Il 15 novembre la terza commissione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione per la moratoria delle esecuzioni capitali. I Paesi che hanno votato a favore sono stati 99; 52 i contrari (in una sorta di alleanza tra esportatori di democrazia e dispregiatori di diritti civili); 33 gli astenuti. Respinti anche i tentativi, patrocinati da Stati Uniti e Vaticano, di stabilire un pretestuoso collegamento tra aborto e esecuzioni in nome del diritto alla vita. E' stata l'Italia a promuovere questa importante iniziativa e a sostenerla con un acceso dibattito. Mentre tutte le nazioni si accingono allegramente e senza rimorsi ad andare in Cina a disputare le Olimpiadi tra smog feroce, fucilazioni alla schiena e sfruttamento del lavoro e delle popolazioni, prendo spunto da questa notizia per ricordare (con qualche orgoglio) che è proprio qui dalle mie parti, in Toscana, che è stata abolita per la prima volta la pena di morte, con editto del Granduca Pietro Leopoldo (diventato poi Leopoldo II Imperatore del Sacro Romano Impero e Re d'Italia), promulgato in Pisa il 30 novembre del 1786. In esso, pur con tutte le venature paternalistiche e autocratiche che è possibile rinvenire nel testo, si accoglievano le tesi principali del celebre "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria, a poco più di un ventennio dalla sua pubblicazione, a cominciare da quelle della prevenzione del delitto, della certezza della pena piuttosto che della sua severità, e del recupero del reo. Concetti che nella crisi cronica della giustizia italiana a cui la classe politica non riesce a porre rimedio appaiono stupefacenti e su cui sarebbe bene riflettere invece di cianciare su tolleranza zero, emergenza sicurezza e così via. Se è vero però che mentre con infinite difficoltà e molto lentamente si potrà forse andare verso una vera moratoria, largamente condivisa, della pena di morte, si va anche contemporaneamente e molto velocemente verso un aumento della violenza di carattere individuale. Non è solo un fatto di cronaca, una questione di episodi che emergono quotidianamente e a sensazione sui giornali, di notizie gonfiate. Mentre gli stati stentano e il business delle armi prospera, la morte sta diventando un effetto collaterale della crisi della responsabilità individuale, della perdita di coscienza del valore della vita di uomini, donne e bambini o, peggio, del senso del bene e del male. La morte si spettacolarizza, va sui videofonini, si virtualizza e insieme diventa il climax troppo reale di un eccesso o disagio del vivere o della mancanza della vita vera. La morte si consuma. In altre parole, parafrasando Hannah Arendt, la morte diventa banale.