Quando si smette di usare internet come un giornale nella sala d'attesa di un dentista e si comincia a parlare con le persone, in un'altra metaforica sala d'attesa, molto più problematica, allora si fanno incontri. Che questi incontri siano essenzialmente diacronici, cioè al di fuori dello scandire del tempo, e che avvengano in un "altrove", cioè non in questa stanza, ha una importanza relativa, perchè i dialoganti sono e rimangono persone vere.
Una di queste persone vere è Fabrizio Centofanti, poeta e sacerdote (o sacerdote e poeta ma il risultato non cambia), a cui ho chiesto di pubblicare qui qualche suo testo.
Mi sono domandato se il fatto che Fabrizio sia un sacerdote ha qualche rilevanza, da un punto di vista poetico. Forse ne ha, almeno come dato esperienziale. E forse ne ha come problema di "conciliabilità", o se vogliamo di indagine (il suo blog si chiama "La poesia e lo spirito") sulle capacità di linguaggi diversi, che pure gli appartengono, di guadagnare una dimensione spirituale, parlando della condizione del mondo con tutta la verità di cui un poeta è capace, e di giungervi per un'altra strada. Tornerò su questo punto.
Fabrizio è poeta fine. Non gli servono particolari artifici, tranne quello della voce. Non cerca vie di fuga stilistiche, e le emergenze metriche o rimiche sono semmai affioramenti di una cultura sedimentata e controllata (inutile qui fare il gioco delle parentele, si potrebbe parlare di Luzi, non solo per l'uso di certe parole, o Raboni, per l'uso di certi registri minori, ma che importa). Traspare un lavoro attento sul verso che sembra anche di sottrazione, di ricerca di leggibilità, di una leggerezza sintattica e semantica (e qui semmai viene in mente Calvino, che sappiamo essere oggetto della sua tesi di laurea). Il suo lessico è relativamente semplice, per certi versi anti espressionista. Un poeta che si discosta e osserva, anche sè stesso, e se un io c'è, si è appartato modestamente, come in un confessionale, e tende eventualmente o a farsi oggettivo o a diventare un noi partecipativo, condiviso e, quindi, pietoso. Da questo punto vista è difficile qui parlare di lirismo, il dato oggettivo (“il giorno si spalanca sul presagio / di una tempesta”) quando c'è assume subito un valore metaforico, diventa aggancio di una meditazione esistenziale. Il discorso potrebbe continuare, potremmo ad esempio parlare dei curiosi echi che rimbalzano da un testo ad un altro, come se l'idea avesse bisogno di più spazio di quanto il testo consenta: il nulla di "étaire" e di "sono qui, disse", che forse è anche il vuoto di "ordinazione"; la lingua di "saudade", di "universopoesia"; il volo di "étaire" e di "icaro"; le agende scadute e gli indirizzi inutili di "saudade" e di "universopoesia"; il Dio (e l'occhio del triangolo. magari) di "étaire" e di "ordinazione". Questi echi hanno un senso, non sono ripetizioni di vocaboli cari al poeta, ma esprimono una forte valenza concettuale. Insomma hanno un senso se infine andiamo a cercare di capire quello che Fabrizio ha da dirci, riguardo alla sua meditazione sul mondo e gli uomini. Qui torna il discorso linguistico (e metalinguistico) a cui accennavo all'inizio. Il richiamo più intenso della poesia di Fabrizio, a mio avviso, è alla difficoltà, tutta novecentesca, di capire l'esistenza e il mondo, di interpretarli, di comunicare quello che abbiamo intuito e di domandare quello che anche tragicamente ci assilla. Del mondo e della vita si cercano i segni, le mappe. Si cerca di vedere o di intravedere. Ma il veggente è un naufrago, che a volte sembra cercare i suoi gorghi. Certo, ci sono presagi, c'è la "carta topografica del cielo", ci sono "carte infisse nel portone" come ordinanze decise altrove, ma servono a capire? Rimane il dubbio che cresce, la luce è inaccessibile, il "vivere inespresso" si concretizza in parole scritte nella polvere, nemmeno i morti ci parlano, mentre il timore si fa vicino, "le bombe fischiano in cantina", che non è solo sotto di noi, è anche dentro di noi. Anche altri segnacoli eludono la comprensione: agende scadute, strani appuntamenti (a cui presumibilmente non si presenta nessuno), indirizzi inutili. Anche la natura sembra esprimersi in "monologhi infelici"; anche il corpo, custode dell'identità, sembra a volte tacere, "chiuso dentro il sogno", altre volte il corpo e il sogno, insieme, si ritrovano in precarie "stanze segrete", ma nel tempo sospeso e casuale di "strani pomeriggi". Tuttavia la rilevazione della inadeguatezza di questo sistema di segni e di evidenze a interpretare il mondo e a renderlo in qualche modo comprensibile, non soddisfa Fabrizio, che infine, drammaticamente, si chiede dov'è il linguaggio, il dono di Dio all'uomo della parola, il potere di possedere le cose nominandole. Qui "si confondono le lingue", qui "la lingua è morta e l'ultima parola / ha il gusto amaro delle cose perse", qui "di tutto questo vivere inespresso / resta una lettera scritta con la polvere". Allora se la lingua è morta decade la possibilità di dare una logica alle cose, almeno con questi strumenti che abbiamo a disposizione, con il linguaggio profano o mondano. Qui mi sembra si riconosca, da un certo punto di vista, l'impotenza della poesia a farsi interprete di una visione trascendente dell'uomo e del mondo e nel contempo la necessità della poesia. Il mondo non è "mundus", cioè non è ordinato. Il linguaggio della poesia lo descrive e lo legge, fin dove sia possibile, riconoscendo tuttavia implicitamente che il mondo ha un limite di leggibilità, oltre il quale deve subentrare il sacro, o
la metafisica. E' pertanto difficile dimenticare (e qui torniamo al discorso iniziale) che Centofanti è “anche” un sacerdote: ovvero un mediatore del sacro, anello di congiunzione mondo-Dio, un uomo nella condizione insieme fortunata e lacerante di comprendere "il paradosso che esista un Dio / nonostante lo svanire", ma forse di non poter "ordinare" appieno questa comprensione con
la poesia. Ma la poesia (cogliamo qui una metafora da un fatto forse contingente) è un angelo con l'ala macchiata di sangue o di vernice. In altre parole uno spirito combattente e pietoso che si contamina col mondo e in qualche modo lo incarna, rendendolo sostenibile. Una storia antica che Fabrizio conosce bene.