanda, in un certo qual modo,
sia "cos'è che abbiamo fatto fino ad adesso? che cosa siamo stati?",
qualcosa che i francesi. con una parola sublimemente dignitosa, chiamano
"regret", una cartesiana cogitazione su quel che avrebbe potuto. Questo
naturalmente vale per sé, ma vale anche per il mondo circostante, per
le cose come vanno (ma qualsiasi auspicio se ne tragga proviene, molto
più terra terra, da un "oracolo della pizza"), per i rapporti con le
persone, specie quelli sentimentali (dove Corsi a mio avviso dà il
meglio di sé), insomma anche per quelle cose su cui avremmo potuto agire
solo fino a un certo punto. Fino ad arrivare a un certo sentimento di
inutilità, di pestare l'acqua nel mortaio, forse anche per lo stesso
esercizio della scrittura. Che tuttavia Roberto cura amorevolmente,
soprattutto nel senso di una chiarezza di esposizione di quel che ha da
dire, addirittura programmatica se si preoccupa di annotare da una parte
"avrei dovuto scrivere più astratto e compiacente", dall'altra "a me
proprio non riesce". E va bene così. Del resto uno dei suo bersagli
preferiti è proprio la scrittura intesa come esercizio artigianale
professato come arte, in particolare con qualche riferimento velenoso al
mondo della poesia ("Un anziano poeta / Verseggia su facebù le sue
pulsioni / Dinanzi a una “poetessa puledra” "; od anche "E impazza
questa prassi emarginante / Di dar risalto all'anno in cui uno è nato /
Piuttosto che alla polpa dei suoi versi"), un mondo in cui anche Corsi
si muove, peraltro senza troppi patemi d'animo, ma con qualche
tentazione, come si diceva prima, di "chiudere con coraggio
l'esercizio". Ecco, su questo versante satirico/salace ci ritrovo il
Montale autoironico e un po' sprezzante, forse meglio sarcastico,
quello da Satura in poi per capirci: parlo di stile, ma non di
epigonismo, non è il caso; parlo di andamento a volte epigrammatico,
marzialesco, con in più (mi par di vederlo) quel tosco sorrisetto di
scherno che dalle nostre parti equivale a uno sputo in un occhio. Per le
altre cose, altri temi, certi eventi, certe baudelairiane passanti a
notte fonda in Borgognissanti, insomma in un occhio gettato a quello che
della vita non è dato arraffare, il riferimento potrebbe essere Philip
Larkin, quello di High windows (sì, c'è anche lui da qualche
parte, dichiarato ma è lo stesso, perché palese), senza la sua misoginia
e la sua proverbiale solitudine da piccolo bibliotecario. Ma qualsiasi
siano i temi (sempre comunque sottesi, a mio avviso, a quel senso del
tragico a cui alludevo prima) Roberto li affronta (o fa finta di
affrontarli) come nugae, con una scrittura spigliata e a suo modo "avida", vitale, ben costruita, pensosamente leggera, "lubrificata per il contatto con la sensibilità del lettore" (è questo il senso del titolo Grafite bianca, dicesi provvisorio). Forse non sempre "mite e ordinata"
come nelle sue intenzioni, ma certamente non scritta (ancora in riferimento
al titolo) con una matita bianca, "senza lasciare il segno". (g. cerrai)
Continua a leggere "Roberto R. Corsi - Inediti da Grafite bianca"
Sabato, 20 giugno 2015
Roberto R. Corsi - Cinquantaseicozze - Ed. Italic Pequod 2015
Queste cinquantasei di Corsi sono proprio loro, le cozze, il Mytilus galloprovincialis, il muscolo, il peocio, il mòsciolo. Il bivalve lamellibranco
che si attacca dove può e si adatta sostanzialmente all'ambiente,
campando nell'acqua che trova. Simbolo qui, più che metafora, di una
situazione adattativa di cui l'autore è il principale protagonista e
anche di una stagione, di una zuppa, di un brodo di coltura, di una
riviera. Tutti metaforici.
Questa raccolta
di Corsi è, se vogliamo, un libro sull'habitat e di come un uomo vi si
trovi e ne sia in qualche modo conformato, in parte conquistato, in
parte respinto. Certo non habitat in senso fisico, ecologico, o almeno
non solo. Si tratta forse soprattutto di una collocazione sociale, di
una medietas che
in altri contesti potremmo definire borghese, ma qui serve a poco altro
che a dare un'idea. Una collocazione neanche tanto drammatica, in cui
cioè la vita sembra scorrere con molti dubbi, qualche perplessità,
alcune insoddisfazioni, qualche conflitto esistenziale (e forse
esistenzialista: "il macigno del non vivere") fatto di domande di senso
rispetto a momenti che scivolano via come un sasso lanciato a pelo
d'acqua (il sasso però, ricordiamocelo, finita l'inerzia affonda).
La vita che scorre in questi versi è, come quella di tutti, ordinaria. Proprio perciò diremmo emblematica, come quella dell'Ulrich musiliano (come allude opportunamente Viola Amarelli su suo blog, citando L'uomo senza qualità - v. QUI), ma è una vita in qualche modo collaterale, di una collateralità
di cui Roberto è peraltro consapevole. Una vita che trascorre per lo
più in momenti di relativo edonismo, in cui c'è poco posto per altre
emergenze del vivere - torno
a dire - ordinario, non c'è ad esempio che qualche riferimento al
"resto" della vita come il lavoro o i legami veri e anche l'amore non è
qui connotato singolarmente, come cioè forza affettiva in qualche
maniera "universale", ma come pluralità di trascorsi con troppe
soluzioni di continuità, troppi vuoti in cui il rammarico galleggia. In
questi testi, distesi in una versificazione lunga e a volte lunghissima
(che però basterebbe un qualsiasi enjambement per riportarla ad un
"ordine" novecentesco) con affioramenti di metri "classici" e con
l'ausilio di un linguaggio a volte colto, a volte ironico,
spesso basso/colloquiale legato in un impasto che a tratti mi ricorda
Gadda, con qualche accumulazione in brillanti barocchetti, in questi
testi - dicevo - c'è spesso il mare versiliese,
c'è la spiaggia e la sua fauna, c'è un'aria estiva ripercorsa anche con
ricordi di infanzia, c'è un paesaggio urbano di struscio, c'è il
calcio, c'è il cibo, ci sono insomma tutta una serie di fondali (intesi
sia in senso scenico che marino) su cui scorre la soggettiva (sì, in
senso cinematografico) del soggetto Corsi. Cosa avviene in questi
scenari? Ciò che appunto "accade", secondo l'etimo del termine, l'
"incidente" la cui occasionalità
è poi oggetto e materia di riflessione. E' una realtà visibile e
tangibile quella che cozza (appunto) e rimbalza sul soggetto. Niente di
metafisico né trascendentale e questo, per un verso, è cosa buona e
giusta. Una realtà che Corsi vive con molto spleen e non troppo idéal,
potremmo dire se volessimo accentuare l'idea di questo libro come
pessimista e un'altra idea, abbastanza involuta, del suo autore come
colto flaneur equamente diviso tra Firenze e le spiagge versiliesi. Non è proprio così, ovviamente. Se forse la preoccupazione principale del Corsi poeta è governare il caos piccolo, quello che in fondo è a portata di mano, quei momenti di incoerenza tra il fenomeno e lo spettatore poetante, e se a tratti affiorano una passività di fondo molto ben regolata/temperata da non poca autoironia e da un qualche spritz
di divertente narcisismo, e l'edonismo di cui si diceva un po'
preoccupato ma autocosciente, tuttavia Roberto non si accontenta (e
nemmeno noi dovremmo) di una superficie. La percussione di questo tipo
di realtà crea un rimbombo grave e pensoso che quasi sempre nel finale del testo precipita e deflagra in schegge di dubbio (di una esistenziale irrilevanza,
ad esempio, più volte evocata), per poi
spegnersi. Corsi analizza questa sorda eco, cerca bravamente di
capirne il significato, di capire come stare dentro - adattandovisi
- a questa realtà che certo in gran parte si è costruita, che forse ha
scelto e che non ostante questo è piena di ombre agitate. Cerca insomma
di comprendere (e ha ragione ancora V. Amarelli quando parla di "sostanza essenzialmente tragica" del libro) che cosa non ha funzionato,
tra la vita e lui, lui personalmente, senza la presunzione di parlare a
nome di una generazione di mezzo con problematiche troppo eterogenee e
diverse e men che mai di farne una poesia "civile", anche se non manca
qualche aggancio alla storia politica e sociale del nostro paese. Corsi,
anche per questo, per la assoluta centralità del soggetto, per certi
versi "cantati", per una scrittura abile e icastica spesso musicale, in
fondo è proprio un lirico, per quanto un lirico (e Roberto capirà
l'ironia) sicuramente di tipo irregolare. (g.c.)
Continua a leggere "Roberto R. Corsi - Cinquantaseicozze"
|