Giusi Montali, Luca Rizzatello - Faria - Dot.com Press, 2016
Come dice la nota di apertura, in questo libro a quattro mani - quelle
di Giusi Montali e di Luca Rizzatello - ci sono 14 "testi fonte"
dell'uno e 14 "riscritture" dell'altro, divisi in due sezioni, L'agiografia umana (Rizzatello → Montali) e Il signor klek (Montali
→ Rizzatello); e un paio di regole: che c'è più di un autore ma meno di
due, e che si tratta di letteratura di evasione ma in senso
escapologico, ovvero - come si precisa oltre - come evasione da ogni
preconcetto poetico e da ogni conformismo.
Come si vede le ambizioni ci sono, o forse vanno intese come
dichiarazioni di poetica, che però il lettore, mi pare, non è tenuto più
di tanto a verificare. E basterebbero queste, ma in realtà avvertenze e
raccomandazioni ce ne sono parecchie altre, tanto che complessivamente
finiscono per costituire un tramaglio per chi legge, o un voluto
depistaggio (termine che usa Sergio Rotino nella nota di lettura finale,
ma va considerato - a margine e poi magari ci si torna - che il
depistaggio può essere assunto come artificio retorico/poietico, con
qualche vaga parentela con il détournement di debordiana
memoria). Compreso il titolo sulla cui reale definizione, ci dicono in
quarta di copertina, è meglio non speculare troppo, perché forse il
Faria è quello che subito viene alla mente o forse no. Va aggiunta a
questo, sempre in premessa, la chiave di lettura che viene anch'essa
offerta al lettore, riguardo alle due sezioni del libro: l'agiografia umana
"è un ciclo di immagini...su alcuni fatti storici, condizioni sociali e
aspetti universali...un affresco contemporaneo", tra realtà e
immaginazione; il signor klek invece "è la narrazione di un
tentativo di analisi della realtà da parte di un soggetto e al contempo
uno studio che un altro soggetto fa sul primo", in chiave - anche -
psicologica. Quindi, mi pare di capire, l'uomo nella storia e la storia
nell'uomo, alla luce, come abbiamo visto, di una fonte (cioè un punto di
vista "sorgente", in qualche modo originale) e di uno scolio (meglio
dire una rilettura, forse un rovesciamento).
Come vedete, è un libro molto "spiegato", fin dall'inizio. Si tratta di
accettare o meno queste carte, il gioco poetico che viene proposto.
Andare a vedere, ad esempio, in che modo si realizza la riscrittura, o
in che modo si confrontano e affrontano due scritture non
necessariamente paritarie, che anzi tentano di "dimostrare" sé stesse
appoggiandosi sull'altra, in un contrasto che è certo interessante ma
non sempre, come dire, efficace. Il dialogo è ravvicinato, ma è anche -
talvolta - dialogo tra sordi, stante che anche qui si realizza una certa
incomunicabilità che è nell'ordine dell'umano. Tanto che spesso si
procede per agganci semantici, per echi di parole, per associazioni e
cooptazioni, dato che è il mezzo più agevole per stabilire un contatto,
come del resto in ogni rapporto interlinguistico o, per estensione, in
ogni traduzione. Agganci da cui poi il pensiero svaria, détourne,
costruendo - poieticamente - un altro castello di significanze, non
necessariamente organico al primo. Producendo, scrivono gli autori, "le
ipotetiche conseguenze". Come avverte Rotino, e sono nella sostanza
d'accordo: "Tradire, tradurre, traslare per interpretare mai conoscendo -
e già conoscendo - il pensiero fatto parole dell'altro, rincorrendolo
(...). Un inseguimento circolare, dove ogni rivisitazione del testo, ogni
reinterpretazione del testo, ha bisogno dell'errore quanto della
precisione".
Un concept book, dunque? Sì e no. Sì nel senso di una architettura, di una idea sul come fare
che sta a monte, che è preesistente e in qualche modo autonoma. No,
perché poi la scrittura, almeno nella sua componente profonda e sorgiva,
prende il sopravvento (anche qui in maniera non paritaria, poiché
logicamente diverso è il controllo dei due autori sulla scrittura
stessa, sulla lingua, sullo stile, e le differenze si vedono), scarta, e
segue le sue strade, accantonando il più delle volte la tentazione del
calco o della mera traduzione nel testo a fronte. Forse sta in questa
caratteristica (e nell'altro elemento di "scarto" che dicevo prima) il
motivo principale di interesse di questa prova. La lingua qui (e forse
lo si voleva dimostrare) ha un effetto eco che si riverbera su (o
innesca) la produzione del pensiero poetante, ma - ripeto - non sempre
convergente da (e su) un punto di vista, per così dire, tematico. Come
se lì al centro, dove il libro si spalanca davanti al lettore, nella
dialettica fonte/riscrittura si fronteggiassero due differenti approcci
gnoseologici alla realtà. Dare per esatta questa impressione,
l'impressione di questa vista binoculare - ammettiamolo per un momento -
non implica un giudizio di valore, ma semmai da parte del lettore
l'accettazione di voci plurime, del fatto che la visione del mondo non
può essere univoca né corale, può essere relativa e contemporaneamente
essere una ed essere vera. Perché in fondo questo è,
nel suo complesso e con le sue ovvie discontinuità, un poema sull'uomo
come elemento decentrato e impotente della Storia e insieme come centro e
simbolo della sua propria e altrui umanità. Lo è nella componente
etico-politica della scelta dei temi, e nel loro rovesciamento (o
travaso, o messa in mora), come accennavo prima, da sociale a privato,
da collettivo a individuale, da esteriore a intimo, e viceversa. Una
componente non sempre agevole da trattare, una delle sfide di questo
lavoro, che è possibile superare solo trascendendo il "tema" (in fondo
qualsiasi esso sia e in senso lato) in espressione, e qui allora la
lingua non è solo funzione e strumento fàtico, ma anche protagonista
elemento iconico, immagine, recupero di frammenti culturali (vedo un Sanguineti, ad es.), rappresentazione; un testo/teatro, anche, in
cui i due "attori" rilanciano sé stessi per "farsi doppi e
intercambiabili - ancora Rotino - pur restando distinti e unici". O -
immaginiamo - al limite fino sovrapporsi. (g. cerrai)