Lunedì, 8 giugno 2015
Fosca Massucco - Per distratta sottrazione - Raffaelli editore 2015
Avevo già avuto modo di parlare della poesia di Fosca Massucco in
occasione dell'uscita nel 2013 del suo "L'occhio e il mirino" (v. QUI).
In quella circostanza mi pareva di aver individuato, tra le altre cose,
soprattutto l'attenzione di Fosca per una poetica del "piccolo", un
piccolo risonante, fatto di oggetti, elementi ambientali, emergenze
della natura, che l'autrice andava ricercando e annotando, "oggetti -
dicevo - che devono essere (in sé e quasi ideologicamente)
portatori di un senso", una ricerca, aggiungevo, che "sembra tesa alla
creazione di un microcosmo il più possibile felice (o, forse meglio,
moderatamente infelice) e forse alieno all'esterno, in cui il sentimento
predominante sembra essere la malinconia o una "serena" inquietudine",
la ricerca insomma "di una agnizione, di una epifania". Questo in
estrema sintesi, naturalmente senza dimenticare la qualità della
scrittura che in tutto ciò si esprimeva.
Pur tenendo presenti alcune delle osservazioni che facevo in quella
occasione, mi pare che questa ultima raccolta di Massucco abbia in un
certo senso fatto un passo ulteriore. Intanto, rispetto a "L'occhio e il
mirino", c'è un complessivo ritrarsi dell'io esplicito, cioè quello
espresso verbalmente dalla prima persona, a favore, si direbbe, di una
considerazione più universale del circostante e una lettura più
"plurale" dei segnali che da esso emanano. Se questo a mio avviso è -
appunto - un passo avanti, tuttavia va detto che questa differenza è
sotto alcuni aspetti solo apparente. Il soggetto è forse più presente di
prima, solo che è andato più in profondità, si è rivolto maggiormente a
una relazione più intima ma meno "privata" tra l'autore e le cose
(continuiamo per comodità ad usare questo termine altrimenti
discutibile) e meno a personali conflitti. Quello che conta qui, mi
sembra, è il tipo e la qualità del rapporto tra soggetto e cose, stante
che un soggetto (un "io" che magari per vie traverse continua ad
operare all'interno del testo anche senza apparire) alla fine c'è
sempre (v. a questo proposito P. Zublena QUI).
Conta cioè se e quanto questo cambio del punto prospettico, questo
aggiustamento del "mirino", è funzionale (e lo è) e contribuisce
all'autorevolezza del testo poetico, alla sua capacità eidetica, cioè di
rendere l'intuizione dell'autore in una visione poetica.
E le cose, le cose sono fittissime in questo libro, nominate
accuratamente con una acribia e una competenza che vuole segnare un
territorio, che vuole rigettare il generico. Proprio quelle "cose" che
molta poesia lascia problematicamente indifferenziate (v. D. Castiglione
QUI),
qui sono emergenze della realtà (soprattutto le piante: fieno greco,
erba sparta, calicanto, elianti; ma anche altre "cose": favonio [di
montaliana memoria], gelosie, porporina. mercedonio, avvezione) che
colpiscono il lettore anche per la loro musicale concretezza. come suoni
desueti. I nomi delle cose segnano il territorio, come dicevo, e certo
anche un paesaggio, non solo interiore, in cui si posizionano e proprio
con la loro concretezza sembrano offrire un appiglio sicuro
all'osservatore e al poeta. Ma certo in questo libro hanno una funzione
meno consolatoria, costituiscono meno una specie di certificazione di
esistenza in vita di una realtà a cui, insieme ad esse, anche l'autore
appartiene (ed è questo sostanzialmente il loro "sollievo"). Ma sembra
infine che Fosca, pur non rinunciando alla loro fascinazione, creda meno
al potere risolutivo di dare "un nome alle cose, / inquadrate,
schedate, aspettando la voce / – oh, bontà loro! – in cui la
verità si disvela". Si insinua come una diffidenza, un certo dubbio
quando aggiunge, nello stesso testo: "Se dietro gli occhi passa
un’immagine / capovolta – e afferro solo contorni, / sagome di putti e
trionfi, / è inutile, perfetta epifania / quel che solo posso
dire" (tutti i corsivi sono dell'autrice). In altre parole, mi sembra
dica Massucco, c'è qualcosa di incerto - forse perfetto ma inutile a
dare un senso vero alle cose - nella nostra capacità di intuire,
joycianamente, il loro riflesso nella nostra coscienza. A pensarci bene
un'idea non dissimile da quella espressa da Montale in "Forse un
mattino andando": "Forse un mattino andando in un'aria di vetro, / arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore di ubriaco" (ma v. meglio QUI), credo uno dei pochi momenti montaliani di "dubbio" nei confronti dell'occasione epifanica, probabilmente su suggestione di Merleau-Ponty.
Ecco
allora che tra le cose (o dietro il loro aspetto "naturale") si insinua
il vuoto, un topos espresso nella raccolta almeno una decina di volte, e
questo è l'altro elemento che sembra aggiungersi, rispetto al
precedente libro, alla poetica complessiva di Fosca. Un
vuoto però non del tutto privo di senso, ancora "concreto" in qualche
aspetto, un vuoto in cui tuttavia, a scapito delle logiche aspettative,
qualcosa continua a vibrare. Non sono infrequenti infatti le metafore
che Fosca pesca nella sua cultura musicale e professionale (è
specializzata in Fisica acustica e tecnica del suono), potremmo anzi
dire che la "vibrazione" (della parola, del ritmo, dei "vuoti") è una
caratteristica del suo stile, forse anche più di quanto lo fosse nella
silloge precedente. Emblematica da non pochi punti di vista è la poesia
che dà il titolo alla raccolta:
Immersa in una tonale di gioia, io trionfo
incessante negli anditi riverberanti dell’anima
come un crine ebbro di pece sulla corda.
Il dolore è silenzio del tono puro
per distratta sottrazione.
che, con tutti i suoi riferimenti semantici (tutti afferenti alla
musica) che appunto si riverberano gli uni con gli altri, è un'unica
compatta metafora concettuale. Contraddistinta dall'opposizione tra la
terzina e il distico, parla di gioia e dolore entrambi visti come
vibrazione che attraversa il corpo, la prima come una tonalità a cui
l'anima fa da cassa di risonanza (e il crine è quello dell'archetto), il
secondo invece è un silenzio, la totale mancanza perfino di un suono
"perfetto" (per semplificare), un vuoto dolorosamente totale (ed ecco
che si torna a quello che "c'è dietro" alle cose) di cui avere orrore.
Ma come sappiamo anche i silenzi in musica sono significativi, a loro
modo vibrano. Ciò che aggiunge interesse è alla fine cercare di capire
cos'è la "distratta sottrazione" chiamata in causa. Se l'occhio e il
mirino servivano a focalizzare un'attenzione verso il reale in fondo
confidente e positiva, qui c'è un divergere, una distrazione da una
realtà vista più scetticamente. Ma è come se Fosca ponesse un confine
invalicabile, e certo una responsabilità che investe il poeta: c'è un
limite nella sottrazione - che forse per quanto distratta può essere
anche intesa come un "levare" o meglio un "togliere", come la ripulitura
della vibrazione dal noise, dal rumore di fondo - altrimenti
la vibrazione stessa, intesa come emozione, sensibilità, partecipazione
alla vita diventa dolore "bianco", immoto, privo di armoniche,
insensato. E perciò impoetico. Bisogna comunque starci "dentro", avverte
l'autrice (D’improvviso domandavi: “Com’è il vuoto / visto da
dentro?”).
E' questa la ragione per cui le cose, nella poesia di Massucco, devono
continuare ad emettere la loro radiazione, la loro onda sinuosa, pur
lasciando intravedere, nei loro interstizi, quel vuoto inquietante
"dentro". Fosca si mantiene ("levigata dalla vita, mai vinta")
saldamente al di qua del limite, in "una prospettiva del verso che non è
cupezza", come sottolinea Elio Grasso nella prefazione, e che
certamente non è lamento o cordoglio né rovesciamento. E se certo anche
questo ultimo libro di Fosca rientra a buon titolo in un filone
lirico-elegiaco persistente nella poesia italiana attuale, sono
d'accordo con Grasso che esso sia "miracolosamente fuori tempo", o che
forse lo sia volutamente. (g.c.)
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