Luigi Fontanella - Lo scialle rosso - Moretti e Vitali, 2017
Nove poemetti o racconti in versi, scritti tra il 1999 e il 2014, ci dice
in una nota lo stesso autore. Con una buona misura di anglosassone understatement, direi. E in effetti la prima cosa che salta agli
occhi alla lettura di questi ampi testi lirici è come una necessità non
solo di narrare una serie di eventi ma anche quella di fissarli, prima,
come sopra una lastra e piegarli poi, modificarli e in sostanza gettarli
sotto una nuova luce. Come si sa, infatti, ogni fenomeno varia e si
modifica sotto l'occhio, magari innamorato, del suo osservatore. E' quello
che fa sempre la poesia, la poesia buona, come atto di ricezione di ogni accidente, di ogni brandello di vita: diventare qualcosa d'altro,
se non addirittura qualcosa di altri. Niente, per un poeta,
trascorre inutilmente. Vige insomma, come scrive Paolo Lagazzi nella
prefazione al libro, una "intermittente, appassionata, tenace memoria".
Ricordare che sono tutte connotazioni che ci rimandano tra diversi altri a
Montale è pleonastico, tanto più per Fontanella, tra le altre cose
professore di Letteratura italiana alla New York State University (Lagazzi
cita anche Savinio e Landolfi). Insomma, è la sua materia ed ogni eco non è
altro che un indizio culturale scevro da qualsiasi epigonismo, uno
strumento che si adatta perfettamente allo scopo. Come anche naturale, mi
pare, è la vicinanza di Fontanella ad una consolidata tradizione letteraria
non solo novecentesca, lirica soprattutto, ma che tiene ben presenti tutti
gli sviluppi stilistici, appunto anche in senso narrativo e di aderenza al
quotidiano, che soprattutto nel Novecento sono avvenuti.
Se i richiami, più o meno soffusi, possono essere quelli che abbiamo detto,
[tuttavia] qui non c'è molto di "occasionale" e non solo per la dimensione
testuale delle poesie, che denota una articolata elaborazione del materiale
poetico di partenza, ma anche perché questa poesia nell'evento non si
conclude, non diventa epifenomeno di qualcosa che ha colpito l'autore,
dirottando magari verso un esercizio di stile, è decisamente antirapsodica,
come se esplicitasse la convinzione che l'occasione, se vi è, contiene una
"storia" (statica, diciamo) e un seme (dinamico), in altre parole rimanda
ad altre e ben diverse considerazioni, non necessariamente soltanto
"poetiche". Per quanto la memoria, in tutto il libro, sia elemento naturale
fondamentale, essa non è pura rimembranza, sia per l'apporto della rêverie, come annota Lagazzi, in costante dialogo con una realtà
oggettuale, sia perché Fontanella ha chiari i suoi obbiettivi poetici. Che
mi pare siano quelli di evidenziare una dimensione spirituale degli eventi,
per quanto eminentemente laica, e un loro ethos, cioè,
letteralmente, un luogo in cui vivere, in altre parole (e non è certo un
truismo) la vita medesima. Per cui il fatto, nella dimensione poetica,
diventa qualcosa di rizomatoso, per dirla con Deleuze, il fatto,
per sua definizione "passato" e tuttavia non muto, rivive di un'altra vita.
A me pare che si tratti di qualcosa di diverso dall'epifania,
dall'agnizione o da un momento meramente ispirativo. Non è qualcosa di cui
l'autore dice ah, bene, ecco un frammento di vita di cui può valere la pena
scrivere, o non soltanto. Mi pare che questa scrittura diffusa, così
fortemente fàtica, che descrive le cose nel loro aspetto sensibile e in
quello meno evidente, sia un tentativo di ridefinire certi confini, che
sono soprattutto tra la vita stessa (vissuta e - scrivendo - rivissuta) e
la morte come luogo in cui non è più possibile dire. Potremmo definire
tutto ciò semmai come una rivelazione, un disvelamento di implicazioni che
però non provengono da nessun iperuranio, o da un''ispirazione di tipo
romantico. Semplicemente già c'erano, sotto lo sguardo niente
affatto passivo del poeta, che è facile che magari impropriamente ci ricordi, nel suo peregrinare per le strade di Firenze o New York, una certa flânerie baudelairiana. Uno sguardo inoltre che in molti di questi
componimenti è condiviso, non solo con il lettore ma anche con chi, quasi
sempre, è testimone dell'evento insieme all'autore. E se non ci sono
testimoni, in queste narrazioni, ci sono personaggi letterari, gente
incontrata per strada, amici e colleghi citati, exerga e rimandi letterari,
che concorrono ad ampliare lo sguardo sulle cose. Sotto questo punto di
vista potremmo dire che in questi testi non c'è una visione strettamente
"privata", poiché mi pare che Fontanella non vi cerchi una catarsi
personale, o una purificazione dell'esperienza dal prosaico a beneficio di
un ipotetico lettore, ma che dia voce, per tutti, al possibile,
soprattutto al possibile significato delle cose. In altre e diverse parole,
non estetizza il suo materiale, e questa è una delle caratteristiche del
suo stile.
Il poemetto eponimo, Lo scialle rosso, è emblematico
dell'approccio di Fontanella alla sua materia. In una piovosa e ventosa
giornata di fine Aprile, lo scialle rosso della accompagnatrice del poeta
vola giù da un ponte di Ottawa. L'accadimento si esaurisce subito, lo
scialle rosso scompare dalla scena, per fare posto in sostanza ad un
sentire, a un sentimento del tempo che poi lo scialle, che
riappare negli ultimi versi, avvolgerà simbolicamente, proteggendolo e
chiudendo il cerchio. In mezzo Fontanella sviluppa una canzone sulla
fragilità, rispetto al caso, al mondo o all'essere altrove, la fragilità
individuale, e tuttavia la resistenza, della poesia soprattutto, come
emblema di un nucleo forte dell'uomo. Le intemperie, anche simbolicamente
intese, sul ponte di Ottawa "sbriciolano" il gruppetto di amici poeti (e
testimoni, si diceva), lì presenti, come Davide Rondoni, Plinio Perilli,
Irene Marchegiani, e scomparsi, come Giovanna Sicari, e lontane evocazione
italiane. Ma sappiamo che tutti, o almeno la poesia che rappresentano, si
ritroveranno. Lo scialle rosso quindi appare essere, come dicevo, non tanto
un elemento epifanico e nemmeno un correlativo, quanto un potente marcatore
mnemonico, in più carico dei segni del colore e del volo, da cui l'autore
procede a costruire il suo impasto di narrazione e sogno. Nel quale la
memoria non si esaurisce ma si rinnova come rappresentazione e
immaginazione (lo stesso Fontanella rammenta, in una nota, il "connubio,
che mi è caro, oscillante tra immaginazione e memoria, così come ne parla
André Breton nel saggio Situazione surrealista dell'oggetto"), pur
essendo questa poesia, va detto, ben lontana da territori surrealisti o
anche simbolisti. Naturalmente questo registro, che si ripresenta anche in
altri poemetti importanti come Dittico praghese e The old town, non è l'unico di cui dispone l'autore. In altri
testi, che per alcuni aspetti preferisco, come Lettere al padre e Canto del distacco, il tono è più eminentemente lirico/elegiaco, o
forse nervaliano come dice Fontanella, ma certo più venato di un intimo e
privato sentimento di rimpianto, una affettività che in un certo senso ci
avvicina maggiormente al poeta, testi in cui si allenta un poco la vena
descrittiva, meno assiepati di "oggetti" e di nomi, un linguaggio che non
ha necessità di articolarsi in narrazione o di dire "tutto" (come ad
esempio in Old Town e Efemeridos) perché lavora sul piano
di una percezione pura o se volete di un'empatia in cui
gioca più il cuore che l'intelletto. (g. cerrai)