Michele Ortore - Buonanotte occhi di Elsa - Vydia Editore 2014
I testi chi qui pubblico sono tratti dall'ultimo libro di Michele Ortore e
rappresentano, a mio avviso, la parte più significativa e più convincente di
una raccolta, a tutti gli effetti un'opera prima, che appare talvolta
discontinua, o per lo stile o per il registro, di una discontinuità che
non è certo addebitabile soltanto al variare della materia trattata o
della ispirazione, e quindi della "tonalità" del canto, o alle semplici
eco - nella scrittura - delle letture dell'autore. Sembra piuttosto
ascrivibile a una ricerca di una originalità propria e di una voce "atta
allo scopo" (e la ricerca è sempre apprezzabile), ad una curiosità di
appassionato che svaria da Ginsberg a Fortini a Rilke alle avanguardie
nostrane passando per l'Aragon a cui allude il titolo (la Elsa è la
Triolet musa e compagna del poeta francese) e che sembra lasciare a
volte il suo persistente alone (un esempio, Si può pensare dopo le idee:
"Ci siamo sciolti al chiaro di luna / nel petrolio ostiense salato /
come teneri barbari senza domande, invasioni / da vivere, vini da bere
nei teschi; / mani e polsi e vertebre stellate / gocce di latte lungo la
schiena / e porte vuote del senso da aprire con diamanti / nelle notti
del Circo Massimo [...]", insomma, non solo Ginsberg ma forse anche
Blake, no?). Ma il problema - ammesso che sia tale - si esaurisce qui,
ed è comunque del tutto aggirabile, dato che non si tratta nemmeno di
calchi o manierismi, ma - non raramente - di un gioco ricombinatorio di
marca postmoderna (uso a malincuore questo aggettivo, talmente logoro),
forse consapevole forse no e non sempre azzeccato (ma M.G. Calandrone
nella prefazione afferma: "Ecco dunque il lavoro segreto di questa
poesia: studiare, adoperare le parole in funzione di numeri primi e
ennesime potenze e, in questo, disfarsi del senso semantico in direzione
del ben edificare, quasi che Ortore provasse e riprovasse allo scoperto
le sue formule"). Ecco, giustamente, "provando e riprovando". Ovvero il
motto della scuola galileana, ove il "riprovare" non è - solo - il
provare di nuovo, ma anche il rifiuto del non significativo, il vaglio
critico, o magari autocritico. E' nello scarto, mi sento di dire a
Michele, cioè nella consapevolezza della inefficienza o del successo di
una soluzione che il poetare, come la scienza, raggiunge la sua luce,
ben oltre il "ben edificare" che dice Calandrone. Come ben sapeva T.S.
Eliot, confidando nel suo "miglior fabbro".
Le poesie che qui ripropongo, da altro punto di vista, raggiungono bene
una compiutezza espressiva, anche originale, uno stile proprio, ma
soprattutto alcune delle qualità che a mio avviso, come ho avuto modo di
scrivere altrove, definiscono una buona poesia. Sono cioè le poesie che
più sembrano trasmettere il coinvolgimento personale, l'esperienza
sentimentale, il tempo vissuto, , l'engagement, la capacità di
comprendersi e di approfondire questa comprensione, controllarla e darle
forma, farsi tramite di interrogazioni che non riguardano - o non
riguardano più, una volta scritte - solo l'autore, l'incertezza e il
dubbio, il senso di precarietà o l'ansia della perdita che accompagnano
anche i momenti più felici ma temperati però da una solido ottimismo
della parola, della sua capacità se non di salvare il salvabile (sia
esso il bene o il semplice ricordo che non si vorrebbe vedere
dissolvere) almeno di darne una suggestiva immagine latente. Ed anche
quei testi che, allorquando manipolano una materia non strettamente
sentimentale o affettiva come un pensiero politico o sociale o il
mutevole orizzonte della natura o un moto di coscienza, lo fanno con
inventiva, con capacità di giocare su più piani di senso (v. Il cappello di Talete o Polvere di statue o Nuvole rosse in Birmania)
o quelli in cui anche i riferimenti ad altre culture o alla cronaca
vengono filtrati da una sensibilità tutta "nostrana", anche ironica,
come in In memoriam Edoardo Sanguineti. Il mondo di Ortore si
presenta vario e articolato, certo non facile e certamente con i suoi
dolori o smarrimenti, ma direi privo di quel senso di catastrofe
incombente che anima molta altra poesia di giovani. C'è in definitiva
una riserva di speranza, molto probabilmente alimentata non solo come
dicevo prima da una fede nella parola e nel suo potenziale poetico, ma
anche da un senso, molto larvatamente espresso ma presente, di futuro.
Anche nel senso di una poesia che abbia altri "tempi" (e una sua
proiezione in avanti), altre cose da dire (quelle che esplora Michele o
altre) al di là di quel costante "presente" di cui spesso mi sono
rammaricato. Una poesia in cui non c'è addio, ma semmai un arrivederci,
una "buonanotte", in cui anche il confronto con la morte non è un
rammaricato ripiegamento ma è un disvelamento, un andare oltre i
"paraventi", la possibilità di un diverso ma non meno pregnante dialogo.
In questo senso parlavo di sentimento del futuro, di una attesa
inesausta, quasi religiosa, per la quale si può scrivere a chi non c'è più (nella bella e
dolente Dead line): "Tu rimani invisibile
nel tempo, sebbene come ho detto / lo sia sempre stata, e non slacciarti
il reggiseno nel frattempo / e aspetta se c'è da aspettare, respira
quest'assenza / che ora, come una volta, abbiamo in comune". (g.c.)