Parlavo in altre occasioni di nota di fondo persistente che può restare
in mente dopo la lettura di un libro, un'impressione (o forse
un'illusione) che quella possa essere una delle chiavi di
interpretazione. Nel caso del libro di Massimo Barbaro le note sono
diverse e concorrenti, come vedremo, dando intanto per acquisito
sostanzialmente quanto affermano sia Manu Bazzano che, forse anche più,
Marco Ercolani nelle loro note di accompagnamento alla silloge. E cioè
che questa poesia, per quanto in modo singolare e personale, appartiene a
un filone sotterraneo che sempre più spesso mi capita di incrociare,
quello di una poesia posta all'incrocio tra epifenomeni ed epifanie, a
metà strada tra l'imperscrutabilità di una realtà che si manifesta per
frammenti e strascichi e l'esigenza di darne, comunque, una qualche
decifrazione. Se Bazzano parla di interstizi delle cose, tracce,
ordinarie rivelazioni, di attimi registrati quasi passivamente, Ercolani
infatti sottolinea l'addensarsi di questa poesia in una "leggera
rapsodia" (per quanto "filosofica") in cui trascorrono la "limpidezza
della meditazione", i "minimi sentimenti universali", le - appunto "
piccole epifanie", sempre però "attraverso la magia di un linguaggio
minimo". Tutto torna.
Vorrei però aggiungere qualcosa, che credo possa avere qualche corrispondenza con quanto accennato sopra:
- lo sguardo: in questa poesia c'è molto sguardo, sia come singola
parola che come concetti afferenti alla medesima area semantica
(sguardo, guardare, vedere, immagini, occhi), ma anche al suo opposto
(nascosto alla luce, cose nascoste al pensiero, buio, luce fredda,
oscuro). Le due cose non si elidono, semmai concorrono a una specie di école du regard
ma con meno carica sperimentale (sia detto con favore), almeno nel
senso di una descrizione fenomenologica di eventi e cose, di sospensione
del tempo, di allontanamento del soggetto (c'è molto poco io qui, oppure - dice Barbaro rammentando Rimbaud - "l'io sono qui ma / potrebbe essere / benissimo / altrimenti altrove").
- la distanza: quanto si diceva sopra sembra a sua volta essere
filtrato, o intersecarsi, da una parte con un pessimismo molto moderno
(si parla in certi passi di inutilità delle cose, inutilità del vivere),
dall'altra con una assimilazione culturale di stampo orientale con cui
Barbaro (se ci soccorrono le note bio) sembra avere dimestichezza. Lo
sguardo è da questa distanza, e questa distanza non è solo ottica ma
anche mentale, concettuale o filosofica. L'evento, il fatto,
l'osservazione vengono accostati (o meglio aspirano) più che a una
epifania ad una "illuminazione" e sembrano sempre condotti da una
disciplina ("il respiro condotto per mano / sui sentieri impervi della
disciplina"). L'esito va dall'estrema sintesi di un koan ("la
campana chiama le nuvole / sì, adesso capisco le ardesie") a testi più
distesi sempre però sorretti da un respiro (e da un pensiero) lungo e
controllato, fino alla composizione di testi (ancora forse per marcare
una distanza) in francese o inglese che evaporano in puro suono.
- la sospensione: in entrambi i casi di cui si diceva sopra agisce una
essenzialità del linguaggio ("minimo", dice Ercolani), ma anche una
certa neutralità legata alla scarsità di elementi connotativi come ad
esempio gli aggettivi o altri elementi "emozionali". Questa
essenzialità, insieme alla distanza, porta a una sospensione del
giudizio, ad un lasciare la presa; il che non è fuga, nè quietismo, ma
semmai una convinzione filosofica che forse proviene a Barbaro da una
certa frequentazione del pensiero orientale a cui accennavo prima, o
meglio ancora, per citare lo stesso Barbaro, una "consapevolezza
tranquilla". In effetti qui non c'è azione, non ce n'è molta (il tempo
ristagna, l'attimo rimane sospeso, l'immobilità scavata del vento) né in
chi osserva né in cosa è osservato. Anzi, per dirla ancora in termini orientali, c'è non azione. Forse, in questi giardini, contemplazione.
Insomma, chi sono gli scettici a cui fa riferimento il titolo? Credo
proprio che siano quegli antichi greci che fin dal quarto secolo a.C.
erano giunti alla convinzione che fosse impossibile afferrare una realtà
sempre evanescente e mutevole. Certo qui non ci sono solo gli scettici
con la loro epoché e la loro atharassia, c'è molto altro depositato in questi testi lavorati a freddo, in cui risaltano (v. qui sotto) momenti intensi come contatto con la terra oppure apart from the apories (una vera epifania delle epifanie). E
infine, tengo a sottolineare, l'insieme degli elementi cha abbiamo
visto produce un quadro per converso in-quietante (nel senso vitale e
positivo del termine), instilla nel lettore il dubbio di non avere
(ancora) afferrato il senso pieno, lo invita come lettore a ripensare la
sua stessa posizione privilegiata e irresponsabile nei confronti
dell'autore.
Massimo Barbaro - Nei giardini degli scettici, Ed. del Foglio Clandestino, 2009