Giovedì, 1 agosto 2013
Giovanni Fontana - Questioni di scarti - Edizioni Polìmata, 2012
Cos'è uno scarto? E', in questo libro di Giovanni Fontana, il
protagonista principale, l'obbiettivo di una invettiva, un ragionamento
politico, una visione del baratro, l'esplorazione di un territorio
artificiale, un guardarsi allo specchio. Lo scarto siamo noi, senza
dubbio, noi ne siamo gli artefici, poiché senza di noi il rifiuto, la
scoria non avrebbero ragione di esistere. A noi è ascrivibile questo
gigantesco ready made, così difficile da trattare artisticamente se non come citazione o simbolo o trasfigurazione (basti pensare, a titolo di esempio, a tutto il lavoro concettuale intorno alla cosiddetta "arte povera", o all'arte in sé
implicita in una "merda d'artista" di Manzoni). La scoria, di cui siamo
produttori e vittime, come elemento costitutivo (ma in molta produzione
letteraria solo collaterale, scenografico) di una attuale poetica della crisi.
Il lavoro di Fontana, arduo, impegnativo e coinvolgente, va oltre. Per quanto le
scorie siano ormai metafora del mondo contemporaneo, questo è un libro
antimetaforico. E' proprio l'accumulazione ipertrofica degli scarti che
non permette più la metafora, per la semplice ragione che il singolo
scarto - nella massa enorme e indifferenziata (appunto) dei rifiuti -
non è più identificabile. In altre parole non è più metonimia, ha perso
la sua relazione identitaria di oggetto, perfino, direi, la sua responsabilità, o se preferite la sua rappresentatività. E insieme è andata annullandosi la distanza tra
oggetto e produttore/fruitore. Lo scarto si è incistato, è la trave che
abita perennemente nel nostro occhio. Fontana non ne indica il simbolo,
non ha necessità di farne qualcosa di esemplare perché lo scarto è
pervasivo, anzi è globale, non separabile da un concetto di eccesso legato alla surmodernità (M. Augé): anche lo scarto è un non luogo, in fondo.
Per quanto la parola abbia i suoi limiti oggettivi, specialmente per un
poliartista con una biografia ricca come quella di Fontana (per brevità
v. QUI),
sono proprio le due sezioni scritte (o parlate, se preferite - un dialogo, o un'operetta morale) le più
efficaci, anche se è da segnalare che ce n'è una terza, centrale e
sostanziosa, composta da 40 composizioni grafiche, dal titolo
"Polluzioni". In queste due sezioni "lineari" il linguaggio
effettivamente "emerge come da una faglia", come avverte la quarta di
copertina, "e si sparpaglia lungo i traversi crinali dello scarto".
L'effetto è garantito ed è soprattutto raggiunto l'obbiettivo, che certo
era prefisso, di smascherare la progressiva perdita di significato, lo
spossessamento del linguaggio stesso, specialmente dove applicato alla
verbosità inconcludente, scientifica o politica che sia (un esempio per
tutti, il protocollo di Kyoto, qui citato). L'affastellamento di parole,
forse le stesse che sono state spese inutilmente per parlare del
problema, il loro affollamento, l'accumulazione e la reiterazioni di
sintagmi, le associazioni di idee e suoni, le mascherate citazioni
colte, i riferimenti all'attualità politica, sono l'elemento più vistoso
di questo libro. Qui il linguaggio riprende il posto che gli compete,
dimostrandosi più efficace, in termini di icasticità, di molta poesia
visiva perché si pone esso stesso in discussione. Da questo punto di
vista il libro è espressamente antiretorico, non vi è nessuno
spostamento strumentale del linguaggio sul versante emozionale o
affettivo, l'espressione è asciutta quanto può esserlo la scheggia di
una mina, secca quanto il tratto delle composizioni grafiche della
sezione "Polluzioni", o uno schiaffo al lettore. C'è inoltre almeno
un'altra considerazione da fare. Diversamente da altre scritture
definibili genericamente "di ricerca", in cui ad esempio un blocco
testuale "d'uso" viene spostato in un diverso contesto e reso "arte", e
in un certo senso falsificato (si legga, un esempio tra altri, "da 1000 m" di Alessandro De Francesco, QUI), in questo libro la scrittura non si allontana mai dal tema, lo tallona da vicino, è il
tema, non deve significare altro da esso, è scarto significante dello
scarto. Se anche non mancano brani in cui si adotta (o si mima) un
andamento saggistico, essi tuttavia sono appunto imitazione e insieme
simbolo di uno scoglio razionale a cui è difficile aggrapparsi, perché viene immediatamente irriso, sommerso dal magma. Si può dire, se mi si
perdona l'azzardo, che qui la poetica dell'oggetto, da Montale - almeno
- a Anceschi, raggiunge il suo olocausto, insieme all'oggetto stesso
(ora scarto) e al suo parente prossimo, il correlativo oggettivo (come
infatti è possibile stabilire una catena emozionale con lo scarto che
non sia altro che un unico e solo e drammatico horror pleni?).
C'è, a mio avviso, una tensione (e forse una domanda ultima) qui
sottesa: ha una possibilità il linguaggio di poter descrivere l'accumulo
di detriti senza diventare esso stesso scoria, senza dismettere la sua
linearità, il suo ordine, la sua forma (anche come oggetto)? Difficile
rispondere, tuttavia a me sembra che qui ci sia una chiara clausola di
salvaguardia, nel senso che per Fontana resta imprescindibile la
necessità etica di mantenere, finanche nel singolo lacerto della
proliferazione verbale, un alto livello di comunicazione. E' questa,
secondo me, una delle ragioni principali per cui questo è un libro politico, aggettivo che stimo assai più dell'abusato "civile".
Giacché Fontana ci avverte che sta parlando di noi e neanche troppo
alla lontana; che la dimensione dello scarto non è altra da noi; che la
distanza a cui accennavo prima è sempre più corta e sempre meno ci
separa dal rischio che anche la nostra sia una delle "vite di scarto" di
cui parla nel suo omonimo saggio del 2005 Szygmunt Bauman (qui per
l'appunto evocato e criticato insieme), secondo una logica che, sia
detto incidentalmente, la crisi accelera e che prevede una progressiva
limitazione dei diritti, delle libertà civili, del welfare e una
parallela maggiore smaltibilità dell'individuo non più
sfruttabile convenientemente. L'autore ci ammonisce, con questo
prolungato inesausto grido, a vigilare e a prendere coscienza con uno
sguardo certo più acuto e critico, aggiungerei, di quello di Marco Polo di fronte
alle montagne di rifiuti della città di Leonia ne "Le città invisibili"
di Italo Calvino ("un viaggiatore, uno straniero scettico, un estraneo
non coinvolto, un perplesso nuovo arrivato") che Bauman (ancora lui) cita nel suo scritto "Wasteful planet" (v. QUI). L'allarme di
Fontana è evidente. E non è un caso che il libro inizi da quei luoghi
del mondo in cui, "da cumuli fumiganti. Sistematiche invarianti del
paesaggio", si agita un'umanità di scarti simbionte di rifiuti. Luoghi di cui è inutile illudersi che siano esotici e lontani. (g.c.)
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