Robert Creeley (1926-2005) è il principale esponente della Black Mountain School (con Charles Olson, Denise Levertov, Robert Duncan) e il rinnovatore della poesia modernista americana e dell'oggettivismo imagista alla W.C. Williams.
Later
appartiene appunto al Creeley che fa i conti con il proprio postmodernismo nei termini di una poesia dì diario e travelogue che dice al poeta che le difficoltà stanno nella necessità di definire un rapporto soddisfacente tra un tono base (legato anche al bisogno di consuntivo) e le variazioni libere (legate al movimento perenne e produttivo del prima modernista). Siamo sull'orlo del silenzio o della totale negazione; i temi sono quelli, di marca romantica, dell'identità, della soggettività, dell'estraniamento, della morte. L'identità è un movimento, una struttura instabile di punti di fuga, incontri, viste e assenze. Il neutro onnipresente « it » contrassegna « the place », la posizione dove l'ego, « the self », dovrebbe essere, o di solito era, ma non è: è il centro vuoto, l'intermittente punto di riferimento negativo che interessa sia speaker che reader, ambedue « spettatori » (in The Place) del riconoscimento, presente in tutte le poesie, che ciò che l'io può immaginare sia l'atto immediato, adamico, del nominare è in realtà mediato dalla memoria: i nomi predatano lo speaker, eglinon ne è più l'origine. Direi che l'accento cade, proprio come indovina Spicer nell'Orfeo negato di Homage to Creeley, sull'ambiguo post (later)
che, sia nel caso di post-modernismo che di post-orfismo, unisce l'indicazione che si è superato un determinato credo all'indicazione che forse si sta ancora vivendo sul capitale di quel credo. Così le provocatorie, nella loro brevità, poesie di luce (Morning, Night Time)
o la blakiana Heaven o l'organizzazione stessa degli interessi estetici e insieme esistenziali sulla spola di quei grafemi chiave, « here » e « there », non più poli mutuamente esclusivi in una dialettica presenza e assenza, ma ambedue fusi in un unico presente, il solo congetturabile e insieme tale che, come l'io, rifiuta di definirsi e consistere in un unico posto (vedi sempre Prayer to Hermes). Queste sono cose da riferirsi a quella che Blanchot ha ben descritto come « écriture du désastre », scrittura di frammento più che di aforisma, che dichiara la propria intenzione di rimanere fragile e ambigua, e in certo senso stoica: « L'écriture fragmentaire serait le risque mème ». (francesco binni)