Francesco Macciò - Sotto notti altissime di stelle - Matisklo Edizioni 2013 (ebook)
Due parole intanto sulle Edizioni Matisklo, una iniziativa di Cesare Oddera e Francesco Vico, una casa editrice che produce e pubblica unicamente ebook, anzi veri libri digitali dato che si tratta di pubblicazioni nei maggiori formati correnti (pdf, epub, mobi) e con regolare ISBN, con un catalogo attuale di una dozzina di autori, tra cui il Mirko Servetti a cui avevo dedicato un post (v. QUI) prima che il suo libro uscisse, e Francesco Macciò, autore di questo "Sotto notti altissime di stelle".
Macciò ha un notevole curriculum artistico, ha cultura ed esperienza, ha una formazione, anche professionale, di tipo umanistico. Tutto ciò si sente, in questo libro, che è scritto indubbiamente con una notevole maestria, prosodica e linguistica. Si sente e pesa, per qualche ragione che vedremo. Comincio col dire che su molte affermazioni della articolata prefazione di Luigi Surdich sono sostanzialmente d'accordo, e servono bene a dare un'idea complessiva al lettore: il libro, diviso in cinque sezioni, può essere inteso essenzialmente come un ampio canzoniere in cui spazio (fisico e mentale) e tempo (dell'esistenza reale e del sogno), orizzontalità (dell'impatto con la realtà) e verticalità (dell'aspirazione), insieme al ricordo, all'emozione improvvisa, alla riflessione, sono pareti di una pluridimensionalità in cui Macciò si trova a suo agio, sperimentando spesso il limite, come afferma proprio Servetti in una nota introduttiva, tra Ineffabile, qualcosa che ha ancora una possibilità oggettuale (per quanto difficile) di essere "detto", e l'Indicibile, "il limite stesso entro cui il linguaggio, urtando, si infrange". Una impossibilità, e qui si torna a quanto osserva Surdich, che Macciò tenta di superare, tra gli altri mezzi, oltrepassando lo stagno del "presente", quel presente che un po' ammorba la poesia contemporanea, col tenere aperta sempre una porta col passato (e con il suo carico emozionale) e con i luoghi (che, nascendo fisici, diventano poi luoghi della memoria o metafisici o spazi della speranza), ma anche con la storia, piccola o grande che sia, e con quelle che l'autore chiama "compresenze", siano esse fantasmi che potrebbero riapparire, ombre di morti, o chi comunque ha fatto o fa parte della nostra vita. Con un interessante riflesso stilistico, poiché la porta con il passato è aperta anche da e per la tradizione, comprese forme di sperimentazione del linguaggio che hanno acquisito nel tempo un loro statuto.
Ecco perciò la rilevanza che ha ciò che il prefatore chiama "l'area delle scelte stilistiche". Che è una delle altre ragioni per cui a me questo libro interessa (interesse che implica necessariamente una critica): perchè Macciò è riuscito a costruire un autentico monumento barocco, un canzoniere in cui il ricciolo, il ghirigoro, la superfetazione, la citazione, la mise en scène sono presenze costanti e firme d'autore. Non mi riferisco soltanto a ciò che qualcuno chiamerebbe "echi" di numerose presenze novecentesche, ascendenti poetici, revenants culturali. Chi è che non ne ha? No, direi che in questi testi, c'è talvolta qualcosa di più, come una identificazione stilistica, un forte rispecchiamento che a tratti emerge e ti dà l'impressione di leggere non solo Macciò, ma anche Saba, Pascoli, Giudici e non pochi altri. No, non solo a questo mi riferisco, ma anche a quella "area delle scelte" di cui parla Surdich, che "prospettano l’allineamento e la convivenza di una pluralità di opzioni" e che determinano, non a caso, un "quoziente di concentrazione espressiva che i versi esibiscono" (corsivi miei). E che è piuttosto vasta: una varietà di di toni e di registri stilistici, segni grafici, lessico dialettale e letterario, terminologia tecnica, vocaboli di lingue straniere o antiche, figure retoriche, una serie insomma di "offerte pluridirezionali" da cui l'autore ricava "il materiale verbale per un amalgama piuttosto che per un pastiche", consegue "il traguardo della letterarietà" (sempre Surdich, altro corsivo mio). Come non essere d'accordo, in effetti è così, come è evidente in testi quali "Carnevale a Venezia" o "Il viaggio" (v. sotto), come se (ma per carità, è solo un'impressione) l'autore non volesse lasciare del suo bagaglio nulla o poco per strada, oppure, per dirla altrimenti, volesse tenersi in perfetto equilibrio tra l'asse della selezione e quello della combinazione.
E' per questo forse che la sezione che personalmente trovo pù genuina, più liricamente "vera" (prendendo questi aggettivi con le dovute cautele) è "La Corsica con i tuoi occhi" (ma anche, pur se diversamente, "Il monte di Bormano"), dove certamente tutta la mediazione culturale viene depotenziata a favore del lato "sentimentale" e affettivo, c'è (ovviamente c'è) ma rimane nell'ombra, non esibita perchè non funzionale, non necessaria, non significante, esattamente come non lo sarebbe quella selezione linguistica serratamente controllata che abbiamo visto. Forse per la semplice ragione che servono parole semplici per parlare d'amore.
E tuttavia, sia chiaro, sono proprio la sua complessità aerea e (ancora) verticale, l'ornato e il décor, l'esibizione e il nascondimento, proprio il suo essere - come dicevo - "barocco", ad assicurare a questo libro un indubbio interesse. (g.c.)