Davide Castiglione - Non di fortuna - Italic 2017
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Ho già scritto qualcosa su Davide Castiglione (v.
QUI
), a proposito del suo Per ogni frazione, uscito per Campanotto
nel 2010. In quell'occasione terminavo l'articolo con una sospensione,
aspettando di "osservare Davide alle prese con qualcosa di più progettato",
dopo aver sottolineato non pochi elementi di interesse in un libro forse un
po' frammentario ma dotato di "una sorta di raffinato understatement
emotivo di discreto effetto".
Credo che un po' delle cose che scrissi allora debbano essere accantonate,
non necessariamente nel senso di "meglio o peggio di". Semplicemente o le
cose cambiano o si assumono come parte dello stile di un autore, di una sua
maniera di vedere poeticamente la faccenda.
La poetica di fondo mi pare infatti che rimanga immutata. Una inquietudine
a volte irrelata, cioè non esattamente definita nelle sue motivazioni, che
si riflette sulla realtà o da essa proviene, mediante una osservazione
bifronte o bidirezionale, non sempre attivamente esercitata, ma semmai
riverberata in uno spleen il più delle volte solitario, una
cogitazione riguardo all'essere lì e in quel momento,
dove però "giustamente è tardi", "tutto è appena", essendo "fuori tempo
massimo". Si ha in effetti, leggendo questo libro, l'impressione di una
ricerca di collocazione nel reale, in cui però il caso, e non la volontà,
abbia una parte preponderante (anche nella fornitura di "occasioni"), e
dove la scrittura cerchi di mettere ordine, cedendo però talvolta alla
tentazione di mimare il disordine stesso del caso. Se si ottiene così un
effetto di scoppio ritardato, Davide ha però ben presente la necessità di
cogliere, in questi nodi, quanto vi è di poetico o di registrare quelle
piccole manifestazioni epifaniche che nel quotidiano (il tempo è quasi
sempre, anche qui, uno scorrevole presente) si incistano. Il problema (e la
necessità) della poesia di questa ispirazione, o con questa linea, sta nel
dilemma tra trovare e cercare il poetico, con una ricerca
che - rispondendo ad un bisogno di deformazione del tangibile "ordinario" -
è affidabile solo al linguaggio, alla sua capacità di trasformare
l'impoetico in poetico (ovvero, secondo un pensiero leopardiano,
nell'illusione che allontana la visione del nulla). Dico questo perché non
sempre è possibile trovare, nel qui e ora - e scriverne -,
un'illuminazione, un simbolo, una parafrasi dell'esistenza, senza, diciamo
così, lasciar fare un po' anche all'immaginazione, andare a vedere cosa c'è
davvero dietro e sotto, o inventarlo. Castiglione ha un
certo talento, per quanto discontinuo, nel fare questo, nel tentativo cioè
di dare una lettura sovrareale alle cose, e mi ricordo di aver parlato, a
proposito del suo libro precedente, di "corti circuiti poetici addirittura
eccellenti", forse in quest'ultimo lavoro un po' più dispersi. E' una
poetica dell'esistente, e quindi di un habitat, da abitare e forse
adattare alla propria sensibilità, nel quale le memorie non si sono ancora
sedimentate, è tutto ancora in divenire, da farsi, un divenire tuttavia in
cui il tempo ci sorpassa, come dicevamo prima, e questo farsi non sembra
implicare una speranza, un investimento nel futuro. E' tutto molto attuale,
da questo punto di vista, e tutto molto individuale, voglio dire
dietro c'è una generazione e insieme non c'è, c'è qualcosa di
critico e non c'è, c'è insomma una solitudine. Da un altro punto
di vista, divergente, in Per ogni frazione mi pareva ci fosse una
diversa aderenza alla realtà così com'è, o più flânerie, proprio
nel senso baudelairiano del termine, uno sguardo su una realtà che però era
forse possibile mutare simbolicamente. Ora la proiezione del tempo in
Davide è decisamente cambiata, mi pare più frantumata e disillusa, per
quanto anche allora lo fosse, vi fosse una questione in sospeso, un punto
interrogativo sotto traccia riguardo alla leggibilità degli accadimenti. In
alcuni testi questa sospensione ripiega in una oscurità del dettato non
sempre traducibile, che a volte prende le mosse da un oggetto, evento,
fatto sfumato o criptico, come una conoscenza esoterica che compete a
pochi. E' vero che a questo concorre una padronanza della lingua notevole,
a volte funambolica, con costruzioni a volte precipitanti, paraipotattiche
e seriali subordinate nelle quali il dubbio, l'interrogazione, la domanda
inevasa nuotano a proprio agio, sfociando non di rado in qualche postura
filosofica. E' pure vero che in questa scrittura capita anche di incontrare
qualche ingenuità, qualche forzatura, qualche jeu de mots palese
che non ti aspetteresti: "a brutta posta", "lo propelle una passione
gelida", "fatto sta che / ma il fatto non sta", "iniziare e frinire",
"commutano: nel senso del fare / avanti e indietro", "confessa chi fa gli
orrori di casa", "l'opera di sapone, soap, / sob", "gli animaletti sbadati
eternati nel bitume". Ma anche questo credo che rientri in una ricerca e ne
sia un po' lo scotto da pagare, Davide è un critico troppo raffinato (altra sua
attività che apprezzo molto) per non saperlo e prendersi qualche rischio.
Assumiamolo semmai come specimen di una qualche pressione sul piatto significante della bilancia espressiva. Sbilanciamento che
tuttavia (generalmente parlando, non solo nel caso di Davide) può
contribuire egregiamente a quella "obliquità" o significanza (superiore
alla informatività del significato) della poesia a cui allude M. Riffaterre
("la poesia esprime i concetti e le cose tramite obliquità. In parole
povere, una poesia dice una cosa e ne significa un’altra"). E' solo un
problema, direbbe un pianista, di pedale.
Di che parla la poesia di Castiglione? Be', in parte l'ho accennato, parla
di star solo sul cuor della terra, ma senza una singolarità che rischi di
farsi massa critica, che sia prodromo di tempi diversi, parla di un "io
immerso nel divano", che "non [sa] scegliere né rinunciare". Il giorno, il
presente di cui ho parlato altre volte, non può che avere la sua
ripetizione come condanna. C'è anche una privatezza, che qui ad esempio
trova la sua espressione nella sezione, appunto, "Privati", che peraltro è
a mio avviso la migliore, forse perché mi pare essere quella in cui di più
Davide parla di sé, più direttamente lega l'esperienza al suo sentire anche
lirico, senza troppe intermediazioni, dove anche il paesaggio urbano,
postindustriale, appare dotato di una sua umanità, per quanto residuale,
perfino di una certa affettività. Ma lo sguardo sulle cose, anche sui
rapporti sociali, sembra non solo disilluso ma volutamente privo di
emotività, come se si fosse ulteriormente allontanato quell'io
"immediatamente al di fuori del cerchio degli accadimenti, a volte un
interessato osservatore esterno, a volte uno che attraversa come un
passante l'area poetica per poi lasciarsela accaduta alle spalle" di cui
parlavo a proposito del libro precedente.
Il versante opposto è in qualche caso anche acribico, uno sguardo gettato
su una realtà microscopica, pixellizzata (e quindi scontornata), dalle
stelle agli acari, quasi che il calarsi nella realtà fosse un
attraversamento di strati e livelli, come in certi film dove il satellite
zoomando si cala nel poro della pelle del protagonista. La realtà cambia se
la si guarda da molto vicino? (ma qui bisognerebbe per l'ennesima volta riaprire
il discorso sul divario tra realtà e reale). Temo di no, temo che sia
troppo complessa per poterla sistematizzare in questo modo. Rimane certo il
grido solitario e cocciuto di fronte al vuoto, non potendo comprendere ciò
di cui si fa parte come minuscolo frammento, come la scheggia di uno
specchio immenso, against the fog but part of it, come recita un
esergo di Sean O'Brien. E non posso fare a meno di trovare, oltre agli
esiti letterari, qualcosa di eroico in questa battaglia perdente, che non è solo di Davide e di altri della sua generazione, ma nella
quale Davide è un buon soldato, con le sue armi, con le sue paure, le sue perlustrazioni in terre di nessuno, le
sue ritirate. (g. cerrai)