Daniele Poletti - Ottativo - Edizioni Prufrock spa, 2016
L'ottativo è il tempo del desiderio, della possibilità, un antenato di
quel congiuntivo che ne mantiene ancora qualche tratto somatico. Forse
c''è un nesso tra questa mia breve annotazione e il titolo di questo
libro. O forse sono già stato depistato, complici le note editoriali.
Cos'è che eventualmente muove il desiderio o l'arte del possibile in un
libro come questo? Domande difficili da metter sotto sequestro,
recintare, soprattutto leggendo un'opera in cui la suggestione (meglio
ancora, il "suggerimento"), come energia messa a disposizione del
lettore, è motore principale, alimentato da parole che assomigliano a
schiavi liberati dalle catene.
Il libro ha una sua struttura rigida che contrasta con la fluidità del
materiale (v. più avanti): circa sette sezioni - la maggior parte delle
quali composte da tre testi "doppi" (cosa che poi vedremo) segnati con
numeri romani e a volte qualche titolo aggiuntivo - intervallate da
testi dalla connotazione prosastica, identificati da lettere progressive
(A, B, C,...) e titolati tutti "deprivazione del sonno". Da questo
punto di vista è un'opera organica, o per lo meno c'è una evidente
volontà di dotarla di organicità, di una struttura che riconduca ad un
tutto ogni singolo testo e a cui ogni testo si appoggi. In sostanza un
poema, un genere o una forma che hanno ritrovato il loro habitat
naturale proprio nella poesia di ricerca, fornendole una veste
concettuale.
Poema su che cosa? Domanda mal posta e fuorviante, in un'opera di
questo genere. Nella quale l'evidenza (proprio nel senso di prova
provata) è quella di un percorso, anzi di una penetrazione, anche
aggressiva, un tentativo di attraversamento di un corpo durissimo da
perforare, quello che è già arduo definire come "realtà" (quale? di
chi?). Il desiderio e la possibilità accarezzati sono quelli di un
accostamento, un accostamento di conoscenza a questa realtà/verità in
maniera paritaria, con l'unico strumento possibile, rebus sic stantibus,
cioè il linguaggio, uno strumento che però è in parte spuntato, almeno
da quando parole e cose hanno preso strade diverse, e il significante ha
assunto un ruolo iconico. E con la complicazione non indifferente che
qui non sembra entrare in gioco almeno l'altro grande strumento che
potrebbe supplire a questo iato, l'immaginazione, sostituita semmai da
un impianto allegorico piuttosto rarefatto, poichè distanziato, lontano,
dietro la durezza delle parole. Del resto, allegoria di che? Il mondo
ha qualche ragione di essere allegoria? O di comunicare qualcosa
attraverso di essa? Sotto questo aspetto a Daniele, come ha detto
altrove, non interessa la comprensione del dettato, ciò che lo intriga è semmai la dimostrazione (perseguita, mai raggiunta) che tutto è dicibile, è toccabile con
la parola, per trarne un senso anche inaspettato, o pitico. Ovviamente
una parte di questo senso sfugge, ma solo perché esso è consegnato alla
individualità del lettore (e so che una delle aspirazioni di Daniele è
comporre un'opera "aperta").
Ci sono in questi versi molte cose concrete, oggetti che popolano la
mente o il sogno (?), e molte parole/oggetto. Ma la realtà è un
materiale composito, un calcestruzzo però privo di solidità. In questo
senso non è reale perché non dispone di sé, non ha la
responsabilità di avere una struttura "fissa" che risponda a una qualche
mente razionale, di garantire sé stessa, di essere - in termini di
sociologia - una "costruzione sociale". La realtà - comunque la si
definisca - è (specie in un'opera di poesia) semplicemente un divenire,
sia nella realtà medesima sia nella mente di chi la "costruisce"
(l'autore). Mantiene, sempre, un alto grado di riscrivibilità. In questo senso, forse, c'è qualcosa di optativo, un margine di devianza o di possibilità, un
pertugio che serve a scardinare la superficie, infilandoci un qualche
grimaldello al fine di scoperchiarla, di ficcarci dentro uno sguardo
speculatore e conoscitivo. Sguardo a volte troppo vicino, microscopico, o
forse giustamente vicino, come quelle dilatazioni di frattali
che dimostrano nel piccolo un universo complesso, sguardo a volte di una
acribia perturbante, a volte rivolto ad un interno profondo, molto
corporeo, come di chi sta ad occhi serrati immaginando non il proprio
ombelico ma le proprie viscere.
In questa "ideologia" che mi pare di intravedere, c'è forse il senso di
altre caratteristiche di questo libro. Dove, ad esempio, le
"ripetizioni" dei brani sono in realtà espansioni o interpretazioni di
qualcosa che si omette, si fa finta di omettere, o si dimentica. Infatti
quasi tutti i testi sono "doppi", ma nel senso, appunto, che il secondo
lievita il primo, lo destruttura e lo ricompone, in uno sviluppo che è
anche (e forse inevitabilmente) una mutazione o anche una catastrophé, e
insieme uno scolio, una glossa, si vedano quegli apici che paiono
annotare (chiarire?) certe parti delle seconde "versioni" (e già con
questo termine siamo in un territorio instabile, poiché non c'è nessuna
certezza che versioni poi in effetti siano). C'è da aggiungere che il
primo testo viene definito dall'autore "archetipo", e questo è
interessante, per i molteplici rimandi alla psicologia, alla filologia,
alla critica del testo, e per l'evidenza dell'artificio di cui dicevo
prima, cioè di un secondo testo in cui porzioni del primo sono
"ricostruite" (parole dell'autore). Si potrebbe d'altro canto avere
l'impressione di una situazione simile (ma contraria) a quando si vuole
ricostruire al mattino un sogno avuto nella notte. Qualcosa manca,
qualcosa si aggiunge, altro viene reinventato. Il riferimento al sogno
non è casuale, in questa mia personale interpretazione, se si guarda
alla scrittura di Daniele come se fosse un processo insoddisfatto (e
forse aleatorio) di condensazione e spostamento, di costruzione e
distruzione di elementi costitutivi la realtà personale dell'autore,
anzi una verità "inverata", statuita e riparametrata come tale, per
quanto possa essere - scrive un Poletti/Debord - "una verità parallela
al vero". Una realtà in cui certo entra anche il perturbante, cioè la
dialettica tra il consueto, l'ordinario, il quotidiano, l'oggettuale e
il senso di alterità, di estraneità, di "doppiezza" che essi possono
generare quando si innescano certi corti circuiti ("è sconfortante come
la mela conosca l’albero / e l’albero non conosca la mela"). Dal punto
di vista di questa rielaborazione continua di materiali può essere utile
ricordare anche che alcuni dei testi di questo libro provengono da
un'altra prova (credo del 2013 o 2012, non ricordo se uscita a stampa)
intitolata, guarda caso, "Sui Quaderni in ottavo di K. (Ottativo)", cosa
che però non è detto che giustifichi o intersechi il titolo attuale (e
soprattutto il "prodotto" poetico attuale).
Da un altra prospettiva i termini scientifici che costellano il libro
dovrebbero per loro natura fornire un aggancio alla "verità", a qualcosa
di inconfutabile all'interno del materiale composito di cui si diceva,
ma appaiono anche come elementi "duri", come conchiglie puntute che
trovi camminando sulla sabbia, corpi alloctoni, misteriose presenze non
necessariamente funzionali alla comunicazione, come moai in un
paesaggio spopolato. E' anche un ricorso alla techné, a qualcosa di
surmoderno, un ammiccare ad un sentimento del tempo in cui l'umanesimo
in crisi si misura con un positivismo scientifico che da parte sua non
se la passa bene, anzi è morto e sepolto. E insieme un affermare: ecco,
vedete, le parole hanno ancora una consistenza, come se fossero ancora consequentia rerum.
Un approccio ricorsivo negli scritti poetici di Poletti, almeno in
quelli che ho avuto occasione di leggere. Ma anche i termini botanici,
anatomici, fisici, medici ecc, fanno parte di quelle cose concrete (o
empiricamente verificabili, se si rimane in ambito scientifico) che a
loro volta intridono quel materiale composito di cui si parlava.
Sembrano d'altra parte corrispondere, nella loro concretezza, ad un
grado di puntuta attenzione, forse proprio in quelle "deprivazioni del
sonno" che fanno da pietre confinarie nel testo. Uno stato di veglia,
forse ricercato e indotto ("Benzodiazepine in etere ottundimento,
riduzione della vigilanza, / difficoltà del verbale, diplopia, l’albero è
un albero / l’albero e la sua funzione") che però non sospende in
maniera drammatica solo il sonno, ma per forza di cose incide anche sul sogno, inteso come distruzione, ricostruzione e superfetazione della realtà.
La scrittura di Poletti ha (allora) in sé il suo desiderio e la sua
potenzialità, tenta di agire in sé non come strumento di lettura del
mondo, ma come parte e forma di esso. Forse è in virtù di
questo che, pur mantenendo un andamento certo sperimentale, il libro di
Daniele non scivola mai in quella arroganza, quella presa del potere
della parola in cui la parola vale qualcosa a prescindere da quel che
dice, diventa rara e perciò preziosa e il suo valore cresce in maniera
inversamente proporzionale alla sua usabilità. Al di là delle indubbie
difficoltà il libro non è oscuro (Daniele diverse volte si è dovuto
difendere da questa accusa) per chi voglia carpire il senso di questo
percorso (formativo o plastico, direi), addirittura a tratti illuminato
da lampi assolutamente lirici, emersioni che non erano sfuggite, a suo
tempo, a uno dei più attenti lettori di Poletti, Edoardo Sanguineti). Il
percorso complessivo mi pare chiaramente indicato a chi legge, e
ampiamente aperto alle libere interpretazioni soggettive proprio grazie alla sua non univocità, nella accezione in cui intendeva il termine U. Eco. Anche la chiusa ha il suo senso. Alla fine si perde
la definizione, forse la chiarezza, forse la strada (dico il lettore,
perché certo l'autore nasconde tra i suoi materiali coordinate e punti
geodetici utili a ritrovarla, magari andando a ritroso): perché le
"deprivazioni del sonno" G,H e I subiscono in chiusura del libro uno
smottamento grafico che le rende progressivamente illeggibili, scivolano
in altre parole, in ammassi di una inintelligibile oscurità. Forse è
obnubilazione. Oppure il sonno è giunto, le palpebre si sono alla fine
chiuse. Immaginiamo che inizi un altro libro, forse un libro "nero",
un'opera di una diversa densità. L'amico Daniele, se vuole, può
prenderlo come suggerimento. (g.cerrai)